Pubblichiamo l’introduzione di
“Femminismo materialista” Elisabetta Teghil, Bordeaux 2015
Femminismo materialista raccoglie note e appunti che riflettono l’importanza fondamentale del recupero della storia e della memoria della trasgressione femminista, ridotta ora a un percorso emancipatorio dai tratti deterministici, e della necessità di individuare momenti di rottura e punti di fuga e di imparare a esistere e resistere in questa società contemporaneamente feudale, ottocentesca e nazista.
INTRODUZIONE
Gli anni del femminismo sono stati gli anni del desiderio. Di fronte alla “miseria” offerta dal trascinamento dal femminista al femminile, l’accento sul femminismo e sulla nostra liberazione si presenta come altro, come una scommessa, un impegno oltre il presente. Momento attuale che pretende di annullare il conflitto e la ribellione e di piegare tutte/i rassegnate/i al dominio della merce. E, a questo progetto, rinnovato ma sempre uguale, di oppressione su di noi, a questa dissipazione della libertà e dell’esistenza, le complici tendono a negare le loro responsabilità.
Anzi, chiamandosene fuori, se ne rendono, proprio in questo modo, attive e partecipi anche e, soprattutto, nel banale dispiegamento della vita quotidiana. In prima fila ci sono le femministe riformiste, socialdemocratiche, le ortopediche del “politicamente corretto”, psicologhe, assistenti sociali, psichiatre, poliziotte “buone”…direttore di carceri… piddine e le loro appendici e similari e annesse e connesse… che nella loro non bella moltitudine, nella forza che viene loro dai media e dalle Istituzioni, si mostrano e sono particolarmente disponibili alla cultura mortifera che ammorba il presente: vittimismo, quote rosa, comitati per le pari opportunità….sono note di una stessa partitura, sono la favola delle vecchie idee con lieto fine che si ripromette di sottomettere le esistenze concrete dei soggetti reali al rinnovato dominio del capitale e del patriarcato. L’aspetto più evidente è l’assenza del soggetto, della donna, dell’oppressa. La declinazione delle proprie responsabilità è compresa entro lo scenario della moderna autopromozione. Il femminismo della falsa coscienza appare oggi al suo culmine e si coniuga con la cultura del rifiuto della politica, del superamento del separatismo, della negazione della lotta di classe, con l’affermazione ottusamente ottimistica che, in fondo, qui ,in questa società, si può essere felici. Tutto questo nasconde la presa di distanza opportunistica da ogni responsabilità e salva la faccia mobilitandosi per gli avvenimenti del passato o di altri paesi. In questo contesto ci si trasforma in cantori dell’esistente e delle sue ragioni: se pure storia c’è stata, anch’essa non c’è più e si sfocia, come conseguenza naturale, nel darwinismo sociale, nella condanna delle/dei più deboli, di chi non ce l’ha fatta. Le oppresse/i e le sconfitte/i sono l’altro, il disordine, generano la paura e quest’ultima si traduce in una sorta di ossessiva coazione all’ordine. L’unica via indicata da sempre dai teorici reazionari, oggi è diventata il mantra ossessivo della sinistra riformista. Bisogna tenere a bada le oppresse e gli oppressi, rinchiuderli nel recinto del dominio: è questo il territorio della politica socialdemocratica e riformista, quello che definisce e impone le regole del gioco della vita. Siamo rinchiuse in una gabbia di segni ideologici e culturali della società patriarcale e borghese, una gabbia che hanno costruito per noi e l’hanno chiamata “normalità”. La nostra “normalità” è così l’esecuzione automatica, inconscia, della programmazione che il capitale, in cui attualmente il patriarcato si esprime, ha costruito per noi. All’ingiunzione di regole di comportamento dettate dall’ideologia vincente si accompagnano sempre precisi divieti, stigma e punizione. Per questo il divieto e la paura di infrangerlo e relative conseguenze soffocano il nostro presente e il nostro futuro. E non soltanto la nostra vita, ma anche le nostre lotte vorrebbero che fossero rinchiuse nella gabbia preparata per noi. Vorrebbero farci correre sulla ruota come i criceti, con l’illusione di arrivare da qualche parte, con l’illusione di cambiare qualcosa e vorrebbero farci girare sempre in tondo. Vorrebbero farci fare processioni per chiedere qualche grazia che una volta elargita sarebbe comunque un atto di potere e come tale, con lo stesso atto, potrebbe essere tolta. Questa gabbia si può spezzare solo ponendo le nostre pratiche sociali e politiche in rapporto antagonistico con l’intera società borghese patriarcale che per attuare le strategie di controllo sociale usa strumenti diversi e,tra questi strumenti, in questo momento neoliberista, hanno un’importanza fondamentale la socialdemocrazia e il riformismo, comprese le componenti femminili, che nelle reti della comunicazione quotidiana fanno la guerra alla memoria e all’identità del movimento femminista, manipolandone la storia, strumentalizzando l’oppressione di genere, di razza, i diritti umani….falsificando la lettura della società e tentando di farne dimenticare la struttura e la divisione in classi. Creando, così, una società che fa dell’antirazzismo-razzista, dell’antisessismo-sessista e della strumentalizzazione dei diritti il grimaldello per addomesticare le coscienze. Per questo esclude dal circuito della vita politica, se non dalla vita stessa, tutte/i quelle/i che non si rassegnano a quelle regole, siano femministe, siano valsusine, nomuos, nodalmolin, immigrate/i senza permesso di soggiorno, lavorator/trici espulsi/e dal mondo del lavoro….. Si produce così una ideologia che non si presenta come tale, ma tale è, cioè quella della fine dell’ideologia. Quest’ultima si rappresenta e si racconta come democrazia moderna, come cultura dell’integrazione, del progresso di cui si tessono generosamente le lodi. Tutto questo si accompagna al venir meno della speranza di una vita migliore che valga la pena di essere vissuta, che invece per i cantori di questa società già sarebbe e chi non se ne accorge e non ne gode è responsabile e se si ribella rientra nel campo del penale e del patologico. E’ demonizzato ogni tentativo passato o presente di cambiamento che prenda le mosse da un’idea di soggetto che voleva e vuole sottrarsi alla mercificazione della vita portata a sviluppo nella sua totalità con il neoliberismo, forma compiuta e attuale dell’autoespansione del capitale. Impostazione che relega ogni forma di opposizione e di alterità nel campo del nulla e dell’inutilità. Il soggetto, l’individuo, per sopravvivere deve scomparire nascondendosi nelle pieghe dell’esistente a cui non è permesso in nessun modo di opporsi. Si teorizza la fine di ogni possibilità di lotta, di liberazione o di invenzione. Il capitalismo sarebbe “superato”, la società patriarcale “non ci sarebbe più”. In questo contesto il separatismo femminista ha una rilevanza vitale perché, come pratica di sottrazione rispetto al maschile dominante, svela la natura strutturale dell’oppressione di genere, ribadendo l’origine socio-economica dei ruoli e di quelli sessuati, smascherando il tentativo di riduzione della lotta delle donne ad una generica conflittualità tra i sessi che dovrebbe essere risolta secondo la visione riformista/neoliberista attraverso un collaborativo confronto fra maschile e femminile con l’annullamento delle differenze politiche, dei ruoli nella società, della storia e della memoria della conflittualità, non solo di genere, e della divisione in classi della società. La scomparsa o il tentativo di rimuovere il desiderio di lottare si accompagna al venir meno della speranza di una vita migliore, cammina con la sussunzione reale della vita al neoliberismo. Per questo assume un’importanza fondamentale il recupero della storia e della memoria del movimento femminista, storia e memoria che vengono stravolte, manipolate, falsificate riducendo la trasgressione femminista ad un percorso di emancipazione dai tratti deterministici dove il miglioramento della nostra condizione sarebbe graduale e ineluttabile in una società che progredisce nell’attenzione alle diversità e ai diritti. Continua a leggere→