No Tav/ verso il 23 marzo

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Basta un po’ di zucchero?

Basta un po’ di zucchero?

http://www.nicolettapoidimani.it

Una compagna mi ha segnalato alcuni giorni fa questo manifestino ricevuto per email.

Era inorridita – e io con lei – vedendo come si stiano affossando decenni di lotte e pratiche femministe.

La pillola, lo sappiamo molto bene. non ha nulla di femminista ma, anzi, è un contraccettivo che nuoce gravemente alle donne – e non solo dal punto di vista della salute.

Il fatto che i medici tendano ancora a rifilarla alle donne fertili di ogni età ha a che vedere con il business farmaceutico e con la mentalità patriarcale, non con la liberazione sessuale femminista.

Non si rileva, infatti, nessuna traccia di liberazione in un contraccettivo che è tutto a carico della donna – sia dal punto di vista della salute che dell’impegno a non scordarne l’assunzione. 
Né si rilevano tracce di liberazione in una mentalità incentrata sull’orgasmo maschile, cioè una mentalità secondo la quale le donne devono essere sempre pronte alla penetrazione quando lui ne ha voglia.
Dovremmo ormai sapere che il piacere femminile è soprattutto clitorideo e non vaginale…

Impillolarsi per il piacere altrui significa forse essere soggetto del proprio desiderio? No, a meno che il desiderio non sia alienato nel desiderare di essere desiderata. Ma questa non è liberazione: a casa mia si chiama eteronormatività. E l’eteronormatività genera sudditanza femminile.

Vorrei anche aggiungere che, gratta gratta, questa mentalità è di diretta derivazione dalla (in)cultura dello stupro, che riduce ogni donna ad uno – o più – buchi.

E allora basta un po’ di zucchero patriarcale e la pillola va giù? 

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Quattro passi verso l’8 marzo/2

Materiali di riflessione

Secondo passo

 “Lo sciopero delle donne: interclassismo e spoliticizzazione.”

Che cosa significa “sciopero delle donne” ? Interrompere il lavoro che una donna presta, di qualunque tipo esso sia e a qualunque titolo, significa far pesare alla controparte, in questo caso allo Stato quanto conti il lavoro delle donne nella società.

E’ quindi una richiesta di riconoscimento.

Ma una richiesta di riconoscimento è tutta interna al sistema, sia al patriarcato sia al capitalismo, che  ha assunto il patriarcato a seconda delle sue esigenze, e, in questo momento specifico,  rispetto alle esigenze della sua fase neoliberista.

Quindi la richiesta può essere riassunta in questi termini: se io non vengo riconosciuta per quello che valgo in questa società e per l’apporto che do, mi rifiuto di lavorare, e, allo stesso tempo, se la mia vita non vale e quindi non vengo tutelata dalle istituzioni rispetto alla violenza maschile, io mi rifiuto di dare il mio apporto a questa società.

E’ quindi una richiesta non solo  di riconoscimento  ma anche di  tutela.

Ma il patriarcato è una configurazione economica piramidale, gerarchizzata, autoritaria in cui la parte maschile è investita del ruolo guida e la parte femminile è in una posizione subalterna. E questo per una efficace messa al lavoro dei soggetti. Chiaramente il patriarcato viene assunto e reimpostato dal sistema a suo uso e consumo ed, infatti, il capitale, in questa sua fase, attraverso l’emancipazionismo ha caricato le donne anche del lavoro all’esterno in modo da ottenere due risultati: sfruttarle anche come salariate e inglobare, quelle che si prestano, nelle situazioni di comando e/o di potere e/o di trasmissione dei valori neoliberisti così che sostengano il sistema e perpetuino lo sfruttamento di tutte le altre e degli oppressi tutti. L’emancipazione delle donne è, comunque, sempre, sub iudicio, perché la loro condizione di lavoratrici in cui  sono soggetti di serie B, è evidente nel diritto che il capitale si arroga di rimandarle “a casa” qualora il loro lavoro non serva più o la loro disponibilità non sia più utile. E per far questo non occorrono leggi o proclami speciali, basta che attraverso i canali con cui il sistema produce egemonia culturale, faccia passare segnali ad hoc……la maternità è bella…le femministe casalinghe che rifiutano la carriera… le donne che lavorano sono troppo stressate…è necessario recuperare i valori del tempo dedicato a se stesse e alla famiglia… il lavoro è un falso mito… e così via a seconda di quello che serve.

Ma il lavoro principale che il sistema pretende dalle donne, a titolo tra l’altro gratuito, è quello riproduttivo e di cura, ed è questa la grande vittoria del patriarcato, aver fatto passare per “naturale” un lavoro  vero e proprio e averlo fatto passare per “non-lavoro”.

Quindi, scioperare come donne significa interrompere il lavoro che possiamo definire “all’esterno” o anche il lavoro di cura e riproduttivo che è il nodo centrale del nostro asservimento patriarcale? E se interrompere il lavoro di cura può essere tutto sommato fattibile, come si interrompe il lavoro riproduttivo? A meno che il lavoro riproduttivo non venga identificato con il lavoro sessuale, ma è una visione limitata ed è una forzatura, visto che il lavoro sessuale è un’altra attività vera e propria che ci viene accollata sia che sia a titolo oneroso che a titolo gratuito.

Fondamentalmente quindi scioperare significa far presente alla controparte che le donne lavorano nella società a tutti i livelli e che quindi pretendono riconoscimento e tutela dallo Stato.

Ma tutto questo  non ha niente di femminista e tantomeno di rivoluzionario, anzi è una dichiarazione  esplicita di subalternità sia al maschile che allo Stato perché si chiede alla controparte riconoscimento della propria esistenza.continua qui

 

-Le cose dette,quelle non dette, quelle taciute e le parole vuote

-Sciopero delle donne. Di chi? con chi? per chi?

-Riflessioni femministe sullo sciopero delle donne in America Latina, in Polonia, in Francia/retroterra e valenze/ quando genere e classe non si intrecciano.

  VOGLIAMO LA LUNA!

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La Parentesi di Elisabetta del 20/02/2019

“Talmudisti e Nicodemisti”

Cominciamo con un esempio che vale più di mille parole. Il movimento indipendentista catalano non andrebbe appoggiato perché non è guidato dalla classe operaia e si dovrebbe auspicare invece la repubblica federale spagnola, progetto in grembo agli dei che non vedranno né figli né nipoti. Maniera elegante, quindi, per dire no alla repubblica catalana e farsi belli evitando di esporsi.

Peccato che la borghesia sappia bene cosa fare. Gli indipendentisti catalani sono in carcere, verranno processati e condannati.

Questo è l’atteggiamento di tante persone che si autodefiniscono di sinistra, colte e inclite. È molto diffuso e si ripropone in tante occasioni. Si era già presentato con la rivoluzione castrista definita una lotta interna alla borghesia e, comunque, lontana dagli interessi della lotta di classe. Costoro sono i Talmudisti. Continua a leggere

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Quattro passi verso l’8 marzo/1

Materiali di riflessione 

Primo passo

 Integrazionismo ed emancipazionismo nella fase neoliberista del capitale

Le costruzioni che riguardano la “razza” e il “sesso” si rimandano l’un l’altra. I meccanismi di oppressione messi in atto sono molto simili come sono molto simili i percorsi di repressione, di addomesticamento, di coinvolgimento nelle strutture di potere.

Il neoliberismo che è la forma compiuta ed attuale del capitalismo nella sua necessità autoespansiva non può che distruggere le economie altre. Questo si proietta nel rapporto con le altre culture, nei cui confronti non c’è rispetto delle peculiarità, ma solo una forma di cannibalismo culturale, a conferma che il capitalismo è anche metabolismo sociale. Non a caso i due popoli più perseguitati sono, negli Stati Uniti, le/ i native/i e, nell’ Europa occidentale, le/i Rom, perché, entrambi , a questo progetto di integrazione, sono quelli che più si oppongono.

Questa è l’operazione in atto anche nei confronti di noi donne, è questo che intendono per emancipazione/integrazione, l’adesione ai valori della società patriarcale e alla sua strutturazione sessista, classista, razzista.

Con l’emancipazione usata come fine e non come mezzo, le donne che ricoprono un ruolo nelle istituzioni, ma anche quelle che, a vario titolo si identificano con i meccanismi di questa società, le donne in carriera che credono nella meritocrazia, nell’autorità, nella gerarchia, quelle in divisa e quelle che lavorano nelle istituzioni totali e nel controllo, quelle che usano la professionalità per contribuire all’assoggettamento delle personalità così dette “devianti”…tutte quelle che si prestano ad essere veicolo privilegiato del pensiero unico dominante perpetuano l’oppressione su tutte le altre donne. Questo comporterà, necessariamente, sempre, un gran numero di donne, la stragrande maggioranza, emarginate e oppresse in diverso grado a seconda del dato biologico, censorio, etnico. Il paradiso è promesso e non raggiungibile per tutte, solo per quelle che si prestano a tenere nell’inferno la stragrande maggioranza delle altre.

Le così dette “democrazie occidentali” hanno impostato in questi anni, attraverso la socialdemocrazia riformista, un meccanismo tanto perverso quanto efficace, con la strumentalizzazione dei diritti umani, delle donne e delle diversità, sia sul fronte interno che sul fronte esterno, creando una società dell’antirazzismo razzista, dell’antifascismo fascista, dell’antisessismo sessista.

E’ necessario smascherare questi meccanismi perché il femminismo o è liberatorio o non è. Non c’è più spazio per confondere partecipazione, quote rosa, emancipazione, ragion pratiche, realismo con la resistenza, la ribellione, la ragione rivoluzionaria.

NOI VOGLIAMO LA LUNA!

La maschera bianca/prima parte

La maschera bianca /seconda parte

La maschera bianca /terza parte

Emanciparsi… dall’emancipazione emancipata!

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Praticare l’intersezionalità: contro la colonizzazione del pensiero nero nel discorso femminista bianco

https://animaliena.wordpress.com/

Articolo originale qui

Il termine intersezionalità venne coniato dalla giurista nera femminista Kimberlé Crenshaw nel saggio del 1989 “Demarginalizing the Intersection of Race and Sex: A Black Feminist Critique of Antidiscrimination Doctrine, Feminist Theory and Antiracist Politics”, e le radici storiche di questa teoria risalgono alle problematiche evidenziate dall’abolizionista Sojourner Truth e dalla studiosa di liberazione nera Anna J. Cooper nel XIX secolo. In breve, l’intersezionalità teorizza che le identità di gruppi distinti (razza, genere, classe, ecc.) convergano a formare nuove e uniche categorie di oppressione. Ad esempio, l’intersezionalità afferma che l’esperienza dell’oppressione sistemica vissuta da una donna nera non è in alcun modo uguale a quella vissuta da un uomo nero sommata a quella di una donna bianca. Oggi l’intersezionalità ha saturato il discorso femminista bianco, ma l’uso del termine è diventato vago, al limite dell’insignificante. Di fronte a questa evidenza, prima di esplorare la teoria dell’intersezionalità di Crenshaw, credo che, in quanto donna bianca, debba iniziare il mio discorso identificando chiaramente cosa non sia e non possa essere per me l’intersezionalità. Intersezionale non equivale a universale, e non tutte le intersezioni di identità sono identiche, specialmente quando un’intersezione include la bianchezza. Indipendentemente dagli altri assi di discriminazione in gioco, la bianchezza conferisce un tale sostegno agli individui, che essi non possono sperimentare il pieno impatto dell’oppressione e della invisibilizzazione messi in luce dalla teoria intersezionale.

L’intersezionalità non è un’etichetta o un’identità, è una pratica istituzionale. Un individuo o un’istituzione non può semplicemente essere intersezionale, gli individui e le istituzioni devono mettere in atto l’intersezionalità nell’azione diretta, nella politica e nell’attivismo femminista, concentrando e amplificando in modo mirato le voci emarginate in primo luogo nello sviluppo delle stesse pratiche. Oltre alla disonestà intellettuale nei confronti di Crenshaw e del pensiero e l’attivismo femminista nero, il danno maggiore compiuto dall’esproprio liberale bianco dell’intersezionalità verso una semplice “teoria dell’esperienza” consiste nel rifiuto di interrogare il potere istituzionale. Ignorando che l’intersezionalità è soprattutto una teoria dell’oppressione, le istituzioni autoproclamatesi “intersezionali” non riescono a riconoscere, impegnarsi e cambiare la propria posizione all’interno dei sistemi di potere. In quanto tale, la violenza strutturale ne risulta rinforzata e ricreata, ma viene espressa nel linguaggio dell’inclusività e dell’intersezionalità. L’intersezionalità come retorica femminista bianca, quindi, diventa uno scudo dietro il quale le organizzazioni progressiste elidono di nascosto la radicalità e alla fine confermano lo status quo.

L’incapacità dell’intersezionalità di essere significativa nel discorso femminista liberale bianco non è quindi, come alcune donne bianche hanno erroneamente suggerito, un risultato dei limiti del termine stesso. In effetti, l’indeterminatezza dell’intersezionalità consente a tale idea una rara ampiezza di potere analitico, rendendolo uno degli strumenti più preziosi per analizzare le operazioni del potere e di oppressione rispetto ai vari assi di identità. La teoria di Crenshaw è particolarmente utile per analizzare come il razzismo e il sessismo interagiscano nell’oppressione specificamente vissuta dalle donne nere, e la conseguente cancellazione di questa oppressione dall’antirazzismo e dall’attivismo femminista maggioritario. Infatti, la vacuità del discorso bianco maggioritario sull’intersezionalità deriva dal fatto che le organizzazioni, le pubblicazioni e gli individui che si intuiscono come intersezionali non mettono in pratica tale teoria. Il discorso liberale sanifica il linguaggio intersezionale utilizzandolo in maniera vaga per affermare che persone diverse hanno identità diverse, che le portano a vivere esperienze diverse. Sebbene ciò risponda a verità, l’intersezionalità non è semplicemente un modo colto di dire “Prima di giudicare qualcuno, mettiti nei suoi panni”, ma una teoria del potere sistemico e dell’oppressione. Inoltre, le/gli esponenti liberali della teoria intersezionale l’hanno separata dalla sua storia nel pensiero femminista nero e nell’attivismo di base. Questa appropriazione del linguaggio intersezionale da parte della retorica femminista bianca è stata definita come violenza anti-nera e colonizzazione

Teoria dell’intersezionalità di Crenshaw

Voglio contrastare questo discorso bianco maggioritario che circonda l’intersezionalità focalizzandomi sulla teoria di Crenshaw come è stata sviluppata nel saggio summenzionato del 1989 e nel suo follow-up del 1991, “Mapping the Margins: Intersectionality, Identity Politics and Violence against Women of Colour”. In poche parole, l’intersezionalità si domanda se un individuo sia visibile all’interno di un particolare sistema legale. In altre parole, l’intersezionalità si chiede se tutti gli individui possa trarre potere dalle garanzie legali e dal servizio pubblico che dovrebbe proteggerli e sostenerli.

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23 febbraio/Cena Benefit al Nido di Vespe per l’Asilo Occupato!

La mattina del 7 febbraio 2019 con uno spiegamento di forze eccezionali, viene sgomberato (non aggratis) l’Asilo Occupato di Torino, vengono arrestati 6 tra compagne e compagni accusati a vario titolo di partecipazione ad associazione sovversiva per aver partecipato alle lotte contro i campi di concentramento per immigrati. L’esemplare resistenza ha permesso la più rapida mobilitazione dei solidali ed una generosa risposta, gli scontri con la polizia si sono protratti per diverse ore e ad oggi si contano altri 11 arrestati con accuse pesantissime quali tra l’altro devastazione e saccheggio. Conosciamo bene l’azione subdola e carogna del nemico di classe, conosciamo la loro politica di annientamento verso le sfruttate e gli sfruttati attraverso gli sfratti, gli sgomberi, i tagli sulla sanità, le privatizzazioni, la precarizzazione delle nostre vite, la totale ormai compiuta distruzione di “diritti” sul lavoro .
È tempo di organizzarci per far fronte ai soprusi e allo strapotere di uno stato boia sempre pronto a reprimere uccidere incarcerare.

RECLAMIAMO LA LIBERTA’ IMMEDIATA DELLE COMPAGNE E DEI COMPAGNI.

SABATO 23 FEBBRAIO 2019 CENA BENEFIT PER LE SPESE LEGALI AL “NIDO DI VESPE” VIA DEI CICERI 131 QUADRARO DALLE ORE 21.00

INVITIAMO INOLTRE CHI NON POTESSE PARTECIPARE DIRETTAMENTE ALLE ATTIVITÀ’ DI SOSTEGNO A LASCIARE UNA SOTTOSCRIZIONE SUL CONTO : Giulia Merlini e Pisano Marco IBAN IT61Y0347501605CC0011856712 ABI 03475 CAB 01605 BIC INGBITD1

Comitato di Lotta Quadraro

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Cosa si nasconde dietro il “ritorno volontario”

Cosa si nasconde dietro il “ritorno volontario

http://www.nicolettapoidimani.it/?p=1319

Ho ricevuto da Londra la traduzione di un testo di All African Women’s Group, che sta circolando in forma di appello. Lo pubblico volentieri, per mostrare la tossicità tanto della categoria di “ritorno volontario”, quanto delle narrazioni di ong sedicenti “femministe” che sono, in realtà, complici delle politiche statuali repressive e di controllo. D’altra parte, quando si elemosinano allo Stato rappresentanza e leggi diventa facile scivolare nel collaborazionismo…

Chi mi ha inviato la traduzione specifica: «L’”ambiente ostile” contro gli immigrati è la politica lanciata da Teresa May quando era ancora Ministro degli Interni. Il risultato più scandaloso di questa politica è quello del Windrush, dal nome della nave che nel 1948 portò il primo gran numero di immigrati dalle Antille nel Regno Unito, invitati ad aiutare a ricostruire il paese dalle macerie della guerra e a lavorare negli ospedali e nei trasporti. I loro discendenti, a migliaia, sono stati considerati immigrati illegali dal Ministero degli Interni. Molti hanno perso il lavoro, la casa, l’accesso ai servizi sanitari, non potevano più visitare il paese d’origine neanche per un funerale e ritornare nel Regno Unito. Altri sono stati deportati illegalmente e sono morti».

BASTA CON LE DETENZIONI E LE DEPORTAZIONI. I RITORNI ‘VOLONTARI’ NON ESISTONO
 
La nostra cara sorella Erioth Mwesigwa è stata deportata senza preavviso nell’aprile dell’anno scorso dopo oltre 25 anni nel Regno Unito.  L’hanno presa mentre firmava [nell’ufficio immigrati. N.d.T], portata dritta all’aeroporto e messa su un volo, tutto nel giro di poche ore.  Trasformiamo questo in un segnale di sveglia perché, quando il nemico colpisce, ci si tira su e si lotta più duro.
 
Il Ministero degli Interni sta accelerando le deportazioni e ha cambiato la sua politica per rendersele più facili.  Per  esempio la signora Mwesigwa aveva ricevuto una lettera che diceva che l’avrebbero deportata senza preavviso e le è stato negato il  diritto di appello mentre era ancora nel Regno Unito.
 
Come la generazione del Windrush, soffriamo l’ambiente ostile e insensibile del governo contro l’immigrazione.  Lo scandalo del Windush ha rivelato il dolore e la sofferenza provocati dalla deportazione e l’opinione pubblica ne è inorridita.

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Giù le mani dall’Asilo!

Giù le mani dall’Asilo! Giù le mani dalle compagne e dai compagni!

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Visca la terra lliure!

Catalogna libera, indipendente, repubblicana e rossa!

Si apre a Madrid il processo agli indipendentisti catalani che nel 2017 “osarono” indire il referendum e formulare  la successiva dichiarazione d’indipendenza dalla Spagna.

Qui quello che abbiamo scritto “Una lunga storia”  e    “Art.155”

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Report del presidio al CPR di Ponte Galeria di domenica 10 febbraio

Riceviamo e pubblichiamo 

Report del presidio a Ponte Galeria di domenica 10 febbraio 2019

Nella giornata di domenica 10 Febbraio, una quarantina di solidali si sono recate davanti alle mura del CPR di Ponte Galeria per portare solidarietà alle donne recluse nel centro. Il presidio si è svolto senza particolari tensioni.

Si sono succeduti interventi in diverse lingue che hanno tentato di raccontare le varie forme di resistenze messe in campo dai reclusi negli altri centri di detenzione per persone migranti, in italia e in altri paesi. Verso il finire del concentramento si è provato ad avvicinarsi alle mura del CPR per poter sentire meglio le grida che giungevano dall’interno. Prontamente le cosiddette forze dell’ordine si sono schierate sulla strada impedendo di avvicinarsi alle mura. Anche questa volta la digos, che imponeva di arretrare, ha visto le sue parole perdersi nel vento.

Gli interventi e i cori sono continuati, ma non è stato possibile il consueto lancio di palline contenenti il numero di telefono da far arrivare alle recluse, il numero è stato comunque più volte ripetuto dal microfono. Le urla da dentro hanno colmato il vuoto delle difficili e rade comunicazioni telefoniche. Evidentemente le minacce di ritorsioni continuano e le donne non si sentono tranquille nel comunicare con noi.

Oltre a questo ci è stato comunicato che il cancello del cortile interno era stato chiuso; la nostra presenza davanti alle mura di quel lager viene utilizzata come pretesto per aumentare la violenza agita sui corpi delle donne recluse, ostacolando la complicità e la comunicazione.

Sono stati raccontati gli episodi di resistenza che compongono la lotta, come quanto accade a Torino, dove nei giorni scorsi la repressione contro chi si oppone a gabbie e frontiere è stata dura.

Sono 6 gli/le arrestat* con l’accusa di associazione sovversiva nell’operazione Scintilla. Altri 10 sono stati invece fermati dopo i cortei che si sono svolti nei giorni scorsi a seguito della fiera resistenza portata avanti dalle compagnx e sappiamo che l’accusa che gli vogliono imputare è di devastazione e saccheggio.

In serata nel quartiere di Torpignattara c’era gente arrabbiata che urlava contro le frontiere e le galere, che ha lasciato un pò di colore e calore in una zona dove la gentrificazione e la guerra ai poveri è il pane quotidiano.

A quanto pare non si vuole più restare a guardare di fronte allo stato che attacca.

Come dicono i muri della città già da giovedì notte (giorno dei primi arresti a torino e dell’inizio dello sgombero dell’asilo) non possono fermarci! Infatti ogni mattina ci svegliamo con nuove scritte in solidarietà e complicità con le arrestatx a Torino.

NO NATIONS NO BORDERS

FUCK LAW AND ORDER

Nemiche e nemici delle frontiere

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Podcast dell’iniziativa “La Guerra/che fingiamo non ci sia” del 9/02/2019

Ciclo “La de-umanizzazione del soggetto”

Parte terza

I MECCANISMI DE-UMANIZZANTI SUL FRONTE ESTERNO/ Il neocolonialismo, le guerre “umanitarie”, la guerra asimmetrica..ne abbiamo parlato con Maria Rita Prette e il suo ultimo libro “LA GUERRA/che fingiamo non ci sia”Sensibili alle foglie 2018,Collana Indicibili sociali.

clicca qui

MATERIALI

-Dall’università ai contesti civili: la militarizzazione del sociale

-Danzare su una polveriera

-Anche un sospiro può essere un urlo

-Sull’aggressione alla  Jugoslavia

-Sull’aggressione alla Libia

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Una lettera provocatoria che ci è piaciuta

Una lettera provocatoria che ci è piaciuta

Abbiamo ricevuto una lettera che nella sua semplicità provocatoria ci è piaciuta molto. Le prostitute che per scelta decidono di vendere il proprio corpo, o meglio, di far pagare per avere accesso a quello che oggi, a tutti gli effetti, è considerato nemmeno più un dono ma un servizio, andrebbero rispettate e prese come esempio, nell’ordine di quello che si chiama scambio sessuo-economico e di cui Paola Tabet ha parlato in maniera esemplare e, tra l’altro suggeriamo loro di farsi pagare molto, ma molto più di quanto chiedano attualmente. Viviamo in una società estremamente, pericolosamente contraddittoria, perché se è vero che le donne hanno conquistato dei diritti, che si sono emancipate, che si ha una libertà maggiore, è altrettanto vero che questa libertà (illusoria, a ben vedere) è usata sistematicamente contro le donne stesse, a qualunque livello. E si ricade sempre negli stessi meccanismi: le relazioni sentimentali sono a tutti gli effetti rapporti di lavoro subordinato, perché si riducono ad uno scambio sessuo – economico, senza che però vi sia per la controparte che “offre” il servizio un corrispettivo che le sganci dalla dipendenza, sia essa emotiva o economica (che poi spesso la prima implica la seconda). La continuità tra relazione “libera” (libera?), matrimonio e prostituzione diventa evidente quando la si guarda da una prospettiva intrecciata di genere e classe, quella in cui dovremmo porci tutte noi per agire insieme, compatte, politicamente. Avrebbe un grande significato politico se tutte le donne cominciassero a farsi pagare, sempre. Ci inorridisce la prospettiva di ufficializzare quello che, agli occhi degli uomini, siamo ancora? “puttane” o “sante”, ma il confine è labile, e anche questo è tristemente noto. Troveranno sempre il modo di dirci “puttana” o di farci sentire tale, o prima o dopo. E allora, dato che la nostra persona, nella sua interezza, nella sua irriducibile soggettività, viene ridotta e naturalizzata a mero servizio, dal letto alla cucina, passando per il fasciatoio, che paghino. Farsi pagare per il sesso è solo portare il discorso delle rivendicazioni salariali delle casalinghe più a monte, nel momento esatto in cui scatta il meccanismo perverso per cui veniamo sottomesse. Anche le rivendicazioni per il salario alle casalinghe avevano questo significato: le donne fanno figli, li accudiscono, si occupano delle mansioni domestiche, spesso lavorando anche fuori casa, e nessuno le paga per questo lavoro riproduttivo, perché è “normale” che sia così. E diventa “normale” allora poi tutto il resto, anche che si venga minacciate, insultate, derise, mortificate, umiliate, uccise perché si dice di no, perché ci si rifiuta di obbedire, di farsi educare, di riconoscere nell’uomo un padrone e un maestro.

Eccola:

E SE CI PROSTITUISSIMO TUTTE…

“La soluzione che forse potrebbe in qualche modo sconvolgere, capovolgere e riavvolgere indietro nel tempo gli eventi e il loro corso. Non è vero, forse, però la mia è una riflessione. Continua a leggere

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Paradigma Vittimario

Lotta armata. Storia, memoria e paradigma vittimario

SILVIA DE BERNARDINIS

Un testo che mette insieme parti di un intervento di un convegno sugli anni 70 tenuto a Parigi nel 2017 – organizzato da Elisa Santalena e Christophe Mileschi – e alcune note scritte circa un anno fa, in occasione del quarantennale dell’uccisione di Moro e della scorta, quando andò in onda lo show promosso, animato e monopolizzato dal baraccone mediatico vittimario-dietrologico che si mette in moto ogni qualvolta vengono nominati gli anni 70 e la lotta armata, e quando qualcuno dei protagonisti della lotta armata si permette di parlare. Un anno fa bastò che Barbara Balzerani dicesse che quello della vittima è diventato un mestiere censorio che pretende il monopolio della parola e della ricostruzione storica per scatenare la gogna mediatica ed alcune denunce. L’avevano detto altri, studiosi, italiani e stranieri, nei libri che coloro che grugniscono come provetti specialisti del tema, dai social e dalla tv, non leggono né leggeranno mai. Lo disse, nel 2008, anche un insospettabile Fasanella – figlioccio di Flamigni, uno dei padri fondatori della dietrologia, maestro della fake-news – che alcune vittime avevano fatto della loro condizione un mestiere. In questi giorni l’ideologia vittimaria ha trovato nuova linfa con la vicenda Battisti, con la caccia al latitante e con il “marcisca in galera il terrorista”, nella nuova fraseologia introdotta dal governo del cambiamento – quello con addosso le divise di guardie e secondini – per nascondere decrepiti contenuti che si agitano da trent’anni. Si tengono insieme perfettamente i metodi di ieri e di oggi, al di là della falsa querelle promossa da Ferrara contro Salvini per rivendicare la primogenitura del suo partito di quegli anni nel ruolo di cacciatore di terroristi attraverso la delazione, di quella cultura della delazione che è entrata nella pelle del paese e di cui Salvini e co. devono ringraziare il Pci per il lavoro di lunga lena svolto allora. Ieri e oggi tutti compatti, partiti, media, a continuare una guerra, che si gioca sul piano della memoria, dove non ci sono nemici che si sono fronteggiati, ma bene e male assoluti, come detta l’ideologia vittimaria. Mostrificare, attraverso una propaganda mediatica sciatta che non ha bisogno di dimostrare e provare nulla di ciò che afferma, per impedire la comprensione, per nascondere e omettere le responsabilità politiche di un’intera classe dirigente, che ipocritamente si domanda, senza rispondersi, “come è stato possibile”. Come ha detto Alvaro Lojacono in un’intervista di qualche giorno fa a Ticino online, la politica della fermezza di 40 anni fa si pratica oggi attraverso la politica della vendetta in nome delle vittime del terrorismo, piombando qualsiasi possibilità di ragionamento su quegli anni.

Lotta armata. Storia, memoria e paradigma vittimario

Il mio intervento verte sul paradigma vittimario, che lega e confonde memoria dominante – presentata come memoria condivisa – e storia, nell’approccio allo studio della lotta armata in Italia negli anni 70 e 80. Come giustamente scrivono gli organizzatori del convegno, è difficile parlare degli anni Settanta in Italia senza rischiare di sollevare anatemi e provocare tensioni.

269 formazioni armate, 7866 attentati a cose e 4290 a persone, 36 mila cittadini inquisiti e oltre 6000 condannati a decenni di carcere[1], centinaia di ergastoli, ricorso alla tortura (in modo sistematico nel corso del 1982) e leggi di eccezione in 18 anni di storia. Per dare dimensione dell’ampiezza del fenomeno, è interessante notare come, in tempi di dittatura fascista, tra il 1926 (anno di costituzione del Tribunale Speciale) e il 1943, furono deferiti al Tribunale speciale 15.806 antifascisti; ne furono processati 5.620, in base alle denunce dell’Ovra, e condannati 4.596[2]. Questi sono alcuni dei dati che ci restituisce la Storia, ma sembra non bastino – così come sembra non bastino i 40 anni che ci separano dalla fine di quel ciclo di lotte sociali delle quali la lotta armata è stata una delle manifestazioni – a liberare il terreno, alimentato dalla politica e dai media ma assecondato anche da buona parte della storiografia, da una serie di luoghi comuni che ne restituiscono un’immagine e un senso deformati. La lotta armata in Italia ha avuto origine in un preciso contesto storico, durato circa venti anni, dal 1969 alla seconda metà degli anni 80. Un periodo cruciale della storia italiana e internazionale, che prende per intero il periodo di transizione dal fordismo al post-fordismo, una fase cioè di cambiamenti epocali che hanno trasformato e ridisegnato il mondo, i suoi scenari economici, politici e sociali. Un sommovimento provocato dalle stesse dinamiche del capitale in trasformazione. Figlia di un periodo in cui processi rivoluzionari e di insubordinazione all’esistente si manifestavano in tutte le aree del pianeta allora diviso in due, quelle sotto il controllo atlantico e quelle sotto il controllo socialista. Figlia di un periodo che ha fatto emergere soggettività fino ad allora invisibili o marginali trasformandole in protagoniste di processi di emancipazione politica. La lotta armata appartiene storicamente a questo contesto, nasce nella fabbrica fordista, dove il rifiuto del lavoro aveva generato un movimento classista che per alcuni anni, in Italia, nessuno riuscì a governare, dai sindacati ai partiti, alle forze dell’ordine; ad un processo di rottura irreversibile tra sinistra istituzionale e sinistra rivoluzionaria: “Non c’è vittoria, non c’è conquista senza il grande partito comunista” gridava e rilanciava nelle manifestazioni di piazza il PCI. Uno slogan che voleva significare direzione e controllo sulle lotte in fabbrica e nella società, ma anche monopolio del dissenso secondo cui non erano previste né ammesse altre forme di espressione di dissenso e di lotta a sinistra del PCI, né soggetti che lo potessero interpretare. Gli anni del 68 ne sono stati la concreta smentita, anche se questo non ha significato incapacità del partito di capitalizzare e appropriarsi, successivamente, di quelle lotte che guardava con sospetto, che non avrebbe voluto e che ha contribuito a smorzare, un intralcio sul cammino della costruzione di una “rispettabilità e affidabilità democratica” che lo avrebbero irreversibilmente sfigurato.

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Podcast dell’iniziativa del 30 gennaio alla Sapienza/Rosa Luxemburg

Podcast dell’iniziativa del 30 gennaio alla Sapienza

   <Il mondo si comincia a cambiare chiamando le cose con il loro nome> Rosa Luxemburg

Introduzione e interventi di Enrico Serventi Longhi, Giorgio Ferrari, Elisabetta Teghil                  

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Intervento di  Jock     clicca qui

Dibattito                         clicca qui 

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