Riceviamo dalle compagne di Udine

Riceviamo dalle compagne di Udine

Riceviamo e pubblichiamo
Durante le rivolte di marzo nelle carceri, lo Stato italiano ha compiuto una strage: 14 detenuti vengono ritrovati morti nelle patrie galere. Tredici di loro dentro i corridoi dei penitenziari di Modena, Alessandria, Verona, Ascoli, Parma, Bologna, Rieti; uno di loro morirà successivamente dopo il ricovero nell’ospedale di Rieti. Non una parola pronunciata dallo Stato su queste morti nel corso dei mesi, nemmeno alle famiglie, avvisate – e forse ad oggi nemmeno tutte – a distanza di tempo, dagli avvocati che seguivano le vicende legali dei propri cari detenuti. Se questi morti ad oggi hanno un nome è per opera di chi individualmente si è attivato per ricercarli e renderli noti.
Quello che si è visto fino a qui, non è che un copione degno delle peggiori dittature: insabbiare l’accaduto, costruire una verità ufficiale rimescolando qualche carta, trovare qualcuno da incolpare (i morti stessi, detenuti e tossici, oppure la regia esterna dei mafiosi, o degli anarchici), far sparire i testimoni o terrorizzarli a morte. Un copione che si è già spesso ripetuto nella storia della democratica Italia: dalle stragi di Stato note, seppur mai ufficialmente riconosciute come tali, alle morti in carcere o nei CPR, da quella di Cucchi sino a quella di Vakhtang Enukidze, ucciso dalla Polizia a gennaio di quest’anno nel CPR di Gradisca d’Isonzo[…]
continua a leggere qui modena definitivo corretto
[…] Per questo motivo non possiamo tacere e ribadiamo ancor più in occasione dell’anniversario della strage di Piazza Fontana, che stragista è lo Stato.
Esprimiamo tutta la nostra solidarietà ad Alfredo ed Anna, compagni anarchici condannati
il 24 novembre nel processo Scripta Manent a 20 e 16,6 anni di carcere, anche con l’accusa di strage, perché ritenuti responsabili di un ordigno alla scuola allievi di polizia di Fossano.
STRAGISTA È LO STATO.
LIBERTÀ DALLE GALERE PER TUTTI/E I/LE DETENUTI/E!
LIBERTA’ PER CHI, CONTRO LA VIOLENZA INDISCRIMINATA DELLO STATO, HA SEMPRE LOTTATO!
PERCHÈ MARCO, SALVATORE, SLIM, ARTUR, HAFEDH, LOFTI, ALI, ERIAL, ANTE, CARLO SAMIR, HAITEM, GHAZI E ABDELLAH E TUTTI GLI ALTRI MORTI PER MANO DELLO STATO NON SIANO DIMENTICATI
Anarchiche e anarchici

Colloquio e scambio con due compagne di Udine dell'<Assemblea permanente contro il carcere e la repressione> che fanno parte della trasmissione Zardins Magnetics su Radio Onde Furlane. (FM 90.0 MHz – streaming https://radioondefurlane.eu/ – podcast https://soundcloud.com/radiaz10n3)
“In relazione al periodo particolare della così detta emergenza da covid-19 che stiamo attraversando ma anche e soprattutto per mettere insieme delle riflessioni che, come coordinamenta, andiamo facendo da molto tempo, vorremmo parlare di quello che comunemente viene chiamato Terzo Settore o del privato sociale e parallelamente della connotazione dei servizi sociali pubblici nel contesto storico attuale.
La spinta ad affrontare direttamente l’argomento ci è venuta dall’ascolto di alcune puntate della trasmissione Zardins Magnetics su Radio Onde Furlane e, per questo, abbiamo chiesto a due compagne di Udine dell'<Assemblea permanente contro il carcere e la repressione> che fanno parte appunto della trasmissione, di raccontarci le loro lotte e la loro esperienza.
Il Terzo Settore, o del privato sociale o no profit, si sviluppa soprattutto negli anni ’90 quando viene messo in discussione lo stato sociale. La collocazione temporale è molto importante perché connota politicamente l’espansione di questo ambito, espansione che si accompagna alla perdita progressiva della lettura di classe delle condizioni sociali, alla colpevolizzazione e alla demonizzazione della povertà, alla trasformazione, infatti, del disagio in colpa e all’introduzione, parallelamente, del concetto di società civile, di corretta capacità di convivenza, di cittadinanza, di cittadinanza attiva che prendono il posto dei concetti di classe sociale, di lotta di classe, di rapporto di forza tra le classi. A tutto questo si aggiunge la propaganda al volontariato, di chiara matrice cattolica in quanto lavoro di dedizione non pagato, che diventa un pilastro della trasformazione neoliberista del mondo del lavoro insieme alla patriarcalizzazione della società : gratuità, dedizione all’azienda, partecipazione affettiva ed emotiva alle sorti del capitale.
Non è un caso infatti che alla nascita ed alla crescita del Terzo Settore si accompagni una modifica sostanziale dei servizi sociali pubblici che si sono man mano trasformati da servizio di tutela a strumento di controllo e repressione attraverso l’assunzione di modalità poliziesche che ci ricordano molto quelle dell’Inghilterra Vittoriana…BUON ASCOLTO!
-«Convergenze parallele»: il perimetro (ristretto) del dibattito italiano sul Terzo settore, di Sandro Busso e Enrico Gargiulo Convergenze_parallele_il_perimetro_rist
-<Autovalorizzazione, etica della devozione, profilazione> di Margherita Croce https://coordinamenta.noblogs.org/post/2019/10/20/autovalorizzazione-etica-della-devozione-profilazione/

E.Teghil, Coscienza illusoria di sé, Bordeaux 2013,pp.78-84
Uno dei nodi del nostro impegno come femministe è lo scardinamento dei ruoli.
Lottare solo contro l’ideologia, la mentalità, la cultura patriarcale senza
mettere in discussione i meccanismi che la producono, è insufficiente se non
fuorviante. Non trasformando i rapporti di produzione capitalistici iscritti nei processi
di lavoro, questi riproducono continuamente tutti i ruoli della divisione sociale capitalistica, tutti i ruoli degli apparati politici e ideologici patriarcali.
Disoccupazione, inquinamento, controllo, lavoro sempre più monotono, noioso,
sempre più disumano… qualsiasi condizione, situazione, fisica, mentale,
affettiva… trasformata in occasione di profitto, è qui il carattere
propriamente tragico degli anni che viviamo. Ma, questa condizione non si realizza a partire dall’automatismo in sé, non dipende dalle nostre possibilità o capacità, ma ha le radici dentro le condizioni sociali cioè nella natura della società e può essere dissolta
soltanto dalla prassi consapevole di soggetti che intendono liberarsi. Pertanto, la liberazione di noi tutte non è un programma per il futuro ma l’inventario del presente, l’insieme delle potenzialità incorporate nel sapere sociale. Nell’inventario del presente bisogna scrivere la possibilità di una grande trasformazione nei rapporti di produzione e di scambio fra gli esseri umani e, questo, a dispetto di tutte le culture che danno per scontata ed inevitabile questa società, sia che lo facciano per interesse, sia che lo facciano per
ignoranza, perché l’uno e l’altra non comportano innocenza. Infatti, hanno ripudiato, oltre al materialismo storico e quello dialettico, anche la lotta di classe che è diventata monopolio dell’iper-borghesia e sono approdate al “liberalismo umanitario” che è una spietata apologia del darwinismo politico-sociale e, attraverso questo, santificano lo stato delle cose presenti. Passando attraverso la criminalizzazione e la demonizzazione delle parole. Una generazione, per anni, si è riconosciuta chiamandosi compagna e la parola
suggellava un patto di appartenenza e solidarietà, qualche cosa ben oltre i gruppi politici e i loro programmi, qualcosa di difficilmente verbalizzabile proprio per la ricchezza della sua estensibilità.
Compagna e femminista, ancor ieri provocavano vibrazioni che penetravano fin dentro gli abissi del disagio e della solitudine che pure c’erano anche allora.
Ma, se sono le parole che fanno le cose, disfare quelle parole che sono, allo stesso tempo, categorie di rappresentazione e strumenti di mobilitazione, ha contribuito alla smobilitazione di quello che, un tempo, si chiamava femminismo.
Il potere è la guerra. La guerra, continuata con altri mezzi, è iscrivere e riscrivere le disuguaglianze economiche, etniche e di genere fin nei corpi e, da qui, la gravità di quelle che si sono arruolate nelle Istituzioni che, di questa guerra fatta alle più, sono l’esercito.
Da qui lo sdoganamento della violenza che pervade tutta la società, la recrudescenza del femminicidio in una società patriarcale che ha legittimato il razzismo da parte di chi si ritiene superiore ad un altro/a. E’ la banalizzazione della morte, l’introduzione della pena di morte extra-legem, la distruzione di tutti gli equilibri di cui si facevano forti piccola e
media borghesia, lavoratrici e lavoratori cognitivi e liberi professionisti. E’ in questo contesto che si assiste alla riproduzione amico/a-nemico/a, costruita artificialmente attraverso il richiamo ad un gruppo sociale, di volta in volta criminalizzato, che permetta di veicolare il concetto che siamo in guerra. E, quando si è in guerra, si usa l’esercito e il fine giustifica i mezzi. Continua a leggere

LITANIA PER LA SOPRAVVIVENZA
Per quelle di noi che vivono sul margine
Ritte sull’orlo costante della decisione
Cruciali e sole
Per quelle di noi che non possono lasciarsi andare
Al sogno passeggero della scelta
Che amano sulle soglie mentre vanno e vengono
Nelle ore fra un’alba e l’altra
Guardando dentro e fuori
E prima o poi allo stesso tempo
Cercando un adesso che dia vita
A futuri
Come pane nelle bocche dei nostri figli
Perché i loro sogni non riflettano
La fine dei nostri
Per quelle di noi
Che sono state marchiate dalla paura
Come una ruga leggera al centro delle nostre fronti
Imparando ad aver paura con il latte di nostra madre
Perché con questa arma
Questa illusione di poter essere al sicuro
Quelli dai piedi pesanti speravano di zittirci
Per noi tutte
Questo istante e questo trionfo
Non era previsto che noi sopravvivessimo
E quando il sole sorge abbiamo paura
Che forse non resterà
Quando il sole tramonta abbiamo paura
Che forse non si alzerà domattina
Quando abbiamo la pancia piena abbiamo paura
Dell’indigestione
Quando abbiamo la pancia vuota abbiamo paura
Di non poter mai più mangiare
Quando siamo amate abbiamo paura
Che l’amore svanirà
Quando siamo sole abbiamo paura
Che l’amore non tornerà
E quando parliamo abbiamo paura
Che le nostre parole non verranno udite
O ben accolte
Ma quando stiamo zitte
Anche allora abbiamo paura
Perciò è meglio parlare
Ricordando
Che non era previsto che noi sopravvivessimo
Audre Lorde da The Black Unicorn(1978)

“Da oggi (1 dicembre n.d.r.) anche #Stella sarà privata della sua libertà. Questo pomeriggio le sono stati notificati gli arresti domiciliari per il processo “Oggi Paga Monti”, lo stesso per cui Dana è ancora in carcere, Nicoletta lo è stata prima, Fabiola è ai domiciliari e altr* 9 No Tav hanno ricevuto altre misure restrittive.”



Strade deserte, prospettive surreali, nessun suono, nessuna persona, persino i colori sbiaditi, tram che passano vuoti sferragliando con un rumore centuplicato dal silenzio, il conducente quasi invisibile sembrano andare da soli, posti di blocco, pattuglie con degli esseri tutti bardati di nero, il rumore degli elicotteri sulla testa. Questo lo spazio urbano del lockdown. Ma lo spazio e, oggi come mai nei secoli passati, lo spazio architettonico urbano, è la scena in cui si svolgono le nostre vite. Ma è tutto vero o è un film? Perché di questo si abbevera il cinema, ingloba tutte le altre espressioni artistiche, le vampirizza per dargli un nuovo senso, per raccontare una storia, ma il film in effetti non racconta solo una storia o, meglio, racconta una storia per dare delle altre suggestioni. L’uso che il cinema fa dello spazio ha lo scopo di ottenere un risultato emotivo. Un film è espressione di istanze, di emozioni ma anche di paure, di fobie, di ansie di chi lo vede ma le vuole anche provocare, suscitare e innescare. Derrida diceva che il ruolo del cinema è risvegliare fantasmi dentro di noi. Noi guardiamo una cosa e non sapevamo di pensarla già, capiamo qualcosa che abbiamo già dentro di noi, ma allo stesso tempo assumiamo ansie, paure, sentimenti o speranze che ci vengono suscitate ex novo proprio perché il cinema entra prepotentemente nei nostri pensieri. E allora a seconda dell’effetto che vuole ottenere sullo spettatore il cinema usa ambientazioni che sono come cartoline, succedanei patinati della realtà, oppure angoscianti spazi e architetture incombenti …Lo spazio nel cinema ha una funzione strutturante come la colonna sonora. La musica nel film può essere fatta sentire o può essere utilizzata, ci può essere qualcuno che canta una canzone ed è solo sponsorizzazione, ma ci può essere una musica che entra al momento giusto per far scattare un’emozione, che collabora con tutto il resto, collabora al colore, collabora alla recitazione, collabora alla trama e punta dritta verso un fine e trasmette suggestioni senza che queste vengano dette, le suggerisce, lancia degli stimoli che lavorano sul cervello e tu hai l’impressione che sia un tuo pensiero mentre in realtà sei stato messo su un nastro trasportatore, ci sei stato condotto. In che modo lavora lo spazio in un film per inculcare un sentimento, un’emozione, pensieri e sensazioni? Per esempio nei film di James Bond, i primi, c’è sempre un cattivo differente e il cattivo viene raccontato attraverso i luoghi dove vive e dove lavora, la scena che abita, così il messaggio è immediato. Non sappiamo questi cattivi chi siano, da dove vengano, la loro storia personale, ma sappiamo dove si muovono e che tipo di rapporto hanno con lo spazio che attraversano. In una scena di <Thunderball> del 1965, nella sala riunioni della SPECTRE non c’è un tavolo, ma ognuno è seduto a parte, in un posto singolo e isolato perché così il Numero 1 ha la possibilità di uccidere tramite scossa elettrica chi vuole eliminare…tutte le soluzioni architettoniche sono usate per definire i personaggi, per spiegare cose che altrimenti sarebbe molto complicato spiegare. Ma la scena metropolitana per eccellenza che racconta una storia a venire, che immagina quello che succederà è quella di <Metropolis> di Fritz Lang. La protagonista vera è la città e attraverso la città ci viene raccontata la vita che sarà, uno spettacolo disumano e terrorizzante in cui le gerarchie di classe sono verticali. Ci viene in mente anche <Paraside> in cui il luogo sopra e il luogo sotto ci raccontano immediatamente l’organizzazione sociale. La strutturazione dello spazio è fondante per raccontare la storia, per dare il senso a quello che stiamo vivendo sullo schermo, ogni inquadratura ha un senso immediato e un senso nascosto sia che parliamo di film commerciali che d’autore. E poi ci vengono in mente i film sul terrore atomico, la paura di restare in pochi su una terra devastata, la paura dell’<Ultimo uomo sulla terra>, un film del 1964 con Vincent Price tratto da un romanzo di Richard Matheson e che tra l’altro è girato a Roma. Non è casuale, vengono usati gli spazi dell’Eur, vuoti, che raccontano lo spaesamento dell’unico uomo rimasto in una società che attraverso le immagini architettoniche si racconta da sé. Quest’ uomo attraversa degli spazi vuoti che sembrano ormai disumani ed è facile credere che tutto sia andato male. Sembra di essere in un quadro di De Chirico. Continua a leggere
Riceviamo dalle compagne di Udine dell'<Assemblea contro il carcere e la repressione> un documento che, all’interno di una lotta specifica, fa però luce sul ruolo di sfruttamento e repressione che hanno le coop. sociali e il terzo settore all’interno di questa società.
Qui il documento comunicato 27_11_20 (1)







FUORI A UN METRO DI DISTANZA, RECLUS* IN OTTO IN UNA STANZA!
Il 7 novembre scorso Chaka Outtara si è tolto la vita in carcere, dove era stato trasferito perché accusato di aver partecipato ad una rivolta nell’ex caserma Serena, un CAS (Centro di Accoglienza Straordinaria) di Treviso.
I CAS sono luoghi dove si viene parcheggiat* in attesa dei tempi della burocrazia, in attesa che qualcuno, dopo un tempo indefinito che può durare anche anni, dica se si ha diritto all’asilo politico o ad un’altra forma di “tutela”. Nel frattempo non si è liber* di andarsene, di lavorare, di determinare un qualsiasi aspetto della propria vita.
In tempi di pandemia questi luoghi sono molto pericolosi, in quanto si vive a stretto contatto, senza le risorse necessarie a prendersi cura della propria salute, con la continua minaccia di reclusione all’interno dei centri nel caso qualcun* risulti positivo al virus.
Nell’ultimo anno, nei centri di accoglienza ci sono state moltissime rivolte, e tante sono le persone che, come Chaka, sono state condannate per reati come violenza, devastazione e saccheggio e portate in carcere con condanne anche decennali. Continua a leggere

Ci siamo dimenticate che non si muore solo di malattie contagiose. Oggi abbiamo l’ennesima conferma che la posta in gioco quando ci costringono a restare chiuse in casa, a confinarci all’interno di territori, all’osservanza di regole e divieti calati dall’alto non è il nostro bene né il bene del “popolo”, se mai ha un senso usare questa generica definizione. Il potere non si è sprecato, se non a parole tanto autoincensanti quanto non rispondenti al vero, neppure a fornire degli aiuti economici di base. D’altra parte non poteva che essere così perché il neoliberismo che è la scelta ideologica che guida le decisioni di potere accomunando governo e opposizioni, ha rotto da tempo il patto sociale con le classi subalterne e non c’è possibilità di contrattazione. Tutte le pantomime sui soldi che non ci sono o che sono stati stanziati per questo o per quello sono un teatrino per allocchi/e. Se avessero voluto veramente mettere in atto soluzioni avrebbero potuto semplicemente e senza esborso diretto annullare le bollette, le tasse, le multe, le cartelle esattoriali, le prebende per i parcheggi, rendere i trasporti gratuiti…avrebbero potuto riaprire gli ospedali che hanno chiuso invece di fare ridicoli ospedali da campo a prezzi esorbitanti.
E, invece, la retorica di Stato ci ha addossato la colpa delle conseguenze di un’epidemia: un meccanismo oppressivo, quello del senso di colpa, la cui pervasività, da femministe, conosciamo fin troppo bene.
Con la scusa dell’emergenza ci hanno messe nuovamente in gabbia, una gabbia fisica, mentale, psicologica facendo finta che la casa ce l’abbiano tutte (bella, adeguata, confortevole, vivibile…) e che al suo interno tutte si sentano sicure (femminicidi, violenze, ricatti economici, fisici, psicologici…sono improvvisamente scomparsi?) e ci hanno ributtate a capofitto nel lavoro di cura. Ci hanno messe in gabbia mentalmente e psicologicamente perché ci hanno detto e ci ripetono continuamente che non siamo in grado di riflettere, di valutare, di decidere e di scegliere ma ci dobbiamo affidare ed obbedire.
Ci sbandierano ad ogni piè sospinto che la salute viene prima di tutto. Ma cosa s’intende per salute? E soprattutto cosa significa per loro la “nostra” salute? La nostra vita è precaria, instabile e malsana a causa di politiche che inquinano, impoveriscono, sfruttano fino ad esaurire ogni nostra linfa vitale, quindi che cosa significa “salute”?
Il lockdown, il confinamento che viviamo sulla nostra pelle è violenza, è violenza il terrore nel quale ci fanno vivere, sono violenza il senso di colpa e lo stigma che vengono rovesciati addosso a chi esce dagli schemi di comportamento previsti; è violenza la completa instabilità e labilità a cui le nostre esistenze sono esposte di fronte, non alla malattia, ma al vuoto di futuro che ci lasciano; è violenza imporre il lockdown consapevoli che molte non ce la faranno, e non a causa del virus ma delle condizioni di vita a cui ci hanno ridotto ben prima del suo arrivo; è violenza la pretesa di fermare tutto (tutto? tutto quello che decidono volta per volta a seconda di quello che fa loro comodo) in nome della difesa da un pericolo che viene presentato come più terribile di ogni altra cosa, ma che in realtà è considerato così preponderante al preciso scopo di imporre un nuovo ordine di priorità: le esigenze calcolanti e mortifere del capitale contro i bisogni vitalistici delle persone.
Durante il primo lockdown istituito questa primavera ci siamo dette “non torneremo alla normalità” perché la normalità è il problema.
Ora è necessario difendere questa nostra capacità di analisi politica, altrimenti ci ritroveremo a sostenere, consapevolmente o meno, i diktat del potere contrabbandati come scelte inderogabili. Quello stesso potere che oggi glorifica “gli eroi” di turno che si stanno sacrificando per il paese e che domani, a emergenza finita, non solo dimenticherà ma licenzierà e butterà in mezzo ad una strada. Chiunque non si assoggetti volontariamente e apra al pensiero critico viene tacciato di irresponsabilità, ma noi conosciamo benissimo la differenza tra responsabilità e obbedienza.
Come femministe abbiamo l’obbligo di ricordare che tutto questo si chiama ancora e sempre Violenza di Stato, di quell’ordinamento istituzionale oramai ridotto a mera meccanica repressiva, di quello Stato paternalista che si presenta come detentore del giusto e del bene.
Le irresponsabili non siamo certo noi che vogliamo la luna perché noi sappiamo chi sta da una parte e chi dall’altra della barricata, sappiamo smascherare il nemico e creare solidarietà tra chi si riconosce nello sfruttamento e nell’oppressione.
Il lockdown in tutte le sue forme è violenza, è una guerra alla sopravvivenza, è darwinismo sociale applicato, è discriminante di genere e di classe.
Coordinamenta femminista e lesbica
Voci dal cuore della tempesta: dibattito in diretta telematica con compagn* di Vitalist International e altre voci americane sulle prospettive della sollevazione.

Già a giugno/luglio di quest’anno erano state rinnovate, all’unanimità da tutto l’arco parlamentare, le missioni militari all’estero e se ne erano aggiunte altre 5. Potete leggere qui, è tutto nero su bianco https://www.analisidifesa.it/2020/07/le-missioni-militari-italiane-tra-nuovi-impegni-e-ritiro-dallafghanistan/
Ora la notizia riguarda il fatto che “L’Italia continuerà a fare la propria parte”. Così il ministro Guerini spiega la linea per l’Afghanistan, dopo un colloquio con il segretario generale della Nato. E quindi l’Italia rimane in Afghanistan.
La riduzione del contingente americano in Afghanistan non modifica l’impegno italiano nel Paese, attualmente pari a circa 800 unità, per lo più impegnate nella provincia occidentale di Herat.
<L’attuale contributo nazionale prevede un impiego massimo di 800 militari, 145 mezzi terrestri e 8 mezzi aerei, suddivisi tra personale con sede a Kabul e contingente militare italiano dislocato ad Herat presso il TAAC-W. L’Italia ha garantito alla NATO ed alla Repubblica dell’Afghanistan il proprio supporto e in tale contesto il Train Advise Assist Command West (TAAC-W) di Herat prosegue le attività di addestramento, assistenza e consulenza a favore delle Istituzioni e delle Forze di Sicurezza locali concentrate nella Regione Ovest. http://www.difesa.it/OperazioniMilitari/

