Una Di Meno

“[…]Volere una fetta della torta non è la stessa cosa che tirarla in faccia all’oppressore.[…]

Una di meno

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Non riesco nemmeno a ricordare la prima volta che, esitante ma orgogliosa, mi sono definita femminista. Mi viene in mente un seminario all’università, nel corso del quale il mio mondo ha cambiato il proprio asse. La prima assemblea, l’emozione di trovarmi un stanza piena di donne, arrabbiate ma – ai miei occhi – bellissime. E mia madre, che mi apostrofava con malcelato disprezzo: “Non dirmi che sei diventata femminista!”.

Il femminismo mi ha salvato la vita, e ha liberato energie che nemmeno sapevo di avere. L’energia derivante dalla rabbia per le ingiustizie, l’energia di chi si riconosce in quanto oppressa e vuole liberarsi, e liberare, dall’oppressione; quella che sgorga dal non sentirsi più sola, ma unita ad altre compagne in lotta.

I momenti collettivi, l’autocoscienza, gli eventi pensati e organizzati assieme; gli articoli letti, scritti e tradotti, le reti di relazioni virtuali (spesso poi diventate legami reali). Il femminismo ha rappresentato per me, in quanto marginalità oppressa dal patriarcato, la corazza invisibile capace di mettermi quotidianamente al riparo dalle discriminazioni, dagli attacchi, dalle violenze di un sistema ingiusto, che si alimenta e si rigenera proprio a partire dall’ineguale distribuzione di opportunità e poteri (non in senso negativo, ma proprio in quanto possibilità di autodeterminazione e autorealizzazione).

Eppure oggi il femminismo non mi basta più.

Dirlo mi causa una fitta di nostalgia dolorosa; ricordo del tempo in cui la “donnità” era il minimo denominatore comune necessario per sentirsi compagne. Rimpianto di una visione del mondo assai meno complessa, molto più rassicurante. Un mondo nel quale le “donne” – esseri viventi definiti in base alla propria differenza sessuale dall’uomo vitruviano – erano le uniche vittime del patriarcato, e gli “uomini” erano gli oppressori… di tutto il resto del mondo. Gli uomini erano i “cattivi”, assetati di potere e di dominio, quelli che assoggettavano tutto il resto del vivente (già in questa mia interpretazione dovevo percepire il venir meno del mio” centro di gravità permanente femminista”) ai propri egoistici e bulimici desideri di autoaffermazione. Quasi che il fascismo, il razzismo, lo specismo e pure il sessismo non potessero essere agiti e perpetuati da chi si identificava nella categoria del “femminile”.

Una perfetta femminista della differenza! Mancava solo che venerassi la maternità in quanto massima espressione di realizzazione della Donna con la d maiuscola (mai successo, fortunatamente). Quanta strada ho fatto da allora, e dove mi ha portato!

Anche questo lo devo al femminismo… anzi, ad alcuni femminismi. In parte per gli ulteriori impulsi positivi, come ad esempio l’incontro con la teoria intersezionale e queer. Eppure molto lo devo agli stimoli negativi: lo scontro, all’interno del movimento femminista, con l’indifferenza, lo scherno e l’aperta opposizione nei confronti di altre marginalità oppresse (possibili alleanze non riconosciute come tali): lavoratrici del sesso, femministe non bianche e musulmane, soggettività omo/trans/queer/genderfluid, disertori del patriarcato, diversamente abili e, ovviamente, altri animali.

Questo elenco delle vittime di oppressione, mai completo e in continua espansione, descrive, in maniera approssimativa, la composizione di quella galassia di marginalità della quale sento di far parte, come una minuscola stella in una costellazione di lotte per la libertà e l’autodeterminazione.

E man mano che il mio universo politico allargava i propri orizzonti, sempre più mi trovavo a scontrarmi con chi, a partire da quella differenza sessuale, non metteva in discussione il perdurante sistema di oppressione, ma tentava semplicemente – e semplicisticamente – di tirarsene fuori per poter sopravvivere: femministe che, lasciando il mondo come lo avevano trovato, ovvero dualisticamente dilaniato in oppressori e oppressi,  desideravano in fin dei conti passare dal lato di chi ha in mano il potere, non certo mettere in discussione il meccanismo dell’oppressione in sé. Incapaci persino di riconoscersi in quanto agenti di oppressione.

Il personale è politico? Sì, ma anche no.

Quando il personale non riesce ad allargare i propri orizzonti, ad abbracciare – seppure tra mille dubbi e angosce – la complessità delle relazioni di dominio tra viventi; quando la visione resta unidimensionale e non caleidoscopica; quando non si è in grado di guardarsi allo specchio e riconoscere la propria agentività nella messa in atto di meccanismi che opprimono e dilaniano altre vite, alle quali evidentemente non assegniamo lo stesso valore della nostra; quando siamo dolorosamente consapevoli delle limitazioni che ci vengono imposte, ma sdegnosamente indifferenti a chi ci fa notare come anche noi facciamo la nostra parte nel perpetuare dualismi e gerarchie di valori, stiamo di fatto dissolvendo il politico nel personale… interesse.

Allora forse la nostra “politica” è in realtà una lotta per la sopravvivenza, un tentativo di trasformarsi da “prede” in “predatori” senza realmente tirarsi fuori, una volta per tutte, dal meccanismo di predazione del vivente.

Volere una fetta della torta non è la stessa cosa che tirarla in faccia all’oppressore.

Ed è questo uno dei tanti motivi per i quali non riesco a stare nel percorso di Non Una di Meno; un percorso che solo qualche tempo fa, quando mi sentivo “orfana di femminismo”, avrei abbracciato con gioia e speranza.

L’intersezionalità, il queer, il transfemminismo e l’antispecismo hanno operato in me l’ennesima rivoluzione, e io “voglio tutto”, per dirla vecchio stile, ma voglio tutto per davvero. La libertà dalla mia personale oppressione non mi basta più, e finché il movimento femminista resterà sordo a tutte le istanze portate avanti dalle altre marginalità oppresse, per me non sarà un movimento accogliente.

Alcune compagne, molto più affini al mio percorso politico, stanno sforzandosi di stare all’interno di NUDM, per “hackerarlo” e infettarlo di contenuti transfemministi e queer. Apprezzo il loro impegno e, se riusciranno nel loro intento, sarò la persona più felice del mondo. Ma quando mi domando se non potrei anche io fare lo stesso, sento addosso l’infinita stanchezza di vedere le lotte in cui credo derubricate – anche all’interno del movimento di cui credevo di far parte. Sono sinceramente esausta di rappresentare la marginalità della marginalità.

L’otto marzo sarò quell’una di meno.

 
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