Sabato 16 marzo a Ponte Galeria!

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12 marzo 1977/Il filo rosso

Riallacciare il filo perché chi dimentica ha già perso.

12 marzo 1977: Il femminismo che c’era

Il 12 marzo 1977 sotto una pioggia battente, centomila militanti, non centomila manifestanti, che è una cosa ben diversa, hanno attraversato Roma per dichiarare la loro alterità ai progetti repressivi e mortiferi scaturiti dal compromesso storico. Il giorno prima a Bologna era stato ucciso Francesco Lorusso. Ma la manifestazione nazionale era già stata chiamata da tempo. Erano compagne e compagni. E c’erano anche le femministe dell’AED Femminismo Roma, che pensavano che lo Stato fosse il nemico e non un interlocutore, che pensavano che il patriarcato fosse intrecciato in maniera inscindibile con il capitalismo, che ritenevano il separatismo strumento indispensabile della lotta femminista, che non credevano affatto nella fine delle ideologie perché l’ideologia non è altro che l’insieme delle idee con cui e per cui lottiamo, che portavano avanti autorganizzazione, autofinanziamento, autonomia con le donne e per le donne, che denunciavano la svendita delle lotte femministe al sistema del capitale…e che nel volantino distribuito pochi giorni prima , l’8 marzo, così scrivevano:

“[…]E’ in atto nel paese un vasto programma di riforme che tende a rilanciare il ruolo egemonico della borghesia come classe dirigente e a minare la lotta di liberazione della donna, la presa di coscienza delle classi subalterne, le conquiste operaie. Questo progetto riformistico avanza su due piani: 1) il rilancio della strategia del consenso, cioè la partecipazione delle classi subalterne ai progetti politici della classe dirigente 2) la repressione nei confronti degli strati politicizzati che non si fanno irretire da questa politica[…] Psichiatri, psicologi, psicanalisti, sessuologi, tiratori scelti, “squadre speciali” sono i nuovi interpreti del progetto politico[…] pertanto il potere ci ha regalato i consultori che si propongono come strutture tentacolari organizzate per intervenire nella crisi odierna che, con l’alibi dell’impreparazione dei singoli, demandano la soluzione delle tensioni individuali e sociali allo “specialista del comportamento” che le risolverà nell’ambito del sistema e non contro di esso, nonostante di quelle tensioni proprio il sistema sia responsabile[…] I CONSULTORI DELLO STATO NON DEVONO TROVARE LA COLLABORAZIONE DELLE DONNE CHE HANNO INVECE IL DOVERE DI SMASCHERARE IL RUOLO DEI CONSULTORI E DEI POLIZIOTTI IN CAMICE BIANCO[…]

dal manifesto dell’AED Femminismo  di quell’8 marzo

“I consultori programmati e finanziati dallo Stato sono: organismi al servizio del potere/ finalizzati al controllo del numero della popolazione/ canale di trasmissione dei valori dominanti/ strumento di manipolazione delle coscienze/ baluardo contro le soluzioni alternative e le prassi diverse.

ORGANIZZIAMO CONSULTORI ALTERNATIVI AUTOFINANZIATI!

 

Vi riportiamo uno stralcio  dal “Manuale Femminista”delle compagne dell’AED Femminsmo, stampato da Savelli nell’ottobre di quel 1977

“[…]l’educazione sessuale trasmette le norme su come, dove, quando e perché realizzare una attività sessuale “educata” e ovviamente le norme si imparano per attenervisi e sono trasmesse come “scientifiche” dagli “specialisti del comportamento” al servizio della classe al potere.

Progetti di legge per l’educazione sessuale nelle scuole sono già impostati. L’educazione sessuale degli adulti, nei consultori di Stato è già avviata.

Evidentemente ci sono lotte interne per arrivare alla gestione del settore. L’adulto si costruisce attraverso il condizionamento sin da bambino. Solo che l’appannaggio di questo condizionamento una volta era dei preti, oggi è dello Stato. E qui nasce lo scontro tra le forze clericali improntate alla repressione sessuale e le forze laiche psico-consumistiche ispirate alla logica della sessualità come mito e dovere sociale.

Educare significa scegliere per gli altri, finalizzare, utilizzando le strutture di cui lo Stato dispone: scuole, consultori, la stampa, la televisione, la radio, i film…

Quale indirizzo vincerà nelle scuole? Quello tradizionale o il “nuovo indirizzo”! delle false avanguardie?[…]

Sono passati tanti anni, ma quel filo rosso non si è mai spezzato.

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La Parentesi di Elisabetta del 13/03/2019

“Siamo all’offensiva?”

Siamo tante, siamo all’offensiva, il movimento delle donne salverà il mondo. Questo è il refrain che circola in lungo e in largo. E non sarà questo lo specchio dei tempi? Cioè che un movimento senza nessuna possibilità di incidere e di cambiare alcunché sembri vincente?

Quello che viene propagandato come “movimento delle donne” è dichiaratamente interclassista, le sue rivendicazioni sono di richiesta di riconoscimento e di tutela allo Stato e ha un’impostazione esplicitamente corporativa.

Lo sciopero è un’arma di lotta che dovrebbe mirare a cambiare un rapporto di forza attraverso il danneggiamento della controparte e a ottenere un risultato preciso. Si può fare sciopero bloccando tutto il servizio del pubblico trasporto perché non si vuole la privatizzazione del servizio, tanto per fare un esempio, o si può fare sciopero generale bloccando tutti i servizi della città perché non si vuole l’approvazione di una legge che sta passando in parlamento come il finanziamento delle missioni militari all’estero, tanto per farne un altro, ma è impensabile fare sciopero per la pace nel mondo. C’è forse qualcuno/a che non è d’accordo sulla pace nel mondo? Farebbero sciopero anche quelli che le guerre le fanno e le fomentano. Quindi ciò che salta agli occhi di primo acchito è che non può essere impostato uno sciopero contro la violenza sulle donne o sulle ingiustizie di questa società perché tanto sono d’accordo tutti e tutte, compresi tutti gli uomini e tutte le donne che sono direttamente responsabili della costruzione della società neoliberista e della perpetuazione del patriarcato.

Però, con una lettura più attenta ma neanche chissà quanto approfondita, il motivo vero balza fuori evidente. Le donne della socialdemocrazia riformista che hanno impostato qui in Italia questo movimento vogliono soldi, vogliono finanziamenti, vogliono carriere, vogliono che sia riconosciuto il ruolo delle donne che in questa società in effetti fanno parte della struttura di dominio ai livelli e nelle modalità più disparate. E, infatti, i fondi li avranno. Verranno dati  alle strutture dell’associazionismo femminile che come tutte le altre strutture dell’associazionismo vivono per se stesse e sono dei coaguli di interessi, verranno dati alle fondazioni, ai progetti…verranno effettivamente gratificate le donne che fanno parte dei gangli del potere e delle strutture di controllo e di diffusione del credo neoliberista: donne varie in divisa, magistrate, giudici, professore, giornaliste, docenti universitarie, intellettuali varie, ministre, donne in carriera ai vertici dello Stato e dei gangli istituzionali… le altre, le donne qualunque, verranno rigettate brutalmente nel calderone delle sfruttate, nel lavoro di cura, a fare le cameriere in casa delle emancipate, rimarranno precarie, sfruttate, sottopagate, ma verrà loro propagandato il credo, vero e proprio specchietto per le allodole, della possibilità della promozione individuale. Potrebbero arrivare anche loro e fare carriera, il paradiso è a portata di mano, basta volerlo, basta che lo Stato riconosca la validità e la funzione del loro apporto.

La struttura patriarcale così rimane immutata e non si illudano le donne che pensano di essere entrate nell’organizzazione del sistema, sono in libertà vigilata, quando e se non serviranno più verranno rigettate da dove sono venute. Il dominio patriarcale è assoluto, gerarchico, verticistico e piramidale e non si cambia dall’interno. Continua a leggere

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Il politicamente corretto

Il politicamente corretto/ “un’arma di distruzione di massa”

politicamente corretto 2

o politically correct?

ascolta qui

(giugno 2016)

[…] la storia è sempre la stessa e anche il copione. Come in ogni film c’è chi scrive la sceneggiatura, chi fa la regia e ci sono gli attori principali ed i comprimari.

C’è spazio, quindi, anche per gli aiuti umanitari, maniera elegante con cui le potenze occidentali forniscono dei prestiti che dovranno essere utilizzati dai paesi “aiutati” per acquistare armi, sempre dalle potenze occidentali.

Ma le buone ed i buoni , Ong e Onlus, vanno e andranno in quei paesi a fare del bene. Proprio brave/i!

E, con l’inizio dell’anno scolastico, ci saranno sicuramente associazioni della così detta sinistra che nelle scuole porteranno i banchetti per raccogliere soldi per i poveri bambini libici, per fare scuole, ospedali e pozzi ( bè, cent’anni fa facevamo le strade, ora siamo migliori) e insegneranno così agli studenti ad essere razzisti proprio perché noi siamo  democratici/che, superiori e altruisti/e. L’ipocrisia è il miglior insegnamento, dicevano i gesuiti.

E qualcuna/o adotterà qualche orfanello/a la cui famiglia è stata distrutta nel conflitto. Si sa, noi bianche/i siamo buonissimi, generosi e politicamente corretti. Naturalmente, come prima cosa, lo/a porteranno dallo psicologo per fargli superare il trauma della guerra!

Il papa predicherà contro la fame e la violenza nel mondo ( ma il cardinal Bagnasco non è quello che ha detto che i punti cardine da cui la finanziaria non deve prescindere sono la tutela della famiglia e le missioni all’estero?) e i cattolici contenti potranno raccogliere vestiti e giocattoli usati.

E nei supermercati, alla cassa, ti diranno di lasciare un centesimo per gli aiuti all’ Africa e, nei centri commerciali, gli sfruttati/e del nostro mondo, in cerca di un’impossibile gratificazione con l’acquisto di un capo scontato, si sentiranno dire nel banchetto di turno, da questa o quella associazione, che possono contribuire a salvare, vaccinare, scolarizzare bambini di paesi poveri e sottosviluppati e si sentiranno buoni/e, ricchi/e, bianchi/e e occidentali.

Mazziati/e e contenti/e.

E i docenti faranno tavole rotonde e i comuni e le province mostre di solidarietà, e le donne “impegnate” dibattiti sui diritti negati, nei paesi non allineati all’occidente, alle donne, alle lesbiche, ai gay.

Ma la vogliamo piantare, guardarci in faccia e dire le cose come stanno? […]

(settembre 2011)

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“Crepare è eticamente inaccettabile”

“Crepare è eticamente inaccettabile”

Denys

Niente pallottole/finanzio l’industria delle armi/Niente lamette/non ho fiducia nella cosmetica

Non me ne andrò a nuotare al largo/affogando inquino il mare/ci sono già plastica e liquami/a strozzare le meduse

Niente droga/abbasso i prezzi e non va bene,/anche chi spaccia/ha bocche da sfamare

Non mi farò schiacciare sulle rotaie/c’è chi si lamenta del ritardo/(che l’egoismo si sa è dei poveracci/mica di chi piange un signor qualcuno./Presto, portate i minuti di silenzio./Scarica trecento!)

Chi mi vuole morto/non ha intenzione di finirmi./Presumo che crepare/sia eticamente inaccettabile.

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Sul sessismo inclusivo e la lingua come istituzione

Il problema del linguaggio ricorre spesso nelle analisi e nelle riflessioni sulle questioni di genere. Vi proponiamo due articoli di qualche tempo fa che sono di grande attualità.

SUL SESSISMO INCLUSIVO

https://nobordersard.wordpress.com/

Annick Stevens

Si diffonde sempre più l’idea secondo cui, per lottare contro il sessismo e il dominio maschile, occorra introdurre ovunque la scrittura inclusiva, ovvero scrivere nomi ed aggettivi al plurale coi segni grammaticali congiunti maschili e femminili. Vorrei che si riflettesse senza pregiudizi sulla fondatezza di questa pratica e dei suoi effetti.

A prima vista sembra ovvio che menzionando sistematicamente i due generi grammaticali si evita di escludere o discriminare uno dei due sessi. Tuttavia, rispetto alla pratica ereditata che consiste nel designare con un solo termine al plurale tutte le persone a cui si fa riferimento, la scrittura inclusiva introduce una dicotomia persino nei gruppi misti in cui la differenza sessuale non è rilevante. Considerata da questo punto di vista, è la pratica ereditata ad essere inclusiva e la contrapposizione binaria a risultare esclusiva.

L’effetto reale della scrittura cosiddetta inclusiva e di altre dichiarazioni dicotomiche è che in ogni momento si divide in due l’umanità sulla sola base del sesso biologico. Quando si scrive «i/le lettori-trici», «i/le lavoratori-trici» o «gli/le amici-che», così come quando diciamo «lettori e lettrici», «lavoratori e lavoratrici», «amici e amiche», non si fa che ricordare incessantemente a ciascuno che, qualunque cosa faccia e chiunque sia, è la sua categoria sessuale a costituirne il segno. Di più, si lascia intendere che le attività di leggere, di lavorare o di amare non siano le stesse se attuate da un uomo o da una donna. Si carica sessualmente il linguaggio per parlare di cose che non sono sessuate ma che sono comuni all’umanità, e così facendo si introduce nell’umanità una divisione fondamentale, onnipresente, ineluttabile. Il procedimento ottiene allora un risultato opposto alle intenzioni: rafforza l’idea reazionaria secondo cui un individuo sia determinato in primo luogo dal proprio sesso, ripercuotendosi la differenza sessuale su tutte le capacità, comportamenti e realizzazioni degli individui.

Il problema linguistico


Fino a poco tempo fa non c’era nessun problema nell’indicare un gruppo con un plurale grammaticalmente maschile, perché notoriamente per convenzione quel plurale è misto (e non neutro, ovvero né l’uno né l’altro) e, qualora si voglia indicare un gruppo esclusivamente maschile, allora si dovrebbe aggiungere una precisazione. Ora, diffondendo la pratica degli enunciati dicotomici, si genera un dubbio e un bisogno di precisazione in testi che finora si comprendevano subito come inclusivi, per consuetudine. Stiamo creando l’impossibilità di parlare dell’umanità come una sola. Continua a leggere

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Ciao Serena

Ciao Serena, con tanto affetto, tutte noi.

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8 MARZO 2019

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8 Marzo 2019/ Tattica e Strategia

8 marzo 2019

TATTICA E STRATEGIA

COSTRUIRE I PICCOLI GRUPPI!

SMONTARE I CARDINI DEL NEOLIBERISMO!

 Il neoliberismo si è affermato. Siamo in una società modellata su una scala di valori che fino ad una decina di anni fa ritenevamo impensabile. In uno scenario di lotta interna alla classe borghese da cui è uscita vincente l’iperborghesia, in cui sono state proletarizzate le classi medie e le classi subalterne fortemente impoverite, la socialdemocrazia riformista in questi anni si è fatta carico di costruire, per conto del capitale transnazionale, un’egemonia culturale fondata su concetti come legalità, ”sicurezza” trasformata in paura sociale e militarizzazione, controllo sociale esasperato, annullamento delle conquiste degli anni’70, individualismo, meritocrazia, produttività, scomparsa della lettura di classe, disaffezione alla politica, qualunquismo e fascistizzazione del pensiero comune.

E’ da qui che dobbiamo ripartire. Dal chiederci come possiamo smontare questa organizzazione di pensiero prima ancora che delle specifiche soggettività avendo ben presente che una caratteristica propria del neoliberismo è inglobare le istanze antagoniste, metterle al proprio servizio, trasformarle in merce e tenendo conto che lo spazio della contrattazione è stato chiuso dal potere unilateralmente per una precisa scelta politica e che ha lasciato aperto solo quello del collaborazionismo. 

E’ necessario quindi porsi un problema tattico ed uno strategico e cercare forme di lotta diverse da quelle adottate finora.

La forma manifestazione è tollerata solo come processione in cui si chiedono delle grazie che non verranno mai elargite e che rafforzerà il sistema perché presenterà lo Stato come interlocutore.

L’opinione pubblica è costruita secondo una mentalità fascistoide, securitaria e legalista e quindi l’humus sociale in cui far vivere le lotte che necessariamente dovranno avere carattere di rottura con l’ordine vigente è estremamente limitato.

Il controllo sociale è asfissiante e quindi chi lotta al di fuori del rito della messa sarà messo in condizione di pagare un prezzo molto alto dal punto di vista personale ed economico attraverso la miriade di sanzioni amministrative che il sistema ha potuto attuare grazie al consenso costruito dalla socialdemocrazia riformista.   

Dal punto di vista tattico è necessario ripartire dal piccolo gruppo come struttura di base dell’autodifesa femminista e della pratica di costruzione politica. E’ un patto tra donne che si conoscono e si fidano reciprocamente e costruiscono sapere in autonomia. I gruppi fanno rete, le reti fanno produzione politica. Non serve una preparazione specifica, né una presa di coscienza particolare se non la consapevolezza e la necessità del reciproco sostegno. Noi non crediamo nella delega, negli esperti e nelle esperte, crediamo nella condivisione dei saperi e nella loro moltiplicazione, crediamo nella crescita politica e nella presa di coscienza della collocazione di genere e di classe che  il rifiuto della delega e la consapevolezza delle proprie possibilità organizzative creano e incentivano, crediamo nella presa in carico dei propri desideri, crediamo che la volontà di realizzarli  e la consapevolezza che solo noi possiamo essere in grado di farlo può portare le donne a cercare strumenti di uscita da questa società. Ogni gruppo creerà i propri strumenti, ogni gruppo si industrierà per smontare i cardini del neoliberismo, ogni gruppo non lotterà solo per sé ma lottando per destituire i momenti fondanti di questa società si costituirà come parte di un progetto generale. Il rapporto di reciproca fiducia, proprio perché ci si è scelte è più importante del freddo sciorinare di comportamenti standard. Le uniche maestre di se stesse possono essere solo le donne. Non esistono metodi precostituiti, esiste il bagaglio esperienziale messo in comune. L’immediatezza del soccorso, la garanzia del gruppo, la presenza effettiva è un deterrente per qualsiasi maschio che voglia produrre violenza molto più dell’asettica e lontana presenza di un ufficio aperto a ore stabilite, con prestabiliti meccanismi di intervento. Oltre tutto la vigilanza fra donne permette una presa di coscienza delle situazioni potenzialmente violente con molto ma molto anticipo. Questa organizzazione capillare non è sostitutiva dello Stato sociale ma avere servizi, facilità di accesso all’indipendenza economica, facilità di accesso alla casa per tutte e tutti, è frutto di un rapporto di forza e non di richieste e tanto meno di collaborazione con le istituzioni. E per ottenere questo non è la lotta categoriale che deve essere messa in campo bensì quella strategica dello smontaggio dei cardini del neoliberismo. I due momenti tattica e strategia sono inscindibili e l’uno rimanda all’altro. E’ impossibile costruire una lotta intrecciata di genere e di classe se non si costruisce l’autonomia delle donne contemporaneamente sia sul piano del reciproco supporto che su quello organizzativo generale perché l’abitudine alla delega annienta le possibilità di difendersi autonomamente e fa dimenticare la possibilità dell’autorganizzazione, infantilizza i soggetti che non sanno più scegliere da soli, ma si aspettano la salvezza da qualcun altro. Questo assunto riguarda non solo le donne ma gli oppressi tutti e la nostra lotta potrebbe costituire un valido esempio.

Dal punto di vista strategico, porsi l’obiettivo di smontare i momenti fondanti del neoliberismo significa impostare lotte politiche. Trovare il legame tra lotte diverse significa non farne una sommatoria ma portarle a sintesi. Nella scuola, tanto per fare un esempio, significa lottare contro la struttura gerarchica, contro il preside padrone, contro la gerarchia insegnanti-alunni, contro il controllo, contro la scuola azienda, contro il legame scuola-lavoro, contro la meritocrazia…nel nostro specifico, per esempio sul posto di lavoro, non ci dovrebbe interessare affatto fare carriera come e quanto gli uomini, ci dovrebbe interessare smontare il concetto di meritocrazia, rifiutare la gerarchia, smontare la retribuzione basata sugli incentivi, togliere di mezzo il controllo dell’orario…e potremmo continuare all’infinito perché ogni ambito pur nella sua specificità contiene i cardini da smontare.

La struttura di dominio patriarcale e capitalista-neoliberista è piramidale, verticistica, gerarchica ed è, quindi, sulla struttura che le lotte devono incidere. E’ necessario, proprio per questo, tracciare una linea imprescindibile di rottura tra le donne che si sono messe al servizio del potere e che supportano e propagandano la scala di valori e le scelte neoliberiste e la restante stragrande maggioranza delle donne che queste scelte le subisce.

La lotta femminista può essere di grande aiuto alla lotta di tutti gli oppressi perché, nonostante la deriva interclassista e collaborazionista che alcuni settori della lotta delle donne hanno preso in questi ultimi anni, le donne hanno ancora molto forte la capacità di riconoscersi nella comune oppressione. Questa capacità fino agli anni’70 era propria delle classi subalterne che avevano la chiarezza del loro sfruttamento. Le faceva partecipi di una comune speranza e si riconoscevano in un orgoglio di appartenenza. Ora non più, lo sfruttato è solo povero e dato che viene ritenuto colpevole della sua stessa povertà se ne convince lui stesso e se ne vergogna e non vuole riconoscersi nel suo simile, ma anzi scarica la sua rabbia su chi è ancora più povero di lui.

Le donne si riconoscono ancora, si guardano e si leggono in un comune sfruttamento e questa è una grande forza che non possiamo, non vogliamo e non dobbiamo disperdere. Mai come oggi è importante il femminismo come pratica storica, cosciente, organizzata, di liberazione, come conquista di una vita mai vissuta.

Coordinamenta femminista e lesbica

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Quattro passi verso l’8 marzo/4

Materiali di riflessione

Quarto passo

 Autonomia, autorganizzazione, autodifesa femminista

<L’autonomia è un modo di lettura della società capitalista/patriarcale, dei suoi protagonisti, del modo di distribuzione dei suoi poteri, della dinamica del suo sviluppo, che prevede la presa in carico direttamente da parte nostra dei nostri desideri e la consapevolezza della possibilità di realizzarli.
Pertanto, è una teoria di liberazione. E’, quindi, il rifiuto della delega, non solo perché la delega dà ad altri soggetti, al di fuori di noi, l’autorizzazione a lottare, chiedere, decidere al nostro posto, ma, soprattutto, perché questi soggetti, non essendo noi, portano avanti, per noi, esigenze che, nella migliore delle ipotesi, credono nostre, nella peggiore e più comune, sono invece loro. La capacità di produrre autonomia, per esempio, la classe operaia l’ha espressa compiutamente negli anni ’70, quando, in contrasto con le lotte sindacali che contrattavano più o meno orario, più o meno salario, più o meno lavoro, gli operai hanno preso in carico, appunto in autonomia, quello che era il sentire loro proprio e cioè lo sganciamento del lavoro dal rendimento e “il rifiuto del lavoro salariato”.
Non è possibile dunque delegare alle organizzazioni sindacali, ai partiti, allo Stato, a soggetti esterni la nostra liberazione, dato che solamente chi vive concretamente lo sfruttamento può incidere profondamente nelle lotte, e la collaborazione con le Istituzioni e le loro protesi compresi i partiti e i sindacati è controproducente e dannosa poiché così non si fa che riprodurre un modello sociale in cui c’è chi è predisposto a decidere e chi a subirne le conseguenze (con relativa definizione delle competenze e dei ruoli). Per questo solamente la realizzazione di un’organizzazione autonoma dei soggetti sociali sfruttati può modificare il senso stesso delle relazioni umane e far si che non si riproducano forme di gerarchia e dominio. Questa prospettiva di liberazione ci lega inevitabilmente a tutti e tutte coloro che lottano contro la società capitalistica poiché una reale liberazione non può esistere in una società che si fonda sullo sfruttamento di una classe sull’altra. La nostra lotta deve necessariamente essere sottrazione al comando sul lavoro, nell’oppressione di genere, nelle gerarchie sociali, in un rifiuto netto del principio gerarchico in cui è incardinata questa società. L’autonomia è un tessuto di comunicazioni e organizzazioni, ricco di lotte, informazioni, conoscenze e saperi che si oppone alla società capitalista
e patriarcale e della quale è alternativa. L’autonomia, permette la nostra crescita e il nostro arricchimento affrancate dal dominio del plusvalore, è sintesi sociale diversa e contrapposta a quella della società neoliberista patriarcale, alla società seriale che si realizza nell’universo dei ruoli. E’ affermazione di una diversità irriducibile. E’ capacità di esprimere rottura e identità politica, di scardinare il controllo sociale che si manifesta nel dominio culturale e sociale prima ancora che in quello militare e repressivo. E’ la riappropriazione di un tempo liberato dal lavoro salariato, dal lavoro di cura, dai
ruoli, ed è coscienza e tessuto di comunicazione e organizzazione sociale. E’ la non partecipazione alle cicliche ristrutturazioni capitalistiche e patriarcali e la capacità di allargare i propri spazi. L’autorganizzazione è la ricerca e la messa in atto, all’interno di un insieme oppresso, di strumenti per poter realizzare i desideri espressi dall’autonomia. Autonomia e autorganizzazione sono due entità che si rapportano dialetticamente, non c’è un prima e un dopo. L’autorganizzazione è quindi il riconoscimento che i settori subordinati in un’organizzazione sociale di oppressione e sfruttamento, sono
in grado di produrre al proprio interno gli strumenti necessari per liberarsi. Ci sono degli elementi di base che definiscono l’autorganizzazione in un’ottica femminista, ossia che sono in grado di produrre all’interno dell’insieme di genere, oppresso dalla società patriarcale/capitalista, strumenti necessari al percorso di liberazione:
– l’orizzontalità dei processi decisionali che non ha nulla a che fare con la “teoria del consenso”, con le “decisioni a maggioranza” e con la così detta “democrazia dal basso” che fa sempre riferimento, comunque, ad un’autorità superiore, ad esempio lo Stato, a cui rimettere le decisioni prese.
– il lavoro politico per la presa di coscienza di genere che è costituito dal rapportarsi con le “donne” che costituiscono l’insieme oppresso e dall’analisi delle contraddizioni e delle oppressioni, in un rapporto dialettico tra teoria e pratica.
– la messa in comune delle esperienze e delle sperimentazioni così che la condivisione crei realmente una crescita collettiva facendo fronte alla sproporzione che nella società capitalistica c’è tra chi può accedere ad un’istruzione qualificata e alla cultura e chi non ha le possibilità materiali per sperimentare e conoscere.
– l’anti-istituzionalità perché un reale percorso di liberazione è alternativo e incompatibile con le strategie e le finalità che hanno le componenti istituzionali. Queste (partiti, partitini, sindacati, associazioni ecc..) mirano o a incentivare lo sfruttamento o tutto al più a migliorare le sproporzioni esistenti tra le classi, i generi, le etnie mentre il nostro obiettivo è l’eliminazione delle classi, dei generi ecc …
E’ evidente quindi che non esistono scorciatoie o compromessi sulle prospettive che dobbiamo darci come femministe e che deve essere sempre chiara la necessità dell’uscita dalla società patriarcale e capitalista quale obiettivo e continuo riferimento delle nostre lotte.>

 

-Un passo avanti:dalla parte delle donne che reagiscono alla violenza

-Avremmo dovuto riprenderci la notte e invece ci siamo ritrovate sole con le telecamere

-ROTE ZORA/La resistenza è possibile!

La sfida per il movimento femminista è di realizzare un progetto antagonista che si misuri con la globalità dell’oppressione di genere e con la critica del vivere quotidiano perché il patriarcato è un rapporto sociale assunto oggi nel metabolismo sociale neoliberista. Il neoliberismo ha chiuso in maniera unilaterale ogni spazio di contrattazione per precisa scelta ideologica e ha lasciato aperto solo lo spazio del collaborazionismo. La socialdemocrazia è stata ed è la principale naturalizzatrice di questi principi. Quindi non si tratta tanto di sconfiggere dei soggetti quanto l’ambiente costruito dai dispositivi semantici, discorsivi, di controllo che rendono possibile il perpetuarsi del patriarcato e del capitalismo

E’ necessario costruire, trovare, inventare nuove forme di lotta. Finché saremo subalterne alla logica della legalità, della norma, del politicamente corretto, del realistico non si riuscirà ad intravvedere la fine della società patriarcale. Ogniqualvolta, invece, saremo in grado di deporre questi assunti quella fine sarà più prossima.

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La lingua è un tamburo

La lingua è un tamburo

THE DAUGHTERS OF YAM

la lingua è un tamburo
un tamburo
un tamburo
la lingua è un tamburo
e suonare il tamburo
è stato messo fuori legge

vietato suonare il tamburo
tranne la domenica
in alcuni parchi pubblici
fra le 2 e le 4
del pomeriggio

la lingua è un tamburo
un tamburo
un tamburo
e suonare il tamburo è stato proibito
specialmente
se sei un non-bianco
specialmente
se sei una donna
il tamburo è
proibito

questi non sono racconti
per far paura
dico
troppi hanno perso
la lingua
quando si sono ostinati
a parlare
quando hanno
sfidato l’autorità
quando hanno
preteso i loro diritti

la lingua è
un tamburo
un tamburo
e suonare il tamburo non è permesso
non più
nemmeno la domenica
al parco

ma la mia lingua
è un’antica/comunicazione
non prende
gli ordini
molto bene
continua ad imparare
nuovi linguaggi
crea
nuove sintassi

la lingua è
un tamburo
un tamburo
e il tamburo
è un’antica forma d’arte
che raggiunge ogni popolo
non importa la distanza
non importa l’interferenza

la lingua insiste
ad essere un tamburo
e il tamburo
suona
budum-budum
forte
continuo
echeggiando
alla
distanza

la lingua
è un tamburo
un tamburo
budum
budum
budum

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Quattro passi verso l’8 marzo/3

Materiali di riflessione

Terzo passo

 Il contributo della lotta femminista alla liberazione di tutt* gli oppress*

“L’asservimento delle donne è stato praticato e perpetuato estorcendo la nostra partecipazione emotiva allo sfruttamento. Il corpo è la nostra fabbrica, la famiglia la nostra azienda. Il lavoro di cura e riproduttivo è un lavoro non pagato a cui siamo spinte con il ricatto affettivo. E una volta dentro, non esiste distinzione tra tempo del lavoro e tempo libero, dobbiamo essere disponibili ventiquattro ore su ventiquattro, dobbiamo riconoscere il nostro ruolo ed esserne appagate poiché solo così potremo essere felici, potremo dare un senso, un senso pieno, alla nostra esistenza. Lo sfruttamento patriarcale ci espropria alla fine anche della nostra emotività: dobbiamo provare solo i sentimenti che sono stabiliti. 

Il neoliberismo ha esteso questi dispositivi di sfruttamento oltre la famiglia, oltre il lavoro riproduttivo. Ha femminilizzato il lavoro salariato. L’azienda neoliberista pretende da lavoratori e lavoratrici una dedizione assoluta, e spesso e volentieri gratuita, una partecipazione emotiva alle sorti della stessa, una continua reperibilità. Sempre più spesso, sempre più diffusamente, “portiamo a casa” il lavoro e non riusciamo più a godere del, poco, tempo libero che ci viene lasciato.

Ma il neoliberismo vuole anche altro. Un mettersi in gioco continuamente per dimostrare quanto si è bravi/e, un’attesa continua del riconoscimento del merito e quindi una continua dipendenza dal giudizio. L’ossessione valutativa, portato dell’ideologia meritocratica, viene naturalizzata spingendo uomini e donne a riconoscere “affettivamente” la filiera gerarchica.  Accettazione supina della propria inadeguatezza e quindi dei rimproveri che ci vengono mossi, delle umiliazioni a cui siamo tutte e tutti quotidianamente costretti, della concorrenzialità con i propri simili; una disponibilità ad assumere la scala di valori vincente e quindi a stigmatizzare tutti quelli che si comportano in maniera deviante.

Ma anche questo, come donne, è un meccanismo che conosciamo bene. Da sempre noi donne dobbiamo dimostrare di essere brave, di essere all’altezza. Il giudizio altrui ha sempre contato moltissimo; lo “sguardo maschile”, sicuramente, ma anche quello delle altre donne a cui è stato attribuito il compito di “cani da guardia” del sistema, portato a termine stigmatizzando tutte le altre donne che non accettano la norma, la normalità, che non vogliono rientrare nei ranghi della scala di valori codificata. Nel mondo del lavoro salariato, poi, il nostro impegno nel dimostrare quanto valiamo si è addirittura centuplicato. Come in famiglia, anche negli altri luoghi di lavoro, dobbiamo accettare rimproveri e rimbrotti perché chi li fa sa meglio di noi qual è il nostro bene. Ci costringono a interiorizzare il senso della nostra inadeguatezza:   è un nostro difetto, atavico, proprio perché, in fondo, non siamo in grado di scegliere il “meglio” per noi.

E come hanno potuto ottenere da noi tutto questo? Attraverso la costruzione dei ruoli sessuati e non, la santificazione dell’autorità, la continua affermazione della logica del possesso, la retorica della responsabilità e del sacrificio, spingendoci ad introiettare la legalità con la minaccia dello stigma sociale, del ricatto affettivo ed economico, della repressione poliziesca.

In altri termini: hanno normalizzato e naturalizzato lo sfruttamento, l’oppressione, la mortificazione, la degradazione. La descrizione del nostro presente, costruito sulle gerarchie di genere, classe e razza, è diventata prescrizione del presente.

E allora, proprio noi, possiamo e dobbiamo smascherare questi meccanismi. 

Dobbiamo essere proprio noi, forti e consapevoli della nostra millenaria servitù ed esperienza, a dire che non bisogna riconoscere la filiera gerarchica e la meritocrazia in nessun posto né nel pubblico né nel privato.

Dobbiamo essere proprio noi a destituire di fondamento la logica legalitaria: perché le norme e le leggi vanno disattese ogniqualvolta siano contro la nostra vita; perché la socialdemocrazia e il politicamente corretto sono dei mostri nascosti dietro una maschera affabile.

E non dobbiamo certo essere quelle che impongono nuove regole e stigma e divieti, non siamo noi che dobbiamo educare, bensì liberare.

L’approccio e l’approdo vanno completamente ribaltati: non siamo noi che dobbiamo sgomitare per posti di comando, per quote privilegiate, per finanziamenti statali con cui istituire osservatori e corsi di sensibilizzazione sulle questioni di genere.

In questo modo il femminismo diventa un ulteriore strumento di controllo sociale e si inserisce di diritto nell’Impero del Bene: quello in cui lo Stato etico assume le funzioni di tutore e di giudice, che sul fronte interno da una parte “comanda” e dall’altra “suggerisce”, “consiglia”, “spinge” sulla retta via, utilizzando un linguaggio affabile, spesso percepito come “di sinistra” per diffondere “tipi normali di comportamento” a cui tutti e tutte dobbiamo adeguarci per il nostro stesso bene, così come sul fronte esterno porta le sue “guerre umanitarie” a tutti quelli – popoli, Stati, territori, ambiti  – che non sono allineati o sono recalcitranti o sono asimmetrici agli interessi dell’occidente.

E non è la modalità corporativista che ci traghetterà fuori di qui. Solo abbandonando la visione categoriale e di orticello protetto e privilegiato potremmo ottenere rispetto politico e autorevolezza nella dimensione di una lotta portata a sintesi contro la legalità, la meritocrazia, la gerarchia e, quindi, contro lo sfruttamento e le oppressioni di genere, razza e classe”.

 

TUTTE ILLEGALI!

CARTELLA N.1-Il merito e la partecipazione emotiva

CARTELLA N.2-La colpevolizzazione e lo stigma

CARTELLA N.3-La legalità e la norma

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Adesso basta!

https://www.facebook.com/events/327941811186212/

ADESSO BASTA!
IL SILENZIO È COMPLICITÀ

CORTEO CONTRO PADRONI
E STATO DI POLIZIA

A partire dalla forte risposta di chi ha resistito allo sgombero dell’Asilo occupato di Torino e dalla estesa solidarietà di fronte agli arresti, crediamo si debba far risuonare nelle nostre strade, quelle che calpestiamo ogni giorno, una voce chiara e decisa contro il governo.

La guerra ai poveri, l’inasprimento dei sistemi di sorveglianza, le retate e i controlli in strada sono quotidiani e incessanti.
La popolazione immigrata viene criminalizzata e isolata nei centri di accoglienza, nei ghetti, nei lager per il rimpatrio (C.P.R.). Senza dimenticare tutte le persone morte in mare o in montagna nel tentativo di varcare una linea immaginaria detta confine.
Il lavoro diventa sempre più precario e con paghe da fame, e gli affitti sempre più alti.
Di pari passo è in corso un feroce attacco a tutte le occupazioni nel tentativo di annientare ogni forma di autonomia e autogestione.
Le “grandi opere” e le nocività devastano, inquinano e deturpano intere aree geografiche facendo arricchire imprese di costruzioni e multinazionali, lasciando sul territorio solo macerie.

Difendiamo chi viene colpito perché si ribella a questo stato di cose, come a Cosenza, Milano, Firenze, Roma, Torino e Trento.

Se non ci interessiamo alla realtà presto sarà lei a interessarsi di noi, ed ha già il volto di un gendarme. Reagire ora è possibile e necessario. Sappiamo che siamo tutti/e sotto attacco e ovunque dobbiamo organizzarci per rispondere.

L’unico modo per sconfiggere la paura e la rassegnazione è riprenderci collettivamente le strade in cui viviamo. Lo faremo tutti/e insieme in corteo, uniti/e e determinati/e!

Siamo nemiche e nemici di questo governo, di ogni governo.
E scommettiamo di non essere i/le soli/e.
ROMA
SABATO 2 MARZO – ORE 17:00 
CORTEO
CONCENTRAMENTO A LARGO PRENESTE

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No Tav/ verso il 23 marzo

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Basta un po’ di zucchero?

Basta un po’ di zucchero?

http://www.nicolettapoidimani.it

Una compagna mi ha segnalato alcuni giorni fa questo manifestino ricevuto per email.

Era inorridita – e io con lei – vedendo come si stiano affossando decenni di lotte e pratiche femministe.

La pillola, lo sappiamo molto bene. non ha nulla di femminista ma, anzi, è un contraccettivo che nuoce gravemente alle donne – e non solo dal punto di vista della salute.

Il fatto che i medici tendano ancora a rifilarla alle donne fertili di ogni età ha a che vedere con il business farmaceutico e con la mentalità patriarcale, non con la liberazione sessuale femminista.

Non si rileva, infatti, nessuna traccia di liberazione in un contraccettivo che è tutto a carico della donna – sia dal punto di vista della salute che dell’impegno a non scordarne l’assunzione. 
Né si rilevano tracce di liberazione in una mentalità incentrata sull’orgasmo maschile, cioè una mentalità secondo la quale le donne devono essere sempre pronte alla penetrazione quando lui ne ha voglia.
Dovremmo ormai sapere che il piacere femminile è soprattutto clitorideo e non vaginale…

Impillolarsi per il piacere altrui significa forse essere soggetto del proprio desiderio? No, a meno che il desiderio non sia alienato nel desiderare di essere desiderata. Ma questa non è liberazione: a casa mia si chiama eteronormatività. E l’eteronormatività genera sudditanza femminile.

Vorrei anche aggiungere che, gratta gratta, questa mentalità è di diretta derivazione dalla (in)cultura dello stupro, che riduce ogni donna ad uno – o più – buchi.

E allora basta un po’ di zucchero patriarcale e la pillola va giù? 

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