Paradigma Vittimario

Lotta armata. Storia, memoria e paradigma vittimario

SILVIA DE BERNARDINIS

Un testo che mette insieme parti di un intervento di un convegno sugli anni 70 tenuto a Parigi nel 2017 – organizzato da Elisa Santalena e Christophe Mileschi – e alcune note scritte circa un anno fa, in occasione del quarantennale dell’uccisione di Moro e della scorta, quando andò in onda lo show promosso, animato e monopolizzato dal baraccone mediatico vittimario-dietrologico che si mette in moto ogni qualvolta vengono nominati gli anni 70 e la lotta armata, e quando qualcuno dei protagonisti della lotta armata si permette di parlare. Un anno fa bastò che Barbara Balzerani dicesse che quello della vittima è diventato un mestiere censorio che pretende il monopolio della parola e della ricostruzione storica per scatenare la gogna mediatica ed alcune denunce. L’avevano detto altri, studiosi, italiani e stranieri, nei libri che coloro che grugniscono come provetti specialisti del tema, dai social e dalla tv, non leggono né leggeranno mai. Lo disse, nel 2008, anche un insospettabile Fasanella – figlioccio di Flamigni, uno dei padri fondatori della dietrologia, maestro della fake-news – che alcune vittime avevano fatto della loro condizione un mestiere. In questi giorni l’ideologia vittimaria ha trovato nuova linfa con la vicenda Battisti, con la caccia al latitante e con il “marcisca in galera il terrorista”, nella nuova fraseologia introdotta dal governo del cambiamento – quello con addosso le divise di guardie e secondini – per nascondere decrepiti contenuti che si agitano da trent’anni. Si tengono insieme perfettamente i metodi di ieri e di oggi, al di là della falsa querelle promossa da Ferrara contro Salvini per rivendicare la primogenitura del suo partito di quegli anni nel ruolo di cacciatore di terroristi attraverso la delazione, di quella cultura della delazione che è entrata nella pelle del paese e di cui Salvini e co. devono ringraziare il Pci per il lavoro di lunga lena svolto allora. Ieri e oggi tutti compatti, partiti, media, a continuare una guerra, che si gioca sul piano della memoria, dove non ci sono nemici che si sono fronteggiati, ma bene e male assoluti, come detta l’ideologia vittimaria. Mostrificare, attraverso una propaganda mediatica sciatta che non ha bisogno di dimostrare e provare nulla di ciò che afferma, per impedire la comprensione, per nascondere e omettere le responsabilità politiche di un’intera classe dirigente, che ipocritamente si domanda, senza rispondersi, “come è stato possibile”. Come ha detto Alvaro Lojacono in un’intervista di qualche giorno fa a Ticino online, la politica della fermezza di 40 anni fa si pratica oggi attraverso la politica della vendetta in nome delle vittime del terrorismo, piombando qualsiasi possibilità di ragionamento su quegli anni.

Lotta armata. Storia, memoria e paradigma vittimario

Il mio intervento verte sul paradigma vittimario, che lega e confonde memoria dominante – presentata come memoria condivisa – e storia, nell’approccio allo studio della lotta armata in Italia negli anni 70 e 80. Come giustamente scrivono gli organizzatori del convegno, è difficile parlare degli anni Settanta in Italia senza rischiare di sollevare anatemi e provocare tensioni.

269 formazioni armate, 7866 attentati a cose e 4290 a persone, 36 mila cittadini inquisiti e oltre 6000 condannati a decenni di carcere[1], centinaia di ergastoli, ricorso alla tortura (in modo sistematico nel corso del 1982) e leggi di eccezione in 18 anni di storia. Per dare dimensione dell’ampiezza del fenomeno, è interessante notare come, in tempi di dittatura fascista, tra il 1926 (anno di costituzione del Tribunale Speciale) e il 1943, furono deferiti al Tribunale speciale 15.806 antifascisti; ne furono processati 5.620, in base alle denunce dell’Ovra, e condannati 4.596[2]. Questi sono alcuni dei dati che ci restituisce la Storia, ma sembra non bastino – così come sembra non bastino i 40 anni che ci separano dalla fine di quel ciclo di lotte sociali delle quali la lotta armata è stata una delle manifestazioni – a liberare il terreno, alimentato dalla politica e dai media ma assecondato anche da buona parte della storiografia, da una serie di luoghi comuni che ne restituiscono un’immagine e un senso deformati. La lotta armata in Italia ha avuto origine in un preciso contesto storico, durato circa venti anni, dal 1969 alla seconda metà degli anni 80. Un periodo cruciale della storia italiana e internazionale, che prende per intero il periodo di transizione dal fordismo al post-fordismo, una fase cioè di cambiamenti epocali che hanno trasformato e ridisegnato il mondo, i suoi scenari economici, politici e sociali. Un sommovimento provocato dalle stesse dinamiche del capitale in trasformazione. Figlia di un periodo in cui processi rivoluzionari e di insubordinazione all’esistente si manifestavano in tutte le aree del pianeta allora diviso in due, quelle sotto il controllo atlantico e quelle sotto il controllo socialista. Figlia di un periodo che ha fatto emergere soggettività fino ad allora invisibili o marginali trasformandole in protagoniste di processi di emancipazione politica. La lotta armata appartiene storicamente a questo contesto, nasce nella fabbrica fordista, dove il rifiuto del lavoro aveva generato un movimento classista che per alcuni anni, in Italia, nessuno riuscì a governare, dai sindacati ai partiti, alle forze dell’ordine; ad un processo di rottura irreversibile tra sinistra istituzionale e sinistra rivoluzionaria: “Non c’è vittoria, non c’è conquista senza il grande partito comunista” gridava e rilanciava nelle manifestazioni di piazza il PCI. Uno slogan che voleva significare direzione e controllo sulle lotte in fabbrica e nella società, ma anche monopolio del dissenso secondo cui non erano previste né ammesse altre forme di espressione di dissenso e di lotta a sinistra del PCI, né soggetti che lo potessero interpretare. Gli anni del 68 ne sono stati la concreta smentita, anche se questo non ha significato incapacità del partito di capitalizzare e appropriarsi, successivamente, di quelle lotte che guardava con sospetto, che non avrebbe voluto e che ha contribuito a smorzare, un intralcio sul cammino della costruzione di una “rispettabilità e affidabilità democratica” che lo avrebbero irreversibilmente sfigurato.

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Podcast dell’iniziativa del 30 gennaio alla Sapienza/Rosa Luxemburg

Podcast dell’iniziativa del 30 gennaio alla Sapienza

   <Il mondo si comincia a cambiare chiamando le cose con il loro nome> Rosa Luxemburg

Introduzione e interventi di Enrico Serventi Longhi, Giorgio Ferrari, Elisabetta Teghil                  

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Intervento di  Jock     clicca qui

Dibattito                         clicca qui 

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9 febbraio 2019/ La guerra-che fingiamo non ci sia

Ciclo/La de-umanizzazione del soggetto 

Programma generale

9 febbraio 2019/Parte terza

I MECCANISMI DE-UMANIZZANTI SUL FRONTE ESTERNO/ Il neocolonialismo, le guerre “umanitarie”, la guerra asimmetrica..ne parliamo con Maria Rita Prette e il suo ultimo libro “LA GUERRA/che fingiamo non ci sia”Sensibili alle foglie 2018,Collana Indicibili sociali.

<…Soldati potenziati, contractors, droni armati, armi chimiche e nucleari operano in nome dei cittadini contro corpi in carne ed ossa scomparsi dalla percezione collettiva come se non facessero parte della specie umana.> 

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Conoscere il nemico per contrastarlo

https://hurriya.noblogs.org/

OPUSCOLO: note sul decreto-parte “immigrazione”. Conoscere il nemico per contrastarlo

Qui il file per scaricare, leggere e stampare

Il 4 dicembre è entrata in vigore la legge n.132, attuazione del meglio conosciuto Decreto-Legge Salvini (D.L.113/2018), prodotto finale dell’intesa governativa tra Lega e M5S sul tema della sicurezza.

Con questo opuscolo “Note sul decreto. Parte “immigrazione”. Conoscere il nemico per contrastarlo” abbiamo pensato di approfondire soprattutto la questione migratoria, che ormai da anni nell’immaginario comune, costruito ad arte da tecnici, politici e media, è strettamente connessa alla questione sicurezza. Proprio perché il fenomeno migratorio è stato securitarizzato, gli strumenti, le pratiche e i metodi per gestirla e amministrarla provengono direttamente dall’armamentario repressivo e militare. Il contenimento, la deterrenza, la selezione, la messa a valore appartengono di fatto ad un linguaggio bellico amministrativo.

Abbiamo voluto, però, fare un’analisi che non si arenasse nella levata di scudi che testate rosse e bianche del giornalismo nostrano, voci della sinistra legate ad ambienti parlamentari, associativi e movimentisti hanno iniziato da tempo contro decreto e governo, rimodellando a loro piacere la realtà dei fatti e contrapponendo al modello salviniano il modello dell’integrazione. Continuando a guardare con sdegno al sistema di controllo, contenimento e messa a valore della popolazione migrante in quanto tale, cercheremo, quindi, di avere uno sguardo esterno sulla questione senza cadere nelle facili trappole della retorica umanitarista e paternalista.

Pur nell’impossibilità di fare oggi previsioni su come alcuni dispositivi verranno concretamente attuati, ci sembra che il decreto Salvini esprima a chiare lettere l’attuale clima di una vera e propria guerra contro nemici ben individuati, mettendo in dotazione al potere tutti gli strumenti per un’estesa deriva poliziesca e un’aumentata possibilità di detenzione, rese legittime nero su bianco.

Il presente testo nasce da una nostra esigenza di restare vigili sui cambiamenti in atto e farci un po’ di chiarezza, senza pretese di esaustività. Lo condividiamo nella speranza che questi appunti possano risultare una base utile da cui sviluppare riflessioni, discussioni e confronti.

Nemici e nemiche delle frontiere

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Venezuela/ La arana feminista

https://www.facebook.com/geraldina.colotti

Hoy las mujeres de Anzoátegui reivindicamos mas que nunca nuestra vocación socialista, libertaria y democrática! Venceremos!

Oggi noi donne di Anzoátegui rivendichiamo più che mai la nostra vocazione socialista, libertaria e democratica! Vinceremo!

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10 febbraio 2019/Presidio a Ponte Galeria

È una mattanza.

Il colonialismo miete una quantità di morti che non siamo mai stax capaci di calcolare.

Se il massacro è stato per anni silenzioso (o sussurrato) alle nostre orecchie privilegiate ed europee, adesso i cadaveri arrivano fino alle nostre placide spiagge e si moltiplicano di anno in anno.

I morti di quest’anno appena iniziato sono già centinaia solo in mare. Il capitalismo colonialista stermina e avvelena una quantità di persone incalcolabile in ogni istante e in ogni parte del mondo. Da sempre gli individux e la terra pagano il prezzo di una crescita sfrenata dei consumi. In sostanza ci avveleniamo e avveleniamo il resto del mondo per possedere cose che a loro volta continuano ad avvelenarci.

Il prezzo più alto, in Europa, lo paga chi non ha il privilegio della bianchezza o di un documento valido in tasca. Infatti queste persone continuano a morire in frontiera, nei centri, nei ghetti e nelle strade.

Essere neutrali in situazioni di oppressione significa aver scelto la parte dell’oppressore

Se mai lo fosse stato, non è più tempo di stare calmx; rimanere sedutx di fronte ai nostri schermi significa essere complici di questa mattanza.

Abbiamo bisogno di nuove forme ed energie per lottare insieme, contrattaccare.

La lotta contro le frontiere nella città di Roma ha un appuntamento mensile per non lasciare sola chi è rinchiusa nelle gabbie per persone senza documenti. Parteciparvi ci può dare la possibilità di incontrarsi in un momento di lotta e scoprire insieme nuovi modi e possibilità.

Il 10 FEBBRAIO ALLE 15:30 SAREMO SOTTO LE MURA DEL CPR DI PONTE GALERIA  PER CONTINUARE A LOTTARE CONTRO CARCERI E CARCERIERX E PER  NON LASCIARE CHE BASTI UN MURO E POCHI KM PER FARCI DIMENTICARE LE DONNE RECLUSE.

 Nemiche e nemici delle frontiere

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Memoria e Storia

“Ciò che il borghese del XX secolo, tanto distino, tanto umanista e tanto cristiano non riesce a perdonare a Hitler, non è il crimine in sé, l’umiliazione dell’uomo in sé, ma il crimine contro l’uomo bianco, il fatto di aver applicato all’Europa procedimenti colonialisti, riservati, fino a quel momento, agli arabi d’Algeria, ai coolies dell’India e ai neri africani”

Aimé Césaire <Discours sur le colonialisme> 1955

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30 gennaio alla Sapienza/Rosa Luxemburg

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Debito di gratitudine?

“Debito di gratitudine?”

di Nicoletta Poidimani

http://www.nicolettapoidimani.it/

Non c’è nessun su o giù nello spazio esteriore della terra, dunque il nord come ‘su’ e il sud come ‘giù’ sono definizioni puramente arbitrarie. La rappresentazione dell’Europa e dell’America che stanno in alto sulle carte geografiche e sui mappamondi, e che è universalmente familiare, è solo un espediente visuale per rafforzare l’idea che è giusto e appropriato che la gente bianca stia sopra, domini il mondo. Per ri-orientarvi, ruotate le carte geografiche e i mappamondi di 180 gradi. (Amoja Three Rivers )

Il “debito di gratitudine” è la formula magica che giustifica e dissimula i dispositivi che deumanizzano donne e uomini migranti autorizzandone, al contempo, lo sfruttamento in molteplici forme. In nome di quel “debito” essi diventano, infatti, proprietà dello Stato che li “accoglie”.

Alcuni giorni fa un compagno mi spiegava come tale “debito” scatti nel momento in cui le/i migranti vengono “salvati” in mare. Molto significativo è che a questo “salvataggio” segua, come primo atto, la perquisizione: un atto che sancisce l’espropriazione dei loro corpi come prezzo della possibilità – per altro sempre più remota – di restare nella fortezza Europa.

Pensando ai trascorsi coloniali europei, dalla conquista dell’America in poi, mi è stato immediatamente chiaro come il primo scopo del “debito di gratitudine” sia quello di mistificare la realtà attraverso un rovesciamento.

Secoli di schiavitù coloniale e neocoloniale, di rapina delle risorse, di “colonialismo tossico”, di sfruttamento e devastazione dei territori colonizzati nonché delle vite, dei saperi e delle culture di chi li abita sono infatti lì a testimoniare l’opposto: il vero, incommensurabile, “debito” ce l’hanno i Paesi europei che hanno costruito la propria ricchezza sul saccheggio coloniale e che oggi continuano ad ingrassare sulla pelle altrui. Vogliamo ribaltare questo mondo alla rovescia – con le sue false rappresentazioni propagandistiche – e rimettere sui suoi piedi la storia?

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Con il popolo venezuelano e con il presidente Maduro

Con il popolo venezuelano e con il presidente Maduro

In Venezuela è in atto un tentativo di colpo di Stato come al solito e come sempre appoggiato e foraggiato dagli Stati Uniti e da relativi alleati e sodali. Non prendere posizione, non compiere una scelta, significa in realtà accettare la logica del più forte, la logica dell’arroganza, della prevaricazione e dell’aggressione. E noi donne sappiamo fin troppo bene come funziona questo meccanismo.

Sappiamo bene cosa significa confondere aggredita ed aggressore quando veniamo messe sullo stesso piano di chi ci avvilisce, ci umilia e ci opprime perché, ci dicono, anche lei avrà avuto le sue colpe, perché, tutto sommato, se l’è cercata…Noi crediamo che sia fondamentale prendere posizione e che sia necessario farlo collettivamente.

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Podcast dell’iniziativa “Difendere la razza” del 19/01/2019

Ciclo “La de-umanizzazione del soggetto”

Parte seconda

STORIA E MEMORIA/ abbiamo incontrato Nicoletta Poidimani  e il suo libro”DIFENDERE LA “RAZZA”Identità razziale e politiche sessuali nel progetto imperiale di Mussolini –Sensibili alle foglie, Roma, 2009-2018.

L’autrice attraverso un percorso di immagini, documenti, pubblicazioni dell’epoca coloniale ci ha raccontato la storia del razzismo italiano e non solo.

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Roma 26/01 assemblea verso la manifestazione del 23 marzo

http://www.notav.info/post/roma-26-01-assemblea-verso-manifestazione-23-marzo/

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25 gennaio a L’Aquila!

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15 gennaio 1919/Rosa Luxemburg

15 gennaio 1919                                           

Cento anni fa la socialdemocrazia tedesca assassinava Rosa Luxemburg ma il suo pensiero è quanto mai attuale.

“Con quanta maggior potenza il capitale, grazie al militarismo, fa piazza pulita, in patria e all’estero, degli strati non capitalistici e deprime il livello di vita di tutti i ceti che lavorano, tanto più la storia quotidiana dell’accumulazione del capitale sulla scena del mondo si tramuta in una catena continua di catastrofi e convulsioni politiche e sociali che, insieme con le periodiche catastrofi economiche rappresentate dalle crisi, rendono impossibile la continuazione dell’accumulazione e necessaria la rivolta della classe operaia internazionale al dominio del capitale prima ancora che, sul terreno economico, esso sia andato ad urtare  contro  le barriere naturali elevate dal suo stesso sviluppo”

Rosa Luxemburg, L’accumulazione del capitale,  Einaudi, Torino 1972,pp. 469-470

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Podcast dell’iniziativa “Tortura/Una pratica indicibile” del 12/01/2019

Ciclo “La de-umanizzazione del soggetto”

Parte prima

I MECCANISMI DE-UMANIZZANTI SUL FRONTE INTERNOLe “democrazie” occidentali, la tortura, il 41bis… ne abbiamo parlato con Maria Rita Prette e il suo libro “TORTURA/Una pratica indicibile”Sensibili alle foglie 2017-Collana Indicibili sociali.

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Riportiamo qualche stralcio dal libro:

“Parlare di tortura significa parlare del processo di de-umanizzazione messo in atto per renderla possibile. Affinché una persona possa praticare sul corpo di un’altra una sequenza di azioni violente volte a procurarle il massimo del dolore possibile senza provocarne la morte (e spesso anche senza lasciare su quel corpo delle tracce visibili) è necessario che la persona venga addestrata a guardare a chi subisce la sua violenza come a un oggetto, come se non appartenesse alla specie umana.[…] p. 7

[…] Parliamo di tortura come di un’istituzione totale, poiché il dominio del torturatore sulla completa impotenza del torturato è assoluto e perché l’esercizio del potere, attraverso la sofferenza inflitta al corpo del torturato, è totale.

Due sono i concetti che servono a questa istituzione: l’attribuzione del carattere di eccezione o di emergenza agli eventi all’interno dei quali la si pratica come tecnica e l’attribuzione del carattere di pericolosità sociale alle persone sui corpi delle quali è praticata.[…] p.9

[…] Queste pratiche, e quelle che non possiamo escludere su soggetti sociali diversi dai militanti qui considerati, mantengono un carattere di occasionalità territoriale, vale a dire che riguardano l’ambito di una qualche inchiesta, gestita da qualche magistrato, un qualche commissariato o una qualche caserma.

Tuttavia esse già alludono a quel complesso apparato, che vede interconnesse diverse istituzioni (ministeri, magistratura, medici, e diverse figure delle principali forze dell’ordine, dalla polizia alla guardia di finanza) e che avrà un ruolo fondamentale nel ciclo di torture dei primi tre mesi del 1982.[…] p.23

[…] La tortura non ha lo scopo di ottenere delle informazioni, in quanto, notoriamente, esse non sarebbero credibili. La tortura ha lo scopo di distruggere l’identità della persona torturata per sostituirla con un’altra, consona alle esigenze dei torturatori. Serve a umiliare e a degradare e perciò incute terrore. Per questo sin dall’antichità essa viene usata dai potenti per garantire l’acquiescenza e l’innocuità dei sudditi.

In un momento storico nel quale la crisi della forma Stato sta trasformando sempre più i cittadini in sudditi, la tortura torna, non a caso, a essere strumento utile a rappresentare e a conservare il potere.[…] p.83

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