Mare d’Azov/Provocazione ucraina

riceviamo dalla Rete contro la Guerra e il Militarismo di Napoli

Mare d’Azov: cresce il materiale incendiario verso un nuovo conflitto mondiale

Gli ultimi avvenimenti tra Russia e Ucraina sono una conferma di quanto da tempo vanno sostenendo gli attivisti contro la guerra ed il crescente militarismo, e cioè che siamo di fronte ad una pericolosa crescita delle tensioni tra potenze ed al concreto rischio che incidenti come questi possano sprofondare l’intero globo nel baratro di un conflitto mondiale.

I fatti accaduti sono noti: nella giornata del 25 novembre, due imbarcazioni militari ucraine (Nikopol e Berdyansk) ed il rimorchiatore Yani Paku sono entrati nel Mare di Azov, in quelle che possono essere considerate acque territoriali russe, senza aver preannunciato le loro intenzioni e senza rispondere all’intimazione russa di invertire la rotta. Anzi, come ammette il consigliere presidenziale ucraino Jurij Birjukov, le unità di Kiev avrebbero aperto il fuoco a cui le motovedette russe hanno risposto speronando il rimorchiatore e ferendo 3 membri dell’equipaggio. Le imbarcazioni ucraine sono state fermate a circa 20 chilometri dalla costa russa e trattenute a Kerč insieme agli uomini dell’equipaggio tra i quali, secondo le dichiarazioni di Vasily Gritsak, capo del Servizio di sicurezza dell’Ucraina (SBU), erano presenti agenti del controspionaggio militare. Mosca ha poi bloccato l’accesso al Mare di Azov ancorando una grossa unità mercantile sotto il ponte sullo stretto di Kerč anche perché altri battelli sono stati inviati dalla marina ucraina sul luogo senza però avvicinarsi alle acque territoriali russe.

Non c’è dubbio che si tratti di una vera e propria provocazione da parte di Kiev. Già il 23 settembre due navi militari della flotta ucraina avevano attraversato lo stretto ed il governo russo, anche per l’annuncio da parte di Poroshenko di esercitazioni militari NATO nel Mare di Azov, aveva intimato tanto all’Ucraina quanto agli USA di rispettare il “Trattato sullo Stato Legale del Mare di Azov e dello Stretto di Kerč”, siglato nel 2003 da Russia e Ucraina, che consente l’ingresso di navi (in particolare navi da guerra) solo se esiste un accordo fra le due parti e a patto di sottostare alle ispezioni eventualmente decise dalla Guardia Costiera russa.

Proprio questi controlli, inaspritisi in particolare dopo il sequestro da parte del governo ucraino dell’unità da pesca russa “Nord” e della petroliera “Pogodin, sono osteggiati tanto da Kiev che da USA e UE. E mentre l’Europa, per bocca dell’Alta rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la sicurezza Mogherini, minaccia ad ogni piè sospinto misure contro Mosca, gli Stati Uniti, con la scusa che tali ispezioni danneggiano l’economia ucraina, stanno provvedendo a rafforzare la flotta di questo Paese: hanno già fornito due motovedette di classe Island, armate di mitragliatrici calibro 50 e cannoni da 25 mm, e sono in procinto di trasferire le fregate inutilizzate del Pentagono. Come dichiarato, a settembre, dall’inviato speciale degli Stati Uniti Kurt Volker, l’amministrazione Trump vuole fornire all’Ucraina armi più letali per colmare le lacune in termini di capacità, in particolare le risorse navali e di difesa aerea. L’obiettivo, esplicitato da Poroshenko, è costruire una nuova base militare navale a Berdjansk.

Ma la tensione tra Mosca e Kiev cresce non solo nel Mare di Azov. Proprio il giorno prima dell’”incidente” navale, nell’est dell’Ucraina (Donbass), le forze governative, nonostante il cessate il fuoco, hanno occupato un villaggio nella zona smilitarizzata che divide il territorio sotto il controllo di Kiev da quello delle Repubbliche popolari di Donetsk e di Lugansk.

Molti commentatori, anche occidentali, sostengono che con queste azioni provocatorie, Poroshenko starebbe cercando di utilizzare la possibile escalation per rafforzare la propria posizione nelle prossime elezioni presidenziali (marzo 2019) che lo vedrebbero, al momento, arrancare nei sondaggi. Ipotesi, a quanto pare, condivisa anche dai suoi oppositori interni visto che la sua proposta di dichiarare la legge marziale, è stata sì approvata dal Parlamento ma ridimensionata rispetto alle richieste del Presidente sia nella durata (30 giorni invece che 60) che nell’estensione territoriale (solo nelle regioni a confine con il territorio russo). Totalmente approvata, invece, e non poteva che essere così, la parte repressiva: diritto del governo di limitare le manifestazioni pubbliche e il diritto di sciopero, limitazioni alla libertà di stampa e di parola, possibile obbligo per i cittadini di “lavori necessari”, possibilità di censura su posta e telefonate, possibilità di confisca statale di alcuni beni, se ritenuto necessario.

Per altri commentatori, essa sarebbe la reazione ed il tentativo di provare ad ostacolare un’ulteriore mazzata per l’economia ucraina già al collasso, e cioè il definitivo aggiramento di questo paese per la distribuzione del gas russo sui mercati europei grazie al completamento del Turkish Stream, di cui pochi giorni fa il Presidente russo Putin e quello turco Erdoğan hanno inaugurato la sezione marittima appena terminata, e al Nord Stream-2 che espande l’oleodotto Nord Stream con un ulteriore tracciato attraverso il Mar Baltico.

Che dietro questo innalzamento di tensione ci siano queste ragioni o la volontà, indicata da alcuni, di sabotare l’incontro fra Trump e Putin programmato per il 30 novembre al summit del G20 in Argentina, sta di fatto che Kiev agisce sapendo di poter contare sull’appoggio o per imbeccata dei sui padrini/padroni occidentali di cui è sempre più una pedina. E’ evidente, infatti, che questa crisi ha consentito, di nuovo, a Trump di tornare a fare la voce grossa annullando l’incontro e richiamando, proprio alla vigilia del rinnovo delle sanzioni alla Russia, una recalcitrante Europa a mettersi in riga. Infatti, l’Europa (Germania e Francia in particolare) pur schierandosi nettamente dalla parte di Kiev e pur continuando a sostenere il programma di assistenza economico-finanziaria all’Ucraina (in questi giorni erogati altri 500 milioni), non sembra condividere un ulteriore inasprimento dei rapporti con Putin né l’immediata opzione militare.

Una cosa è certa, le minacce USA-NATO-UE e il rifiuto di discutere nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU la mozione russa sulla vicenda insieme alla decisione di Poroshenko di vietare l’ingresso nel Paese ai cittadini russi dai 16 ai 60 anni, alzeranno ulteriormente la tensione. Mentre la stampa ci racconta di dichiarazioni volte a calmare i toni e di finte proposte di mediazione, la realtà vede un incrementata attività militare in tutta l’area. In questi giorni, mentre i comandi dell’esercito ucraino comunicano la tenuta di esercitazioni militari nella zona del Mare di Azov e Poroshenko chiede alla NATO di aumentare la sua presenza nel Mar Nero, aerei antisommergibile della Marina Militare degli Stati Uniti e droni RQ-4A Global Hawk stanno conducendo voli di ricognizione nell’area dello stretto di Kerč, in Crimea e lungo la linea di demarcazione nel Donbass

Non che questa sia una novità. Da troppo tempo, ormai, stiamo assistendo ad una potente militarizzazione a ridosso della Russia. La NATO , che vedrà rapidamente anche l’ingresso dell’Ucraina, ha inglobato tutti i paesi (eccetto la Bielorussia) dell’Est Europa posizionando migliaia di uomini e armamenti, costruendo nuove basi e modernizzando quelle già esistenti con il trasferimento di missili balistici e sistemi avanzati di difesa aerea ai confini dello Stato russo. Ai contingenti NATO si sommano, poi, le basi ed i contingenti USA già schierati dal Premio Nobel per la pace, Obama, e ulteriormente rinforzati da Trump (4000 solo in Polonia) che non a caso sta riducendo i militari di stanza in Africa per concentrarli contro la “minaccia russa”. Ma anche altri paesi non sono da meno. Ad esempio la Gran Bretagna ha annunciato la realizzazione entro il 2019 di una propria base navale a Odessa, nel Mar Nero.

La pressione sulla Russia viene, inoltre, costantemente accresciuta dai cosiddetti “giochi di guerra” che negli ultimi anni stanno diventando più massicci e crescono nel numero di truppe e mezzi impiegati. Nel 2018, secondo fonti militari, sarà l’anno record per le esercitazioni militari NATO arrivate a circa 100 (20% in più rispetto all’anno scorso) ed una parte consistente di esse ha avuto come obiettivo la preparazione a combattere “l’aggressivo nemico russo”.

Solo tra ottobre e novembre si sono svolte due grandi esercitazioni: la Trident Juncture 2018 e Anakonda 2018.

La Trident Juncture ha preso avvio il 25 ottobre con una prima fase «dal vivo», conclusasi il 7 novembre, che ha visto impegnati 51.000 militari, 250 aerei, 65 navi, 250 aerei, 10 mila carrarmati e altri veicoli militari nella Norvegia centrale e orientale, nelle aree adiacenti del Nord Atlantico (fino all’Islanda) e del Mar Baltico (inclusi gli spazi aerei di Svezia e Finlandia); e una seconda fase in modalità di simulazione “Computer Assistita” dal 14 al 23 novembre. Vi hanno partecipato i 29 paesi membri della Nato, più le forze armate di Svezia e Finlandia, paesi partner ma fuori dall’Alleanza. Anakonda 2018 iniziata il 7 novembre, terminerà la sua seconda fase il 6 dicembre. Vi partecipano 10 paesi membri dell’Alleanza Atlantica con circa 20.000 militari, sotto la guida della Polonia, Paese ospitante, 45 navi da guerra e 150 aerei ed elicotteri. Per la prima volta Anakonda si svolgerà anche fuori dalla Polonia, in Estonia, Lituania e Lettonia con la partecipazione complessiva per quei paesi di 5.000 soldati.

La Russia ha ripetutamente protestato contro l’attività senza precedenti della NATO ai suoi confini considerandola “aggressiva e ostile”, e, in risposta, sta rafforzando la sua presenza militare ovunque, in particolare lungo i propri confini e a difesa delle sue basi. Nello stesso tempo lancia avvertimenti all’Occidente con altrettante prove muscolari. Dopo la grande esercitazione dell’anno scorso, Zapad 2017, a settembre le forze armate russe si sono esibite nella Vostok 2018, considerata la più grande esercitazione degli ultimi 40 anni nell’area dell’ex Unione Sovietica. Svoltasi nei distretti militari Centrale e Orientale della Federazione, fino al Mar del Giappone e allo Stretto di Bering ha visto lo schieramento di circa 300mila uomini e l’utilizzo di oltre 1.000 mezzi dell’aviazione, fino a 80 navi, da combattimento e logistiche, e fino a 36mila carri armati, autoblindo e altri veicoli. Due gli altri paesi partecipanti: la Mongolia e la Cina.

La presenza dell’esercito cinese (con sole 3.200 unità, più di 900 mezzi militari e 30 tra caccia ed elicotteri) ha voluto essere un segnale di coesione sul piano militare in chiave anti-Usa/anti-NATO. Esattamente come la Russia, il governo cinese è, infatti, consapevole che tanto la guerra commerciale quanto la presenza sempre più asfissiante di navi e basi militari a stelle e strisce e dei loro alleati nel Mare cinese e nel Pacifico fanno parte della strategia statunitense per contenere la sua ascesa come potenza emergente.

Quanto questa comune avversione verso gli USA possa rappresentare un reale elemento di coesione e far superare la diffidenza storica esistente tra questi due colossi e le loro specificità strategiche, non è dato sapere. Sta di fatto che questa contingente convergenza, anche sul piano economico-finanziario, è elemento di ulteriore tensione con l’Occidente.

Tutto questo sta assumendo una deriva pericolosa.

La Russia dopo aver subito decisive mutilazioni della propria area di influenza è costretta a reagire se non vuole essere ridimensionata ulteriormente e ridotta al ruolo di potenza locale. L’intervento in Georgia nel 2008, l’appoggio ai ribelli del Donbass e l’annessione della Crimea, l’intervento in Siria, sono la manifestazione della volontà russa di difendere i propri interessi vitali e contrastare con ogni mezzo l’accerchiamento del blocco euro-atlantico.

Visto l’acuirsi delle contraddizioni, è difficile pensare che gli USA, innanzitutto, e l’Europa, sebbene in concorrenza tra loro ed al momento con strategie non sempre convergenti, possano consentire alla Russia di mantenere ed espandere il proprio ruolo di potenza globale dal punto di vista geopolitico.Gli episodi di scontri locali, spesso realizzati per interposti protagonisti primari, sono destinati quindi ad intensificarsi invece di ridursi. Sperando di replicare la dinamica che portò alla caduta dell’URSS, si cerca di impegnare la Russia su diversi scacchieri e di spingerla verso una corsa al riarmo (arrivato a 66,3 miliardi di dollari nel 2017) tale da non poter essere compatibile con le sue risorse economiche e finanziarie, pena un nuovo collasso ed il rischio di una nuova implosione dagli effetti distruttivi.Esemplificativa a tale proposito la decisione degli USA di ritirarsi dal Trattato sulle armi nucleari intermedie (INF) che, come avvenuto con l’uscita da altri trattati, favorirà una nuova corsa agli armamenti. Già Obama nel 2015 varò un “aggiornamento” per 1.500 miliardi di dollari delle armi nucleari (le B61-12) da dislocare in un certo numero di Paesi dell’Europa occidentale tra cui Belgio, Germania, Paesi Bassi e Italia; con questo nuovo ritiro l’amministrazione statunitense si prepara a piazzare missili nucleari sui o vicino ai confini della Russia e persino, come dichiarato dal Consigliere per la Sicurezza Nazionale John Bolton, a Taiwan. D’altro canto la Commissione del Congresso USA ha recentemente accettato le conclusioni e le richieste di un rapporto del Pentagono in cui si identifica non più nel terrorismo, ma nella Russia e nella Cina la più grande minaccia al dominio degli Stati Uniti.

Non c’è dubbio, quindi, che siamo di fronte ad un’escalation militare senza precedenti. Scaramucce come quella nel Mare di Azov rischiano di diventare il casus belli per innescare il confronto militare diretto tra le grandi potenze. Il recente riacuirsi delle tensioni in Siria, le minacce all’Iran, l’aggressione dell’Arabia Saudita allo Yemen, il caos libico e la manomissione in atto in molti Paesi africani, sono terreno fertile per provocazioni ed incidenti che possono portare il mondo intero su una strada senza ritorno.

Come già in passato le classi dirigenti ed i poteri economici delle grandi potenze, di fronte al manifestarsi di pesanti contraddizioni nei propri paesi che rischiano di mettere in crisi il proprio dominio e la pace sociale interna, ricorrono ad un crescente interventismo esterno. Tutto ciò si rivela estremamente utile ad essi per contendere alle altre potenze aree di influenza e di mercato, provando a scaricare su altri paesi il costo della crisi persistente, ma soprattutto per distogliere l’attenzione dei lavoratori e delle masse popolari dalla crescente polarizzazione interna che vede aumentare sempre di più il divario sociale ed un brutale sfruttamento di cui sono i principali responsabili. La crescente litigiosità con le altre potenze concorrenti, il prosieguo della politica di aggressione economica, politica e militare verso i paesi più deboli e dipendenti, serve a dirottare la rabbia contro un presunto nemico esterno, serve a rafforzare un clima di unità nazionale a cui tutti sarebbero interessati ad accodarsi in nome dei proventi e dei benefici che da quell’interventismo potrebbero derivare per tutta la nazione. Si tratta di un meccanismo infernale che una volta innescato sfugge di mano ai loro stessi promotori, come dei novelli apprendisti stregoni. Se esso non viene radicalmente contrastato e sconfitto da una potente mobilitazione può sfociare solo in un nuovo immane conflitto mondiale i cui costi e le cui conseguenze cadranno ancora una volta sulle classi subalterne di tutti i paesi e serviranno a rafforzare ancora di più il dominio capitalistico che è la vera causa motrice della tendenza verso la guerra.

Per questo è quanto mai necessario riprendere parola contro il militarismo ed il bellicismo dei governi.

Occorre respingere al mittente gli appelli alla solidarietà nazionale in nome dei pretesi comuni interessi e denunciare la logica della difesa dei profitti che spinge verso la crescente militarizzazione e l’interventismo comunque si cerchi di giustificarlo. Contro chi vuole intrupparci contro un presunto pericolo esterno, va ripreso il vecchio grido di battaglia degli antimilitaristi che ci hanno preceduto: I veri nemici sono in casa nostra e sono coloro che ci sfruttano quotidianamente, che ci immiseriscono sempre di più, che ci costringono ad una vita alienata solo per appagare la loro insaziabile sete di profitto.

RETE CONTRO LA GUERRA E IL MILITARISMO

03/12/18

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