



di Stefania Consigliere e Cristina Zavaroni
https://www.wumingfoundation.com/giap/

La migliore filosofia della nostra epoca lo insegna da anni: la grande partizione fra natura e cultura, fra regno dell’oggettività e regno dei desideri, non è che un costrutto moderno. Nell’impero del rilevamento e dei big data lo abbiamo (ri)scoperto a nostro danno: i fatti neutri non esistono; nessun dato è semplicemente “dato”, ogni dato è l’esito di una scelta osservativa, di un’interpretazione, di un’intenzione, di una politica. Non c’è visione del mondo che non sia frutto del convenire degli sguardi, delle attitudini, delle scelte consapevoli e inconsapevoli di una comunità; e non c’è cultura condivisa da un gruppo che non operi delle semplificazioni perché, come insegnano le scienze fisiche, il reale è troppo complesso per essere afferrato a partire da una sola prospettiva.
Finché tali semplificazioni non sono eccessive, quel mondo resta vivibile; se lo diventano, e non sono più in grado di “reggere” all’impatto dell’esperienza, si arriva a quella che Ernesto de Martino chiamava «apocalisse culturale», un soprassalto del reale che scompagina il quadro condiviso e mette a rischio la tenuta di quel mondo. Quando ciò accade, quel che si rivela non è il reale nella sua oggettività primigenia, ma una sorta di “buio epistemologico”, nel quale occorre navigare a vista con strumenti antichi.
È quanto possiamo osservare nell’emergenza Covid-19, vera e propria “macchina di visione” in grado di strapparci al sonno delle nostre convinzioni e rimetterci di fronte alla complessità del reale. Nella più grande crisi pandemica del dopoguerra, non abbiamo dati affidabili né sul numero di infettati, né sul numero di morti, né sugli effetti delle diverse misure di contenimento, né su quel che si prospetta per il prossimo futuro.
Prevedibile, in circostanze siffatte, una sorta di «nostalgia del semplice», il tentativo di spiegare un universo complesso in base a poche ipotesi elementari. Complottismo e letture paranoiche trovano qui la loro radice, come anche i richiami alla Scienza – e cioè allo scientismo – di raffinati intellettuali che, fino a ieri, si atteggiavano a pensatori critici. Hic Rhodus, hic salta: ora più che mai bisogna riaffermare che la realtà è enormemente complessa e può essere – parzialmente – afferrata solo attraverso un pensiero complesso. Attorno a questo nodo si giocheranno le possibilità di uscita intelligente dalla crisi; e, d’altro canto, la semplificazione della complessità è, da sempre, operazione reazionaria di dominio sulle coscienze. Continua a leggere
di Nicoletta Poidimani
http://www.nicolettapoidimani.it/?p=1501
Non c’è nessun su o giù nello spazio esteriore della terra, dunque il nord come “su” e il sud come “giù” sono definizioni puramente arbitrarie. La rappresentazione dell’Europa e dell’America che stanno in alto sulle carte geografiche e sui mappamondi, e che è universalmente familiare, è solo un espediente visuale per rafforzare l’idea che è giusto e appropriato che la gente bianca stia sopra, domini il mondo. Per ri-orientarvi, ruotate le carte geografiche e i mappamondi di 180 gradi. Amoja Three Rivers
L’altro giorno al supermercato volevo comprare gli agretti, gustosissimi e fondamentali per il loro apporto di minerali e vitamine.
Conoscevo da decenni il loro nome popolare: le ‘barbe di frate’.
Ma non ne conoscevo la versione coloniale e proprio in quella mi sono imbattuta: Erbette Negus!

Sorpresa e disgustata dall’ennesimo riscontro dell’italica incapacità di fare i conti coi nostri trascorsi coloniali, una volta tornata a casa ho cercato in rete se quel nome fosse diffuso.
Et voilà:
La Barba del Negus (o Agretti)
La Barba del Negus (Negus è un titolo nobiliare etiope corrispondente a quello di re) è le piantina giovane della Salsola soda e a seconda delle varie regioni d’Italia è detta anche Barba dei Frati , Agretti, Lischi, ecc..
A questo segue perfino una ricetta per preparare la Barba del Negus in padella! Continua a leggere
di Elisabetta Teghil
<…I socialdemocratici degli anni ’70 con il Cancelliere Helmut Schmidt, stanno ai socialdemocratici degli anni ’20 con il Cancelliere Friedrich Ebert, come la RAF sta alla lega di Spartaco e Ulrike Meinhof sta a Rosa Luxemburg. Non dobbiamo permettere che Ulrike sia calunniata e poi fra quarant’anni riletta e manipolata così come è stato fatto con Rosa Luxemburg, magari dagli accademici di scuola socialdemocratica.
Questo scritto è dedicato con affetto a Petra Schelm .>
<Pesante come una montagna è la mia morte… centomila e centomila e centomila braccia di donne l’hanno sollevata questa immensa montagna e addosso ve la faranno franare con una terribile risata! >

Stralcio dal testo “Io,Ulrike, grido” di Dario Fo e Franca Rame in Tutta casa, letto e chiesa, Edizioni F.R. La Comune, Milano, 1981
Nome: Ulrike. Cognome: Meinhof. Di sesso femminile. Età: 41 anni. Sì, sono sposata. Due figli, nati con parto cesareo.
Si, divisa dal marito. Professione: giornalista. Nazionalità: tedesca. Sono qui rinchiusa da quattro anni in un carcere moderno di uno Stato moderno. Reato?
Attentato alla proprietà privata e alle leggi che difendono la suddetta proprietà e il conseguente diritto dei proprietari ad allargare a dismisura la proprietà di tutto.
Tutto: compreso il nostro cervello, i nostri pensieri, le nostre parole, i nostri gesti, i nostri sentimenti e il nostro lavoro e il nostro amore. Tutta la nostra vita insomma.
Per questo avete deciso di eliminarmi, padroni dello Stato di Diritto. La vostra legge è davvero uguale per tutti, meno per quelli che non sono d’accordo con le vostre sacre leggi. Voi avete sollevato alla massima emancipazione la donna; infatti, pur essendo una femmina, mi punite proprio come un uomo.
Vi ringrazio. Mi avete gratificata del più duro carcere: gelido, asettico, da obitorio e mi sottoponete alla più criminale delle torture, cioè “la privazione del sensoriale”.
Che espressione elegante per dire che mi avete seppellita in un sepolcro di silenzio. Un silenzio bianco; bianca è la cella, bianche le pareti, bianchi gli infissi, di smalto bianco perfino la porta, il tavolo, la sedia e il letto, per non parlare del cesso.
La luce al neon è bianca, accesa sempre: giorno e notte. Continua a leggere
Uno dei leitmotiv ricorrenti in questo momento di così detta emergenza da coronavirus per tacitare chiunque si ponga il problema di innescare dei meccanismi di rivolta, di alterità, di rifiuto del modello autoritario di controllo sociale messo in atto è quello del <ma qui si muore> tutto teso a colpevolizzare quelle e quelli che provano a smascherare la vera natura dei provvedimenti vigenti con il ricatto del rispetto nei confronti della paura che hanno le persone per la malattia e la morte come se non fosse invece il sistema di potere a mettere in atto questo ricatto nei confronti della gente per poter attuare e sperimentare quello che meglio aggrada. Ci siamo quindi poste il problema di affrontare il tema della morte nella società del capitale e della morte nello specifico della nostra condizione di compagne e femministe perchè trasformare il privato in politico, quale in effetti è, rimane imprescindibile elemento rivoluzionario.
Vi proponiamo quindi, come primo momento di riflessione, dei materiali da leggere e un podcast da ascoltare che abbiamo registrato tempo fa e che ci sembrano quanto mai attuali.

DIETRO IL PARAVENTO
“Aspetti sociali, psicodinamici e relazionali dell’assistenza ai morenti”
di Antonella Bonucci
contatti: antobon06@libero.it
(…….)In passato, nella sua quasi totale impotenza, il medico svolgeva soprattutto il compito di nuntius mortis; ora assume la fisionomia di quello che può contrapporsi, a volte con successo, a una morte data fino ad allora per ineluttabile e che comincia a spostarsi , impercettibilmente forse, ma in modo continuo, sempre più in avanti; la malattia si sostituisce ad essa, iniziando quel lento mutamento che porterà il medico ad essere non un soccorritore, colui che allevia la sofferenza, ma lo strenuo oppositore della morte, costi quel che costi; contemporaneamente “… ha rinunciato al ruolo che fu per lungo tempo il suo, senza dubbio nel XVIII secolo. Nel XIX, parla solo se lo si interroga, e già con qualche riserva.” (Ariés, 1975).
Si fa strada e si manifesta (ma come abbiamo visto viene da lontano) la paura che vengano dichiarate morte persone che non lo sono affatto: è il primo segno, probabilmente, di quella scarsa fiducia che, a fronte di conquiste sempre più importanti, aprirà un solco tra i medici e tutti gli “altri”, unita a una paura ancestrale (forse una sorta di incredulità?), che si abbevera al “fiume dell’angoscia che trae origine dalla notte dei tempi ”. (Ziegler, 1975).
Agli antichi luoghi della morte (la casa, la chiesa, il cimitero) si affianca, lentamente, l’ospedale; alla famiglia, che proprio ora raggiunge il massimo della sua coesione e partecipazione, si affianca la classe medica, che man mano, ma inesorabilmente, la sostituirà negli ultimi istanti di vita dei suoi cari.
Il rituale stesso della morte comincia lentamente a cambiare intorno alla metà del secolo: al capezzale del moribondo non vanno e vengono più tutti i componenti della sua rete sociale, che si riducono via via alla famiglia, fino a limitarsi, nel secolo successivo, a pochi componenti della stessa. La figura del prete si ridimensiona; lungi dal voler rinunciare al suo secolare ruolo di amministratore della buona morte, comincia malvolentieri ad arretrare nei confronti del medico, e spesso viene chiamato al capezzale del morente quando ormai questi non è più in grado di rendersi conto della sua presenza. Non possiamo però certamente parlare di “scristianizzazione” della morte; piuttosto diremo che essa abbandona i toni terroristici per privilegiare quelli consolatori.
Il Romanticismo però, per certi versi, celebra la morte, se pure nei toni eroici e sentimentali che gli sono propri, anche arrivando a descrizioni particolareggiate e a rievocazioni o premonizioni che sfociano, per noi contemporanei, decisamente nel macabro. Essa inoltre, pur allontanandosi dall’ineluttabilità che le era stata propria nei secoli precedenti, acquista anche un carattere di possibilità individuale, di consapevole scelta. Nel secolo caratterizzato dalle grandi rivoluzioni borghesi e dal socialismo scientifico, si afferma una visione che, ponendo come irrinunciabile l’affermazione dei propri diritti, pone l’uomo di fronte al primato di una vita degna di essere vissuta, della possibilità in altre parole di conquistare in terra quel paradiso che sempre era precedentemente prefigurato come premio successivo alla morte. Questa appare ora come possibilità, se pure non cercata e celebrata come in un certo romanticismo, per affrancarsi dalla schiavitù e dallo sfruttamento.
I vivi, o meglio coloro la cui morte è ancora presumibilmente lontana, cominciano a nascondere al moribondo il suo stato. Sia in ambito cattolico, che riformato, la veglia funebre si trasforma e, per così dire, si impoverisce: comincia ad essere non più tollerata quella commistione tra vita e morte che l’aveva caratterizzata; dicevamo che diminuiscono le visite, ma cambia anche l’abitudine di mangiare, di riunirsi, di celebrare in fondo la vita proprio in presenza della morte, affermandone la quotidianeità e la familiarità.
Prende piede l’abitudine di far soggiornare i morti negli obitori, sancita da leggi che si oppongono alla forte resistenza del pensare comune e si allunga l’intervallo di tempo tra morte e sepoltura: “… la famiglia viene progressivamente espropriata del suo controllo sul corpo morto ” (Vovelle, 1983). Il cadavere, fino ad alra seppellito avvolto in un sudario, viene ora sempre più spesso rinchiuso il prima possibile in una bara, per sottrarlo in fretta alla vista dei vivi. Il rituale che nei secoli precedenti aveva privilegiato gli ultimi momenti di vita riservando poco tempo alle esequie (con l’eccezione ovviamente dei ricchi e dei potenti, che anche in questo caso davano un segnale della loro forza) si capovolge, tralasciando l’attenzione verso l’agonia a favore di regole, scritte o meno, sempre più minuziose nei confronti delle cerimonie funebri.
E il morente, che per secoli era stato l’incontrastato protagonista della propria morte, comincia a cedere la scena alla sua famiglia e al medico; inizia un processo che continuerà impetuoso per tutto il secolo scorso e porterà alla cancellazione della morte nella coscienza dei vivi; essa, ovviamente è pur sempre un’amara realtà, ma l’uomo comincia a scegliere di vivere come se non ci fosse: “… il morire è diventato in Occidente un fatto osceno ”. (Urbain, 1980).
LA MORTE IN OSPEDALE
L’allungarsi della speranza di vita e la convinzione che, almeno per noi stessi, una morte violenta sia solo una remota possibilità, ci indurrebbero a ritenere il morire un evento naturale e non un’anticipata aggressione, ma l’atteggiamento medico e sociale nei confronti della malattia testimonia, a mio parere, esattamente il contrario, ascrivendo anch’essa ad un livello di violenza che, con gli opportuni accorgimenti, è possibile, perlomeno in una società come la nostra, evitare. E se pur sono innegabili e tantomeno irrinunciabili le conquiste mediche che ci conducono a sconfiggere infezioni che solo un secolo fa avrebbero portato alla morte non solo i più deboli, è evidente che questo ha comportato l’aumento della vita media insieme però anche a un aumento dell’agonia media, se così possiamo esprimerci, ovvero a un prolungarsi di situazioni di estrema sofferenza, fisica e morale (ma qual’è il confine?) in attesa di una morte comunque inevitabile, e che ha reso ingestibile da parte della famiglia il periodo, ormai sempre più lungo, che la precede.
Uno dei primi aspetti che questa situazione ha determinato è stato lo spostamento dell’agonia dalla casa all’ospedale…
°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°
E in ospedale si muore, inoltre, anche per atto formale. Nella cosiddetta “Dichiarazione di Harvard” pubblicata il 5 agosto 1968 sul Journal of the American Medical Association, vengono ridefiniti, ad opera di un “Ad hoc Committee to examine the Definition, of Brain Death” i “criteri ormai superati della definizione della morte” a causa dell’onere che persone in condizioni disperate “rappresentano per le famiglie e gli ospedali” e per le “controversie quando si presenta il problema del prelievo di organi destinati al trapianto”. Non più evento naturale (cessazione della respirazione e del battito cardiaco) semplicemente constatati dal medico, ma valutazione di “segni” che, pur in presenza di respirazione e quindi attività cardiaca artificialmente indotte, ratificano lo status di cadavere per un corpo, tutto sommato, ancora a cuore battente. Ricordiamo del resto che pochi mesi prima, esattamente il 3 dicembre 1967, a Città del Capo il prof. Christian Barnard aveva effettuato il primo trapianto cardiaco.
La “pornografia della morte”
…. Un esempio lampante di come massicciamente la morte sia stata allontanata dalla nostra società è stato dato, negli anni ’60, dal sociologo inglese Geoffrey Gorer, che nel suo ormai classico lavoro, The Pornografy of Death (1963) ripercorre, anche sulla scorta di esperienze personali (la morte del padre, nel 1915, e del fratello nel 1932) il progressivo perdersi dei riti del lutto nella società borghese di cui fa parte. Alla fobia vittoriana nei confronti del sesso si sovrappone prima, e la rimpiazza poi, una pornografia della morte che tende a cancellarne ogni riferimento, fino a negare ai sopravvissuti anche il conforto della partecipazione sociale al loro dolore. Lo stesso Gorer racconta che in seguito alla morte del fratello, tenuto all’oscuro del suo cancro fino alla fine (nonostante fosse un medico), non fu allestita la veglia funebre nè fu esposta la salma. Per la preparazione del cadavere furono chiamate due ex infermiere che, al loro arrivo, chiesero: “Dov’è il malato?”, e dopo averlo sistemato esclamarono: “Il paziente ha un aspetto incantevole adesso”.
°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°° Continua a leggere
AUTODIFESA FEMMINISTA GENOVA

Ci hanno chiamato streghe. Lesbiche pazze emarginate. Con tutti i nomi disponibili ci hanno ricondotto al confine della comunità, pronti a buttarci giù dalla passerella dei normali. Ci hanno rinominato, ridefinito, creato a immagine e somiglianza delle loro paure e dei loro desideri repressi e innominati.
Noi ci siamo riprese i nomi: ci siamo richiamate streghe, per rivendicare il nostro sapere; eretiche, per resuscitare la nostra ribellione; pazze, perché attorno a noi abbiamo riconosciuto altre sognatrici .
Oggi che i nomi sono nostri, e non hanno più a loro disposizione né la forza repressiva, né l’immaginario colonizzato di un tempo, sono ridotti al silenzio. Fingono austerità perché le loro voci sono deboli, fingono serenità perché i loro diavoli son demoni tristi e non spiriti ribelli come i nostri, che possono danzare e lottare nelle strade.
Questi paladini contemporanei sono davvero gli eredi di quei difensori di una cristianità ardente, che bruciava del fuoco di donne, lesbiche e tutti i marginali. Rimpiangono quei tempi, e resteranno incatenati a un passato che non esisterà più.
Hanno cercato di cancellare dalla memoria i carnevali, il medioevo folle e sessualmente creativo, le mille identità che si intrecciavano, le resistenze a tutti i tentativi della Chiesa e dello Stato nascente di ricondurci a una triste identità monogamica e produttiva.
Hanno cercato di creare delle identità preformate, in cui l’individuo “normale” esiste solo in contrapposizione al suo opposto, il “diverso”. Ignorando le potenzialità e i desideri di ognuna di noi, mille e ancora mille desideri, che ribollono in ogni corpo e in ogni mente.
Ci vogliono imprigionare dentro un’immagine di famiglia rigida, che nulla ha a che fare con l’amore e la libertà; vogliono legare i nostri corpi dentro regole che li piegano e li piagano, che impediscono di essere chi siamo e di amare chi vogliamo; vogliono rubarci non solo la fantasia, ma anche il corpo: diventare padroni del desiderio e dell’utero. Ricondurci alla schiavitù di chi non può scegliere se e come riprodursi – no all’aborto! –, per poi decretare, allo stesso tempo, chi e come deve riprodursi – famiglie eterosessuali con due genitori!
Noi oggi profetizziamo:
Che i nuovi santi resteranno soli e tristi, tormentati da diavoli di loro stessa creazione.
Che il loro desiderio di controllo, potere e morte si schianterà contro la vita nelle sue mille forme.
Che non esiste un limite alla libertà dell’individuo, e che nulla può fermare il desiderio.
Autodifesa femminista Genova
di Nicoletta Poidimani
http://www.nicolettapoidimani.it/?p=1492
La sostenibilità richiede la protezione di tutte le specie e di tutte le genti e il riconoscimento che specie differenti e genti differenti giocano un ruolo essenziale nel mantenimento degli ecosistemi e dei processi ecologici […]. Tanto più l’umanità continua sulla strada della non sostenibilità, quanto più diventa intollerante verso le altre specie e cieca verso il loro ruolo fondamentale per la nostra sopravvivenza.
Vandana Shiva

Se nella ‘fase 1’ ci hanno ammorbate&blindate col pretesto della ‘nostra salute’, per la ‘fase (che) 2 (ovaie!)’ e successive il capitale-Hexenmeister ha già pronte le sue armi propagandistiche sulle magnifiche sorti e progressive per tutelare noi e il pianeta che abitiamo: le energie rinnovabili.
Nulla di nuovo, sia chiaro. Dalla ‘rivoluzione verde’ – che «non è stata né verde, né rivoluzionaria, bensì un piano per colonizzare i sistemi agricoli e alimentari dell’India, che ha provocato una grave crisi idrica» – al greenwashing non c’è soluzione di continuità.
Perché il capitalismo si fonda sul mal(e)development – di cui ho scritto già brevemente, tempo fa – «ovvero uno sviluppo privo del principio femminile, conservativo, ecologico», «ridotto ad una continuazione del processo di colonizzazione». Uno sviluppo fondato su «categorie patriarcali che interpretano la distruzione come “produzione” e la rigenerazione della vita come “passività”» (*).
Soltanto il femminismo radicale e anticapitalista/materialista è capace, secondo me, di uno sguardo bifocale e postvittimista che comprenda gli stretti nessi tra violenza contro le donne e violenza contro la terra, per opporsi con determinazione allo stato di cose presente e ai suoi sviluppi devastanti.
Per cominciare a trasformare la ‘fase 2’ in ‘fase 2 occhi che finalmente si liberano dalle fette di salame’, consiglio la visione di Planet of the Humans (ringrazio la cara Miky ‘de Belfast’, che me l’ha segnalato).
(*) Vandana Shiva, Sopravvivere allo sviluppo, Isedi, 1993 [poi ripubblicato da Utet, nel 2004, col titolo Terra madre. Sopravvivere allo sviluppo]
https://brucerabrucera.noblogs.org/post/2020/05/01/roma-ancora-proteste-e-pestaggio/

di Stella Morris http://www.marx21.it
La vita del mio compagno, Julian Assange, è in grave pericolo. È detenuto nella prigione di Belmarsh e il coronavirus si sta diffondendo tra le sue mura. Julian ed io abbiamo due figli. Da quando sono diventata madre, ho riflettuto sulla mia infanzia.
I miei genitori sono europei, ma quando ero piccola vivevo in Botswana, a otto chilometri dal confine con il Sudafrica dell’apartheid. I genitori di molti miei amici venivano da oltre quel confine. Erano scrittori, pittori e obiettori di coscienza. Abbiamo vissuto in un centro di creatività artistica e di scambio intellettuale.
I libri di storia descrivono l’apartheid come segregazione istituzionale ma era molto di più. La segregazione è stata praticata in pieno giorno. Rapimenti, torture e uccisioni sono avvenuti di notte.
Le fondamenta del sistema dell’apartheid erano precarie, così il regime ha risposto alle idee di riforma politica con le pallottole. Nel giugno 1985 gli squadroni della morte sudafricani hanno attraversato il confine armati di mitragliatrici, mortai e granate. Non appena i colpi sono stati sparati nella notte, i miei genitori mi hanno avvolto in una coperta. Ho dormito mentre loro guidavano a tutta velocità per portarci in salvo. Il rumore delle esplosioni ha raggiunto l’intera capitale nell’ora e mezza necessaria per uccidere 12 persone.
Il primo morto era un pittore eccezionale, un intimo amico della mia famiglia. Il Sudafrica ha sostenuto che l’obiettivo del raid era l’ala armata dell’ANC ma in realtà la maggior parte delle vittime erano civili innocenti e bambini uccisi mentre dormivano nei loro letti. Dopo qualche giorno abbiamo lasciato il Botswana. Continua a leggere
blob:https://www.facebook.com/d8f1ecc8-a124-4b1d-aa59-2269be74063c

Riceviamo da una compagna un interessante contributo


ASCOLTARE QUI https://www.spreaker.com/user/radio_india/puntata-quattro-4 )
All’epoca dei film muti, le donne occupavano una vasta gamma di ruoli nell’industria cinematografica di Hollywood. A quel tempo, scrive Shelley Stamp, l’attività cinematografica era “probabilmente molto più aperta alle cineaste di quanto non lo sia oggi”.
L’attitudine speciale delle donne al montaggio fu notata per la prima volta 1925 dal “Motion Picture Magazine”, dove è scritto: “Le più grandi montatrici sono donne. Sono veloci, ingegnose, piene di risorse”.
Montatore non era ancora il nome di un MESTIERE
Si chiamavano patchers e si limitavano a incollare i pezzi di pellicola: erano in prevalenza donne perché costavano (molto) meno degli uomini. Prima di diventare film-cutter o film-editor si poteva essere assunte come Joiner, diventando assemblatrici di centinaia di rulli da cui estrarre bobine su misura. Il montaggio non era considerato un’arte, ma una procedura monotona e meramente tecnica. Letteralmente un “taglia e cuci”, qualcosa di simile al paziente lavoro di una sarta o d’una bibliotecaria, adatto a mani femminili.
Essere assunte come cutter divenne possibile per giovani con poca o nessuna formazione professionale. Manodopera non qualificata, una cutter non veniva accreditata nei titoli di coda o sulle locandine.
Margaret Booth fu assunta nello studio di Griffith appena diplomata. Da Joiner fu promossa a negative cutter.
Quando ancora non era possibile incidere dei numeri di riferimento sui margini della pellicola, il lavoro risultava difficile, complicato, tedioso, richiedeva un’enorme quantità di tempo: la corrispondenza dei frames andava scovata ad occhio nudo. Ma una lenta inquadratura poteva durare centinaia e centinaia di fotogrammi.
Prima che fosse introdotta la Moviola (che assomigliava molto nella sua struttura a una “macchina da cucire”) le bobine scorrevano direttamente tra le dita delle montatrici.
“Scorrendoli mi mettevo a contare come se stessi contando la musica, per dare alla scena il giusto ritmo”, scrive Booth nel suo saggio Cutter. Continua a leggere
Riceviamo dalle compagne friulane
Siamo i compagni e le compagne che hanno retto lo striscione con la scritta “Il virus uccide Il capitalismo di più”.
Stamattina ci siamo recati, come molti altri, in Campo S. Giacomo, su invito della Rete Triestina per il Primo Maggio e della Rete Antifascista-Antirazzista, per testimoniare il nostro punto di vista sulla situazione attuale, determinata dall’epidemia di coronavirus e sulle dinamiche sociali ed economiche dominate da provvedimenti di sospensione – o quantomeno di forte limitazione – delle libertà individuali e collettive (diritto di manifestare, diritto di sciopero…), proprio nel momento in cui il prezzo della crisi è e sarà pagato principalmente dai soggetti più deboli e sfruttati.
Dopo alcuni minuti nei quali reggevamo lo striscione (tre persone su una lunghezza di oltre cinque metri, quindi con rispetto delle distanze prescritte) ed in assenza di altre forme di comportamento e/o azione che normalmente qualificano una manifestazione – volantinaggi, discorsi amplificati, corteo, lanci di slogans – funzionari della Digos ci intimavano di chiudere lo striscione o abbandonarlo a terra, sostenendo che il suo dispiegamento, di per sé, costituiva una manifestazione non autorizzata. Di risposta affermavamo che ci limitavamo a reggere lo striscione stesso con le dovute precauzioni (indossavamo tutti le mascherine), rispettando le prescrizioni in materia di coronavirus. Nonostante ciò, la polizia passava alle vie di fatto, avventandosi in forze per strapparci di mano lo striscione. Tra le urla di disapprovazione e le proteste dei presenti, i poliziotti hanno di fatto determinato, con il loro comportamento, una situazione di “faccia a faccia” tra noi e loro e tra loro stessi, che ha fatto carta straccia di tutte le distanze di sicurezza tanto propagandate.
Un episodio di tensione da noi non voluto, foriero a detta degli stessi agenti di possibili denunce a nostro carico: episodio che dimostra una volta di più come i periodi di emergenza siano sempre e comunque funzionali a togliere spazi di comunicazione e incontro, ovvero di democrazia reale, aumentando la discrezionalità e l’onnipotenza delle forze di polizia.
Con la frase riportata, “Il virus uccide Il capitalismo di più”, intendevamo evidenziare la stretta connessione tra la diffusione dell’epidemia e l’attuale sistema di rapporti sociali e di produzione che, con la sua logica predatoria e di sfruttamento delle risorse naturali – minerali ed animali – ed umane, alla ricerca di margini di profitto sempre maggiori, sta portando l’umanità, sopratutto la sua parte più debole, al collasso. Non a caso, sembra che l’epidemia sia partita da una delle aree della Cina più industrializzate ed inquinate, ad altissima densità abitativa, in funzione della produzione, e in prossimità di allevamenti intensivi che – per le condizioni di vita degli animali – ne fanno un probabile diffusore di virus verso gli esseri umani, come denunciato negli ultimi anni da biologici ed epidemiologi non asserviti al potere economico.
Anche se il virus fosse uscito per sbaglio da qualche laboratorio di ricerca, altra ipotesi più volte avanzata, ciò non scagionerebbe il capitalismo dalla sua responsabilità, in quanto quel tipo di ricerca è determinata dalla sua volontà di manipolazione e dominio della natura, a scopo di profitto o bellico.
Non a caso in Italia la regione colpita per prima e più delle altre è la Lombardia, anch’essa ad altissimo tasso di industrializzazione ed inquinamento atmosferico, con una logica produttivistica, che costringe centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici a permanere in fabbrica o in ufficio a stretto contatto per lunghe ore.
Se quindi è corretto individuare nel sistema economico dominante la causa della pandemia, va evidenziato come la risposta del sistema sanitario nazionale sia risultata da subito insufficiente ed inadeguata a contenere la stessa, dopo che negli ultimi 30 anni governi di ogni risma hanno portato tagli alla sanità, riducendo drasticamente i posti letto, indebolendo i presidi sanitari, deviando risorse verso le strutture private, mettendo così a repentaglio la sicurezza di chi opera negli ospedali. Questo non è avvenuto per errore dei governanti, ma per la loro subalternità ai poteri economici, agli interessi di chi ha trasformato il diritto alla salute di tutti in un business per pochi. Peraltro, nel mentre, enormi risorse economiche sono state drenate a favore delle spese militari o per “grandi opere” dannose.
Ad oggi, la preoccupazione principale del governo è quella di riaprire le attività produttive, molte delle quali mai cessate realmente, continuando a ragionare con la logica del profitto come unico pensiero guida. Il risultato di tutto ciò è una situazione in cui dovremmo accettare una comunicazione unidirezionale dal potere verso le masse, la digitalizzazione dei rapporti sociali, il disciplinamento individuale, la militarizzazione sociale e territoriale, la possibilità di muoverci solo per lavorare ed acquistare. Quindi dovremmo accettare l’apparato produttivo di sfruttamento come l’unico legittimato a far valere le sue ragioni. O riusciamo a lottare contro tutto questo o tanto vale tenerci il virus…
DIFENDIAMO LE LIBERTA’ INDIVIDUALI E COLLETTIVE!
MAI PIU’ TAGLI ALLA SANITA’!
IL VIRUS UCCIDE, IL CAPITALISMO DI PIU’!
I compagni e le compagne che tenevano lo striscione
1° Maggio 2020 – Trieste