Le stazioni sono frontiere

Le stazioni sono frontiere

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Nel 2015 con il “Progetto gate” è iniziata la militarizzazione di alcune grandi stazioni italiane: prima Milano Centrale in occasione di Expo, poi Roma Termini e Firenze Santa Maria Novella. Il Gruppo Ferrovie dello Stato ha schierato gli agenti della “protezione aziendale” (struttura che si occupa di antifrode e collabora strettamente con le fdo) lungo l’ennesima frontiera interna: i varchi di accesso ai binari da cui partono i treni. Nelle stazioni suddette è ormai invalsa la prassi di controllare i biglietti in una zona presidiata da militari e fdo e situata tra il centro commerciale della stazione e i binari. Il pretesto è quello di rendere più sicure le stazioni dal rischio di furti e attacchi terroristici, ma gli obiettivi effettivamente raggiunti sono altri: da un lato ripulire la stazione (e i treni) da quell’umanità in eccesso e non produttiva che sperimentava le più varie forme di sopravvivenza ai margini del viavai quotidiano (una bancarella ambulante, una panchina dove riposare, un luogo di passaggio dove elemosinare); dall’altro lato aumentare i profitti delle aziende di trasporto attraverso un controllo sempre più serrato nelle stazioni e sui treni. D’altronde il nesso tra i varchi e l’antiterrorismo è evidentemente sfuggente, considerando il fatto che con un biglietto in mano l’accesso ai binari è consentito a chiunque. Pur mancando ancora i gates di accesso, anche a Torino, Bologna, Venezia e Napoli i controlli in stazione da parte di protezione aziendale e militari sono sempre più frequenti.

Da circa un mese una novità esalta la polizia ferroviaria, una nuova tecnologia che si aggiunge alle centinaia di videocamere disseminate nelle stazioni e sui treni: il palmare CAT S60. Ha l’aspetto di un classico smartphone, al momento pare ce ne siano in giro 800 e la sua sperimentazione è stata affidata alla polfer in servizio nelle stazioni di Milano e Roma, proprio a ribadire la trasformazione delle stazioni in zone di confine alla stregua degli aeroporti e delle varie frontiere interne. Con questo dispositivo di controllo high-tech i controlli si susseguono più rapidi che mai: il poliziotto inserisce le generalità o passa la banda magnetica del documento elettronico sullo schermo del palmare. Questo è collegato alla banca dati delle forze dell’ordine: in caso di precedenti penali o pendenza di provvedimenti di polizia, un segnale acustico risuona istantaneamente nella sala operativa della polfer che si mette in contatto con la pattuglia per dare ordini sul da farsi ed eventualmente inviare rinforzi, ulteriormente facilitata in questo dal GPS attivo sul palmare. Continua a leggere

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Riflessioni su un tabù:l’infanticidio/quarta puntata

Réflexions autour d’un tabou : l’infanticide

(traduzione della Coordinamenta / quarta puntata)

qui la prima puntata

qui la seconda puntata

qui la terza puntata

Ouvrage collectif paru en juillet 2009.

https://infokiosques.net/spip.php?article860

C’era una volta una storia di leggi

 Ci è sembrato importante rilevare come la società ha legiferato nel corso dei secoli sul ventre delle donne a seconda del contesto sociale, economico, politico, morale e religioso. E’ utile quindi raccontare lo sviluppo delle diverse regolamentazioni che riguardano la gravidanza. Sembrerebbe palese, ma ci sembra buono ricordarlo, che la legge è una fotografia dei rapporti di forza presenti nella società. Quindi quando si tratta di legiferare sulla procreazione, la costante è la dominazione patriarcale. A seconda delle epoche le legislazioni sono state un po’ più o un po’ meno repressive nei confronti delle donne sospettate d’infanticidio.

Definizione giuridica dell’infanticidio

Il primo testo di legge scritto su questo argomento nel moderno Stato francese è l’Editto del 1556 promulgato da Enrico II. Questo rende obbligatoria la dichiarazione di gravidanza e infligge la pena di morte alla madre in caso di decesso di un neonato non battezzato. Nel 1791 nel contesto rivoluzionario viene votato il codice penale. Questo sopprime qualsiasi riferimento alla morale religiosa e fa sparire la nozione di infanticidio.

Il crimine di infanticidio riappare nel 1810 nel codice napoleonico (articoli 300 e 302). La colpevole, allo stesso modo dell’assassino, dell’avvelenatore o del parricida, incorre nella condanna a morte. Per essere infanticidio il crimine deve essere commesso su un nuovo nato senza che sia specificata la differenza tra un neonato e un bambino. E’ nel 1835  che questo punto è precisato dalla Corte di Cassazione riguardo ad un arresto: c’è infanticidio quando il neonato non è stato dichiarato all’ufficio dello Stato civile, vale a dire entro tre giorni dalla nascita (articolo 55 del codice civile). Dopo questo lasso di tempo non si tratta più di <infanticidio> ma di <assassinio>. Un secolo e mezzo più tardi, il primo marzo del 1994, una modifica del codice penale abroga gli articoli relativi all’infanticidio. Questo atto è da allora in poi qualificato come <assassinio di un minore di meno di quindici anni>. Viene aggiunta una circostanza aggravante  se l'<autore> è un ascendente diretto. La pena conseguente è l’ergastolo (dopo il 1994 nessuna donna è stata condannata a questa pena). L’infanticida perde la sua specificità e le donne accusate di questo delitto sono giudicate come chiunque altro, uomo o donna, accusato del crimine su un minore. Tuttavia persiste in questa legge, all’interno di un articolo relativo alle circostanze dell’atto delittuoso, l’espressione <madre infanticida>.

Morale, giustizia, giurie popolari.

In qualunque epoca, le giurie popolari delle corti d’assise saranno nella maggior parte dei casi restie a mandare le donne al patibolo. Per contrastare questa <clemenza>, nel corso dei secoli il legislatore si è adoperato per cambiare le pene previste per ottenere malgrado tutto la condanna. Così nel 1824 questi prevede, nel caso in cui non sussistano le circostanze attenuanti, non più la pena di morte ma quella dei lavori forzati a vita. Questa pena sembrava ancora troppo pesante ai giurati popolari che erano restii a pronunciarla. Nel 1832 il codice penale viene nuovamente modificato, non sono previsti più i lavori forzati a vita ma per una determinata durata. A partire dal 1863, il giudizio è spostato dalla corte d’assise ai tribunali correzionali se non ci sono prove che il neonato sia nato vivo. La donna allora non è più accusata di assassinio ma di <occultamento di bambino>. Sarà quindi giudicata unicamente dai magistrati e non più da una giuria popolare. Come addetti ai lavori questi devono solamente applicare la pena prevista che va fino a cinque anni di prigione. Se, fino al 1900, le donne sono raramente giudicate colpevoli, quindi il più delle volte assolte, è perché l’infanticidio non era all’epoca pensabile come crimine premeditato. Sono delle <circostanze fuori dall’ordinario> che spingono queste <donne vittime> a questo atto inimmaginabile. Per riconoscere questa circostanza particolare, la legge del 21 novembre 1901 impone che la distinzione sia fatta nelle questioni di assassinio di bambini tra i casi di <ladri> perseguiti per omicidio e assassinio e quelli perseguiti per <infanticidio>. L’infanticidio può comportare una pena ai lavori forzati, modulata a seconda che sia riconosciuta o no la premeditazione. Continua a leggere

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Jessica Harper/Phantom of the Paradise

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Perché è importante difendere un bar!

Perché è importante difendere un bar

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Chiusura di San Calisto, l’accanimento sull’ultimo sanpietrino originale di Trastevere.

Trastevere è un quartiere che, giorno dopo giorno, viene inghiottito dalla gentrificazione. 
I residenti scappano lasciando dietro di sé solo una scia di americani in air bnb e bed&breakfast; il quartiere si popola di posticini per mangiare e bere qualcosa che sia “healthy” ma che non costi meno di 15 euro. 
I prezzi in ascesa ormai da decenni diventano fin troppo anche per loro: di sei mesi in sei mesi ci sono nuovi locali con nuove gestioni, nuove specialità ma sempre negli stessi posti. 

Si cerca di costruire un quartiere che sia a forma di turista (se ricco chiaramente), una vetrina che ti vuole vendere l’immagine di una Trastevere che sta venendo distrutta, che esclude tutto ciò che viene considerato non adeguato a questo tappeto rosso: studenti, poveri, giovani (pischelli), ragazzini che fanno troppo rumore o anche solo chi ha i soldi per una birra e non di più. 
In questo panorama quasi distopico c’è però un’eccezione, un cuore pulsante, una piazza rimasta autentica in tutto e per tutto. Sono le partite a carte dei vecchietti col tavolo al sole davanti la chiesa, è Marcellino con il suo sorriso bonario e centinaia di persone di qualsiasi estrazione sociale. 
L’unico posto, diciamocelo, in cui è ancora possibile bere una birra in compagnia a prezzi, se non popolari, normali. In una zona in cui nel raggio di 4 km ci sono almeno 4 licei e altrettante medie, l’unico posto rimasto vivibile e attraversabile anche per chi studia.

Questo è però inammissibile per la questura di Roma. 

Il degrado che non rientra nelle norme stabilite per un quartiere come Trastevere deve essere allontanato con le buone o con le cattive.
E qui parte la campagna diffamatoria del Messaggero, centinaia di parole su quanto sia oltraggioso che i giovani si vedano, si divertano tutti insieme, escano e tutto questo anche a basso costo! 
E via anche con le pattuglie in piazza, che chiedono i documenti a ogni gruppo di più di 3 persone ogni sabato sera. Ma tutto questo ancora non basta per far morire l’unica piazza ancora viva del centro di Roma: chiudiamola. 

Chiudiamo il simbolo di trastevere, il bar storico, il centro di ritrovo. Chiudiamo ciò che ancora non rientra nel circolo in cui il quartiere dovrà sparire, allontaniamo ciò che non è consono, ciò che non è decoroso, così che i “perbene” al locale dietro l’angolo possano sentirsi tranquilli, lontani dagli schiamazzi. 

Il bar di San Calisto è stato chiuso, sembra per soli 3 giorni, perché “mal frequentato” e “pericoloso per la quiete pubblica”, e qui viene spontanea la domanda: la quiete di chi?

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Sinistra, giudice moralista e succube delle regole

Sinistra, giudice moralista e succube delle regole.

di Nella

Un articolo di qualche giorno fa, contestava la sparata di Salvini sul condono di Equitalia sostenendo che se mai si facesse quella manovra sarebbe a difesa dei ricchi; oltre al fatto che la Lega ha come elettorato la classe media, le piccole e medie imprese, i piccoli proprietari e difende quelli che hanno aperto mutui, chiesto prestiti per aprire attività perché il lavoro stipendiato è precario e inesistente e non la borghesia transnazionale del PD. Non parla quindi solo ai fantomatici ricchi. Questa sinistra fa la pura e dura con una parte di popolazione che certo non è considerabile come proletariato o non è immigrata o sulla soglia della povertà ma comunque ha subito la crisi, subisce il capitalismo e il patriarcato e come tutti ne ha introiettato la sottomissione. Vogliamo davvero fare politica parlando dei poveri? E che categoria politica sarebbe quella dei poveri cristi che pagano le tasse? La sanatoria dovrebbe essere per tutti e tutte, nessuno dovrebbe più pagare le tasse perché non c’è più nessun patto sociale, non ci sono pensioni, welfare, scuola e sanità, tutto si sta privatizzando, non serviamo più a questo sistema, quindi è davvero inutile continuare a dire che se i ricchi, altra nota categoria politica, non pagano le tasse mancherebbero i soldi dalle casse dello Stato. E davvero noi dobbiamo lottare per quelle due briciole secche che ci concedono? Perché dobbiamo fare la lotta di classe se i compagni giocano a chi è il più bravo cittadino? Chi evade le tasse per milioni di euro continuerà, giusto? E allora perché preoccuparci di loro? Perché è giusto? E che cos’è la giustizia secondo i nostri compagni duri e puri? La giustizia è una ripicca contri i ricchi cattivi, molta analisi politica è bruciata con queste dichiarazioni. Sono dichiarazioni pericolose, mi ricorda di quando i compagni chiedevano l’amnistia solo per i compagni, gli altri potevano marcire in carcere, alla faccia del fatto che dovremmo essere tutti per l’abolizione del carcere. Che differenza c’è tra voi e il grillino, tanto schifato da questi compagni, che chiacchiera al bar di onestà? Adesso tutti urlano contro questo governo e a me sembra di vivere una cosa simile all’antiberlusconismo, noi ci dobbiamo indignare come fanno finta di fare quelli del PD, o dobbiamo renderci conto di chi siano le vere responsabilità, tipo che i porti chiusi non sono un’idea di Salvini, ma che ci aveva pensato già Minniti con il PD?

Questo sistema che ci porta a odiare chiunque non rientri nella categoria “poveri” non ci porta verso la ricomposizione di classe, ma ci fa introiettare ancora di più la delega, la morale vittoriana, dove il buon comportamento è valutato meglio della scelta politica. Ci fa giudicare gli altri in base alla morale e al merito. Chi può dire che solo chi ha un debito di 5.000 euro merita di essere condonato? Chi ne ha uno di 10.000 o di 7.000, che dovrebbe essere ricco? È come quelli che dicono che bisogna essere almeno civili, raccogliendo la mondezza, parcheggiando bene e tenendo i bisogni del cane nei sacchetti, come se il senso di civiltà fosse un elemento di analisi politica per i compagni. Così invece di riappropriarci di tutto, noi decidiamo per gli altri, come fanno i partiti, cosa sia giusto fare, tipo non pagare il biglietto ma pagare le tasse sì, accettare i compromessi vertenziali invece di puntare in alto nelle proprie richieste, piagnucolare perché il padrone non ci concede quello che ci spetta, chiediamo al capo invece di creare le condizioni di lotta per ottenere ciò che vogliamo. Ci accontentiamo di quello che ci danno, ma rispetto ai bei tempi del welfare non ci danno più nulla, perché dobbiamo bussare e chiedendo permesso non dovremmo sfondare la porta. E come quando le compagne si rivendicano la 194 come fosse l’ultimo baluardo del femminismo sulla faccia della terra, ma la 194 è stata concessa perché le lotte puntavano il cielo, ma si sta nell’errore se si crede di poter star bene accettando tout court quella legge che è la stessa che ha permesso l’entrata degli obiettori nei reparti di ginecologia, non è chiedendo di rispettare le quote di assunzione che otterremo qualcosa ma solo rendendoci conto che dovremmo tornare a fare azioni contro i medici obiettori, dovremmo chiederci perché l’obiezione di coscienza è così incisiva solo sugli aborti e non sui trapianti per esempio. Noi dovremmo pretendere che l’aborto venga depenalizzato non dobbiamo preoccuparci delle modalità con cui una donna vorrà abortire, non è compito nostro controllare la vita delle donne con i contraccettivi o con le pillole quello è ciò che ci hanno fatto credere fosse per il nostro bene, ma si tratta di controllo. Perché ci interessa così tanto occuparci di come moralmente una donna gestisce la sua salute? La sanità deve essere pubblica e gratuita punto non deve fare prevenzione perché siamo bambine che hanno bisogno di sostegno. La sinistra forse sta morendo, o è morta abbiamo regalato l’ideologia, il populismo, l’identità e il senso di comunità alle destre perché troppo impegnati a tenere testa al potere sul suo stesso campo, partita persa in partenza a meno che non si voglia fare il negro da cortile.

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Divertiamoci e difendiamoci!

Dalle compagne basche

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Riflessioni su un tabù: l’infanticidio/ terza puntata

Réflexions autour d’un tabou : l’infanticide

(traduzione della Coordinamenta / terza puntata )

qui la prima puntata 

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Ouvrage collectif paru en juillet 2009.

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Un bambino, che cos’è? 

Si parla di infanticidio, termine che evoca l’atto di uccidere un bambino. Ora, si tratta veramente di questo? che cos’è un bambino? Un bambino quando<è>? La risposta non può essere trovata in uno stadio di evoluzione biologica del feto, non c’è un momento<naturale>a partire dal quale si può parlare di un bambino. Se si guardano i tempi legali di aborto nei paesi che lo autorizzano (quattordici settimane in Francia, ventotto settimane a Barcellona in alcune cliniche pagando caro, nessun limite di tempo in Quebec), per esempio, è chiaro che questi tempi corrispondono ad un arbitrio sociale proprio di ogni paese. Ogni società decide il momento a partire dal quale l’aborto non è più accettabile e diventa un atto condannabile perché non permette la vita di un bambino. 

Lo status di bambino, il<valore> della sua vita è una costruzione sociale. 

Nell’alto Medioevo veniva presa in considerazione la data di introduzione dell’anima nel corpo del<feto> (che era di quaranta giorni per i maschi e di ottanta per le femmine?!) Oggi non è più l’introduzione dell’anima ma la vivibilità del feto, sempre più precoce grazie ai progressi della medicina, che serve di base a quelli che vogliono creare uno statuto giuridico per l’embrione. La scienza si sovrappone alla religione. Contrariamente a quello che ci vorrebbero far credere, è comunque tutto arbitrario.

In altri tempi  e in altre società, il bambino non ha un’esistenza piena anche dopo la nascita: in certe civiltà, bisogna aspettare diverse settimane, anche più mesi, per dare un nome al nuovo nato; in altre il piccolo non può essere visto da altre persone che non siano i genitori prima di molte settimane, la sua esistenza sociale non inizia così che qualche tempo dopo la sua nascita; presso i Romani, il padre aveva il diritto di vita e di morte sui suoi figli ben oltre la loro nascita.

Ora, da questo punto di vista, se le lotte delle donne hanno permesso certe conquiste (contraccezione, aborto)  si assiste allo stesso tempo ad una tendenza alla sacralizzazione del bambino che deve nascere che va di pari passo con il posto sempre più importante del bambino nelle società occidentali. Le proiezioni sui bambini, oggi meno numerosi e il più delle volte <scelti>, sono importanti e pesano sulle madri che li portano dentro e li fabbricano. Queste proiezioni sono di ordine individuale ma anche sociale: il bambino <raro> non può deludere, rappresenta una sfida per la sopravvivenza della specie ma anche una riproduzione di identità, una salvaguardia del patrimonio culturale ( perché si dà tanta importanza al tasso di fecondità delle donne francesi e si controlla altrettanto l’ingresso di bambini venuti da altri paesi?), è anche una sfida economica… Continua a leggere

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Barricadas Graficas

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La Parentesi di Elisabetta del 20/6/2018

“Dare il merito a chi ce l’ha”

“Il trattamento ricevuto sabato dalle forze dell’ordine – esordisce Gerardo D’Aprile, presidente del Centro Coordinamento Club Frosinone Calcio – è forse la cosa più offensiva del nostro campionato di Serie A. Azioni vergognose che con lo sport non c’entrano nulla. Una volta arrivati alla barriera di Napoli, i nostri quattro pullman sono stati fermati oltre mezz’ora, per poi essere condotti in una piazzola dove ci hanno fatto scendere uno ad uno, sotto la pioggia che cominciava a scendere battente (ad altri due pullman provenienti da Frosinone era stato riservato lo stesso trattamento poco prima). Documenti o tessera del tifoso alla mano – continua – siamo stati fotografati. Esattamente come terroristi. Nonostante la nostra tifoseria sia tra le più corrette e, proprio nelle ultime settimane, sia stata spesso incensata per i suoi atteggiamenti positivi. I funzionari presenti volevano schedare anche  mio figlio di quattordici anni. Mi sono opposto, dicendo che avrei sporto denuncia contro di loro. Anche se purtroppo è inutile, tenteremo comunque di adire alle vie legali per quanto accaduto” (Napoli-Frosinone 14 maggio 2016)

Sabato 16 c’è stata una manifestazione nazionale qui a Roma chiamata dalla USB con la parola ”Prima gli sfruttati”, quindi una manifestazione ufficialmente sindacale. Chiaramente non si intende assolutamente fare distinguo tra manifestanti “buoni” e manifestanti ”cattivi” che è un atteggiamento pericoloso e sempre dalla parte del potere. I pullman che portavano i manifestanti da fuori città sono stati fermati e i passeggeri schedati e fotografati uno per uno. Abbiamo letto alcuni articoli di  “sinistra” che definivano tutto ciò come il nuovo stile di governo e come una pericolosa deriva verso un vero stato di polizia. Ora, è il caso di dare il merito di questo a chi ce l’ha perché l’esercizio della memoria, anche se in questo caso si tratta di accadimenti di appena ieri, è uno strumento importante di chiarezza politica.

Sono anni che questa pratica viene attuata nei riguardi dei pullman dei tifosi che si recano in trasferta alle partite della propria squadra nel silenzio colpevole, se non nell’approvazione, di quasi tutti. E questa modalità è usata già da anni nei confronti di manifestanti ritenuti particolarmente <pericolosi> come  quelli e quelle che si battevano e si battono contro i Cie, ora CPR. Ed è stata messa in atto dai governi socialdemocratici riformisti che si sono succeduti fino a ieri, come d’altra parte il prelievo coatto del DNA, la detenzione amministrativa, il controllo territoriale e la militarizzazione delle città,il Daspo,  i fogli di via, le sanzioni amministrative, gli sgomberi, la persecuzione dei senza tetto, la demonizzazione della povertà, la demolizione dei campi Rom….e potremmo continuare fino a domani cominciando dalla Bologna di Cofferati fino ai decreti Minniti.

Quindi diamo il merito a chi ce l’ha.

La socialdemocrazia riformista, PD in testa, è la destra moderna e non bisogna mai dimenticarlo perché è proprio questa che ha scientemente creato la società che stiamo vivendo.

Ha operato una trasformazione profonda del comune sentire. I principi fondanti del neoliberismo, di cui il PD e i suoi gregari sono stati e sono i principali naturalizzatori, sono principi socio-economici-politici esplicitamente fascisti, ma sono stati veicolati attraverso linguaggi, segni, segnali, modalità, parole, atteggiamenti e strumenti tradizionalmente di sinistra. Questo ha fatto sì che alle persone non sia sembrato vero di potersi ammantare di una collocazione di sinistra, che ci sta sempre bene ed è un fantastico alibi, e assimilare, rimbalzare, fare propri, discorsi profondamente reazionari, perbenisti, forcaioli.

Questa è stata la grande vittoria del neoliberismo, l’aver costruito un’egemonia culturale improntata ad un pensiero di destra profonda usando gli strumenti e il lessico portati in dote dalla socialdemocrazia, pensiero in cui dominano il culto della legalità, il darwinismo sociale, il razzismo, l’individualismo sfrenato, il culto dell’arrivismo e della meritocrazia, la deferenza per l’autorità e la gerarchia, la superiorità del mondo occidentale rispetto agli altri popoli propagandata dalle guerre “umanitarie”, superiorità introiettata che spinge all’odio razziale. Continua a leggere

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Estate all’Orto Insorto!

Estate all’Orto Insorto! Domenica 24 e venerdì 29 giugno!

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Don’t need you/Bikini Kill

https://youtu.be/qG0xPKL0DI4

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Riflessioni su un tabù:l’infanticidio/seconda puntata

Réflexions autour d’un tabou : l’infanticide

(traduzione della Coordinamenta / seconda puntata )

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Ouvrage collectif paru en juillet 2009.

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Infanticidio: un termine di senso comune

Ecco come il dizionario Petit Robert definisce il termine infanticida : <Chi uccide volontariamente un bambino e in particolare un neonato. Es. una madre infanticida> In quello che viene chiamato il <senso comune>, vale a dire quella miscellanea di idee assorbite che alimenta le conversazioni e costituisce la base dell’uso che ne fanno i media, il termine infanticida rinvia all’idea di madre, di <cattiva> madre. E i dizionari , con gli esempi scelti, non fanno altro che trasmettere questo pensiero dominante. Noi vorremmo proporre un altro sguardo e un altro approccio alla realtà dell’infanticidio mettendo in evidenza i connotati morali che sottendono una definizione presentata come neutra.

Storicamente il termine infanticidio appare quando l’atto diventa giuridicamente condannabile. Non è casuale che ciò corrisponda al momento in cui la dichiarazione di gravidanza e di parto diviene obbligatoria: Lo Stato all’inizio del Rinascimento cerca di controllare la popolazione e quindi di controllare quello che le donne fanno di questi futuri soggetti che sono i bambini che devono nascere. Infanticidio è oggi una parola che è sparita dal codice penale. Le donne ora sono accusate di <omicidio su minore di meno di quindici anni>. L’eliminazione di un neonato è così assimilata in termini legislativi all’omicidio di qualsiasi bambino fino a quindici anni. Facendo sparire la specificità dell’atto, la legge nega l’ineguaglianza concretamente reale tra uomini e donne nei rapporti con i bambini e pretende di ignorare che le oppressioni che costringono le donne a fare ricorso all’infanticidio esistono sempre.

Ma, malgrado la volontà di neutralità e di edulcoramento del legislatore, la parola riappare nella giurisprudenza e non ha mai abbandonato le colonne dei giornali. Perché? perché mette l’accento meno su di un atto ( l’orribile<omicidio>di cui parla il codice penale) che su una relazione (la filiazione) e uno stato (quello della madre) che sono molto specifici. Non soltanto questo termine evoca quasi esclusivamente l’immagine della madre, ma definisce come madri delle donne che commettono specificatamente questo atto proprio per non esserlo. Continua a leggere

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Podcast della presentazione del 29/05/2018 “E questo è quanto” al Nido di Vespe

Podcast della presentazione del 29 maggio 2018 al Nido di Vespe del libro 

<E questo è quanto>”Salvatore Ricciardi” di Ottone Ovidi ed. Bordeaux

29 maggio/E questo è quanto, storie di rivoluzionarie e rivoluzionari

Questa la registrazione di tutta l’iniziativa 

clicca qui

Questo l’intervento di Barbara Balzerani

Mi piace molto l’impostazione che Otto ha dato al suo libro. Credo che la storia sia una materia da storici, quelli che si documentano, che mettono a confronto le fonti, quelli che non dovrebbero sbagliare una virgola rispetto a quanto raccontano. Invece la memoria è personale, ruota attorno alla figura di una persona – in questo caso Salvatore – può avere degli svantaggi, magari soffrire di qualche défaillance nei ricordi o, peggio, essere in seguito rielaborata in modo diverso rispetto ai fatti vissuti e a quello che si pensava nell’atto di compierli. E spesso succede. Però, il modo di raccontare attraverso la memoria individuale ha un enorme vantaggio secondo me, e cioè restituisce una fisionomia, carne e sangue a figure che altrimenti rimarrebbero astratte e stereotipate. Come è successo a quella del “brigatista”. Salvatore è portatore di una storia sua, particolare e, contemporaneamente, collettiva che ci offre uno spaccato sull’origine sociale e il percorso di militanza della stragrande maggioranza dei militanti di quella che è stata la nostra organizzazione. E questo è un aspetto fondamentale, proprio perché la figura del brigatista è stata mostrificata, censurata e condannata, in realtà più dalla propaganda che dagli storici, visto che qualche buon libro si può trovare nell’omologazione pressochè totale alle verità ufficiali di tv, cinema, giornali. La propaganda del potere ci ha riempiti di fango. Secondo la vulgata massamediata non si capisce da dove siamo venuti, chi siamo, quale famiglia marziana ci ha messo su questo pianeta, essendo stati del tutto estranei alle dinamiche sociali di questo paese. È un tamtam che va avanti da trenta, quaranta anni, ed è riuscito ad entrare nel senso comune, a far passare l’idea di quattro matti che una mattina si svegliano, vanno a via Fani, fanno una strage, spalleggiati da molteplici poteri occulti.

Nell’apice di questo delirio di mistificazione rappresentato dal quarantennale del sequestro Moro, purtroppo non mi pare che gli storici siano stati tanto presenti come avrebbero dovuto e potuto, indicando altre prospettive di analisi e conoscenza rispetto al discorso mediatico. Al contrario abbiamo visto giornalisti mediamente informati fingere di non sapere, ignorare fatti più che noti, fare “errori” che scivolano nell’orrore, arrivando persino a dire che noi avremmo ammazzato dei compagni… queste sono state le cose dette in televisione… Si è arrivati ad un piano di discussione talmente immiserito che non si tratta neanche più di una contestazione nel merito dei fatti accaduti. Se così fosse, già sarebbe qualcosa, ci attesteremmo almeno su un piano dialettico, di confronto tra diverse posizioni rispetto ai fatti. Invece siamo all’insulto, un insulto gridato che non lascia margini a nessuna possibilità di contestazione.

Rispetto a questo discorso mediatico dominante, cosa fa l’accademia abilitata all’insegnamento e alla critica storica? Possiamo solo prendere atto dello stato in cui versa: qualche giorno fa, all’università di Tor Vergata, un programma di dottorato in storia ha ospitato un’iniziativa che ha riunito membri dell’ultima commissione parlamentare e dietrologi, praticamente una sola e univoca voce. Come è possibile ricostruire la storia se questi ne sono i presupposti e le linee di discussione? Perché dovremmo avere interesse e voglia di confrontarci con questi signori, i quali da una parte dicono che dobbiamo tacere, e dall’altra che siamo reticenti? E’ un gioco miserabile, però funziona, e attecchisce, tanto in chi in quegli anni non c’era e crede di sapere, come in chi invece c’era e ha “dimenticato”, perché anche l’aver cambiato idea così radicalmente da fingere di aver visto e vissuto cose diverse da quelle accadute contribuisce a mistificare il racconto. Su questa strada diventa gioco facile far passare verità imposte che parlano la lingua del potere che si protraggono ormai da qualche decennio e che da quando è stata istituita la “giornata della memoria delle vittime del terrorismo” va sotto il nome di “memoria condivisa”.

Cosa significa memoria condivisa? Come si fa in una società divisa in classi ad avere una memoria condivisa? E’ una contraddizione in termini. Ciò che dice Otto nella sua prefazione, e cioè che la sua è una scrittura di parte, è il minimo che si debba dichiarare e da cui si debba partire credo, proprio perché non esiste una storia asettica, non esiste una storia obiettiva. Esiste al contrario una storia ufficiale che non è affatto neutrale, perché esprime il punto di vista padronale, in questo caso capitalistico, e che non lascia spazio a niente altro. In ogni caso, non esiste nessuna possibilità di mettere insieme narrazioni che esprimono interessi di classe diversi e che procedono nella ricostruzione della propria storia secondo modalità diverse. Continua a leggere

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Leggere L’accumulazione del capitale

Leggere <L’accumulazione del capitale>

di Maria Turchetto

Un’aquila
Lenin la definì “un’aquila”. E davvero Rosa Luxemburg volò molto in alto, in
una società che era ancora profondamente maschilista. A quei tempi in quasi tutto
il mondo le donne erano escluse dal voto e dai diritti politici, in molti paesi non
avevano accesso alle professioni liberali, nel lavoro erano sfruttate e sottopagate
rispetto agli uomini, nella famiglia soggette all’autorità del marito.
Rosa Luxemburg i diritti politici se li prese: fu una dirigente socialista di prima
grandezza. Sostenitrice di posizioni internazionaliste, fu attiva nella sua Polonia, in
Russia e soprattutto in Germania. Lucida, coerente, lontana da ogni opportunismo,
all’epoca fu una delle poche rappresentanti del socialismo a non compromettersi
con nessuna guerra, a battersi sistematicamente e implacabilmente contro il militarismo.
Per questo suo atteggiamento passò in prigione la maggior parte degli anni
della guerra, scrivendo, studiando e continuando a seguire gli eventi politici: la costituzione in Germania della Lega di Spartaco, di cui fu diretta ispiratrice; la rivoluzione russa, che valutò e commentò con grande intelligenza – sostenne Lenin e i
bolscevichi, ma fu da sempre consapevole delle difficoltà e delle degenerazioni cui
il partito rivoluzionario poteva andare incontro.[…]

continua qui https://www.unive.it/pag/fileadmin/user_upload/dipartimenti/DSLCC/documenti/DEP/numeri/n28/02_n28-2015.pdf

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SIAMO TUTTE LAVINIA!!!!!

SIAMO TUTTE LAVINIA!!!!!

Lavinia Cassaro, l’insegnante che aveva osato esprimere in piazza durante una manifestazione le sue opinioni politiche è stata licenziata. Siamo tutte Lavinia, perché non è sufficiente essere tutte con Lavinia, ci dobbiamo rendere conto che quello che è successo a Lavinia può succedere ad ognuna di noi. Lavinia è stata licenziata per le sue idee.

Il neoliberismo vorrebbe raccontarci una società basata sulla” convivenza civile” in cui ognuna/o dovrebbe esprimere le proprie idee e convinzioni con riserbo e pacatezza e tutte/i insieme dovremmo lavorare per il bene dello Stato  “democratico”, per la costruzione di una società “migliore”, più “civile”, più “ricca e accogliente” di quella in cui viviamo.

Vorrebbero farci dimenticare che questa è una società basata sullo sfruttamento, sull’ingiustizia sociale, sulla disperazione della stragrande maggioranza degli esseri umani, qui e nel terzo mondo, una società classista, razzista e sessista.

Per questo hanno la sfrontatezza di pretendere contraddittori tra le parti. Come se si potesse fare un contraddittorio tra oppresso/a ed oppressore, tra sfruttato e sfruttatore, tra lo Stato che agisce impunemente violenza in tutte le sue articolazioni e chi la subisce e tenta di sottrarsi….viene annullata  in questo modo la valenza politica delle lotte che sarebbero dovute quindi all’incapacità dei soggetti di rapportarsi “democraticamente”.

E tutto questo è non solo strumento di demonizzazione di chi tenta di opporsi ora a questo stato di cose, ma è anche un oltraggio per tutte quelle e tutti quelli che hanno lottato e che, oltre ad aver pagato caro il loro impegno, si vedono  equiparare  a chi le ha perseguitate/i e oppresse/i.

E vorrebbero che questo discorso passasse prima di tutto nella scuola che ha a disposizione tutti gli strumenti per essere catena di trasmissione dei valori dominanti.

E i primi naturalizzatori del discorso neoliberista sono i socialdemocratici riformisti che nascondono dietro una maschera “buonista” una violenza inenarrabile che si manifesta esplicitamente quando  Matteo Renzi nella trasmissione Matrix del 26 febbraio ha auspicato il licenziamento della maestra, un licenziamento che sarebbe dovuto all’incompatibilità di idee politiche di questo tipo con il ruolo di insegnante. 

La violenza del neoliberismo si manifesta  nella sua pretesa di vietare ogni forma di conflitto, di differenza e di declinare tutto nel suo interesse e di sacrificare tutto alla sua conservazione e autoespansione.

Chiarezza politica, onestà intellettuale, coraggio civile, autonomia, autodeterminazione, autorganizzazione, coscienza di classe, coscienza di genere sono gli strumenti che dobbiamo usare per proseguire il nostro percorso di liberazione.

Qui le riflessioni che abbiamo fatto qualche tempo fa proprio sul concetto di “convivenza civile”

I Nomi delle Cose del 14/06/2017

 

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