La <cura>, il <lavoro di cura>, l’odio di classe.
di Elisabetta Teghil
I nostri avversari sono gli avversari dell’umanità. Non è vero che abbiano “ragione dal loro punto di vista”: il torto sta nel loro punto di vista. Forse è inevitabile che siano così, ma non è necessario che esistano. E’ comprensibile che si difendano, ma essi difendono preda e privilegi, e comprendere in questo caso non deve significare perdonare.
Bertolt Brecht

Nel contesto attuale di emergenza attuata per la così detta pandemia c’è un discorso che rimbalza in varie accezioni su testate giornalistiche, in interpellanze parlamentari, in articoli di opinione, in prese di posizione politiche negli ambiti più diversi. E’ quello della <cura>.
Si dice che abbiamo perso di vista un aspetto molto importante della vita cioè il prendersi cura del pianeta in cui viviamo, degli altri, dei più fragili,della società nel suo complesso e di noi stesse/i e che quindi abbiamo trascurato le cose che contano. Chi ha trascurato cosa? E che noi donne che siamo particolarmente attrezzate e sensibili alla cura degli altri dovremmo essere considerate con particolare attenzione, gratificate, anche economicamente, e prese come esempio.
Note di premessa
Il lavoro di cura è quel carico di lavoro quotidiano, ininterrotto ed estorto gratuitamente che il sistema patriarcale e capitalista, in questo momento neoliberista, pretende dalle donne e che viene “naturalizzato” come congeniale al genere femminile. Le donne in parole poverissime sarebbero naturalmente adatte, oppure nell’accezione più avanzata avrebbero delle caratteristiche costruite dal patriarcato ma che ormai fanno parte del loro modo di relazionarsi paricolarmente positive,e quindi, così dicono, sarebbero portate ad occuparsi dei figli, degli anziani, del marito e parenti vari, del menage familiare con tutte le incombenze interne ed esterne che questo comporta, a ricostituire la forza lavoro, anche la propria e non solo quella del marito o del compagno che dir si voglia, a procreare nuovi esseri viventi per mantenere e perpetuare la specie.
Il lavoro di cura, in un contesto sociale come quello attuale che ha sdoganato a suo uso e consumo l’emancipazionismo, assume connotati particolari dato che le donne emancipate, per non parlare di quelle di potere e collaterali, lo scaricano sulle donne <di servizio> nel vero senso della parola. Un tempo infatti si usava chiamare <donna di servizio> la domestica, ma ora il termine assume connotati quanto mai politici in senso allargato dato che la promozione di poche significa l’asservimento di tutte le altre. Poi, la maggior parte delle donne <qualunque> ormai è caricata di un doppio lavoro, di cura e salariato e, con lo smart working, sono multitasking entrambi. A margine: questa lingua dell’impero da cui siamo sommersi/e è assolutamente insopportabile.
Gli uomini che si prestano, attualmente, ad aiutare sono tanti. Bontà loro, perchè è una disponibilità personale e una dichiarata attenzione verso le donne, poverine… disponibilità che può essere ritirata però in qualsiasi momento come d’altra parte tutte le concessioni elargite dall’alto.
Queste note di premessa sono di dominio pubblico.
Il potere è prodigo di consigli e sollecita la società tutta a darsi da fare per aiutare, tutelare…ad avere responsabilità verso gli altri mettendo in atto quelle caratteristiche che hanno sempre affibbiato a noi donne, che non hanno niente di naturale ma che vengono spacciate come tali: attenzione, dedizione, gentilezza, pazienza, calma, obbedienza, coraggio, forza d’animo, responsabilità, sacrificio…e capacità di occuparsi di un mare di cose contemporaneamente, il multitasking per l’appunto come dicevamo prima trasferito pari pari nello smart working….E’ chiaro tra l’altro che le donne in questo contesto hanno visto centuplicare il loro carico di lavoro, ma la strumentalizzazione che ne fa questo sistema anche attraverso le donne che si prestano lascia senza fiato. Continua a leggere→