Podcast della presentazione del 29/05/2018 “E questo è quanto” al Nido di Vespe

Podcast della presentazione del 29 maggio 2018 al Nido di Vespe del libro 

<E questo è quanto>”Salvatore Ricciardi” di Ottone Ovidi ed. Bordeaux

29 maggio/E questo è quanto, storie di rivoluzionarie e rivoluzionari

Questa la registrazione di tutta l’iniziativa 

clicca qui

Questo l’intervento di Barbara Balzerani

Mi piace molto l’impostazione che Otto ha dato al suo libro. Credo che la storia sia una materia da storici, quelli che si documentano, che mettono a confronto le fonti, quelli che non dovrebbero sbagliare una virgola rispetto a quanto raccontano. Invece la memoria è personale, ruota attorno alla figura di una persona – in questo caso Salvatore – può avere degli svantaggi, magari soffrire di qualche défaillance nei ricordi o, peggio, essere in seguito rielaborata in modo diverso rispetto ai fatti vissuti e a quello che si pensava nell’atto di compierli. E spesso succede. Però, il modo di raccontare attraverso la memoria individuale ha un enorme vantaggio secondo me, e cioè restituisce una fisionomia, carne e sangue a figure che altrimenti rimarrebbero astratte e stereotipate. Come è successo a quella del “brigatista”. Salvatore è portatore di una storia sua, particolare e, contemporaneamente, collettiva che ci offre uno spaccato sull’origine sociale e il percorso di militanza della stragrande maggioranza dei militanti di quella che è stata la nostra organizzazione. E questo è un aspetto fondamentale, proprio perché la figura del brigatista è stata mostrificata, censurata e condannata, in realtà più dalla propaganda che dagli storici, visto che qualche buon libro si può trovare nell’omologazione pressochè totale alle verità ufficiali di tv, cinema, giornali. La propaganda del potere ci ha riempiti di fango. Secondo la vulgata massamediata non si capisce da dove siamo venuti, chi siamo, quale famiglia marziana ci ha messo su questo pianeta, essendo stati del tutto estranei alle dinamiche sociali di questo paese. È un tamtam che va avanti da trenta, quaranta anni, ed è riuscito ad entrare nel senso comune, a far passare l’idea di quattro matti che una mattina si svegliano, vanno a via Fani, fanno una strage, spalleggiati da molteplici poteri occulti.

Nell’apice di questo delirio di mistificazione rappresentato dal quarantennale del sequestro Moro, purtroppo non mi pare che gli storici siano stati tanto presenti come avrebbero dovuto e potuto, indicando altre prospettive di analisi e conoscenza rispetto al discorso mediatico. Al contrario abbiamo visto giornalisti mediamente informati fingere di non sapere, ignorare fatti più che noti, fare “errori” che scivolano nell’orrore, arrivando persino a dire che noi avremmo ammazzato dei compagni… queste sono state le cose dette in televisione… Si è arrivati ad un piano di discussione talmente immiserito che non si tratta neanche più di una contestazione nel merito dei fatti accaduti. Se così fosse, già sarebbe qualcosa, ci attesteremmo almeno su un piano dialettico, di confronto tra diverse posizioni rispetto ai fatti. Invece siamo all’insulto, un insulto gridato che non lascia margini a nessuna possibilità di contestazione.

Rispetto a questo discorso mediatico dominante, cosa fa l’accademia abilitata all’insegnamento e alla critica storica? Possiamo solo prendere atto dello stato in cui versa: qualche giorno fa, all’università di Tor Vergata, un programma di dottorato in storia ha ospitato un’iniziativa che ha riunito membri dell’ultima commissione parlamentare e dietrologi, praticamente una sola e univoca voce. Come è possibile ricostruire la storia se questi ne sono i presupposti e le linee di discussione? Perché dovremmo avere interesse e voglia di confrontarci con questi signori, i quali da una parte dicono che dobbiamo tacere, e dall’altra che siamo reticenti? E’ un gioco miserabile, però funziona, e attecchisce, tanto in chi in quegli anni non c’era e crede di sapere, come in chi invece c’era e ha “dimenticato”, perché anche l’aver cambiato idea così radicalmente da fingere di aver visto e vissuto cose diverse da quelle accadute contribuisce a mistificare il racconto. Su questa strada diventa gioco facile far passare verità imposte che parlano la lingua del potere che si protraggono ormai da qualche decennio e che da quando è stata istituita la “giornata della memoria delle vittime del terrorismo” va sotto il nome di “memoria condivisa”.

Cosa significa memoria condivisa? Come si fa in una società divisa in classi ad avere una memoria condivisa? E’ una contraddizione in termini. Ciò che dice Otto nella sua prefazione, e cioè che la sua è una scrittura di parte, è il minimo che si debba dichiarare e da cui si debba partire credo, proprio perché non esiste una storia asettica, non esiste una storia obiettiva. Esiste al contrario una storia ufficiale che non è affatto neutrale, perché esprime il punto di vista padronale, in questo caso capitalistico, e che non lascia spazio a niente altro. In ogni caso, non esiste nessuna possibilità di mettere insieme narrazioni che esprimono interessi di classe diversi e che procedono nella ricostruzione della propria storia secondo modalità diverse.

La politica ha steso non un velo, piuttosto una lapide sulla storia degli anni 70, spezzando il filo della trasmissione di una memoria di classe e delle sue lotte. Se riguardo indietro, mi ricordo come fosse stato possibile riannodare al presente degli anni 70 gli avvenimenti della Resistenza, quella che veniva definita la “Resistenza tradita”. Cioè come non fosse stata operata una cesura netta rispetto al passato recente, come è stato fatto oggi.

Questo filo oggi è spezzato, e non si riesce a bucare la coltre che è stata calata dall’alto. E ci ritroviamo con un racconto ufficiale, sempre più sciatto e volgare, però diffuso a livello di massa. Leggere libri già sarebbe un passaggio importante per uscire da questa situazione, ma questo non si fa. Si vive con il sottofondo della televisione, dei social, con un modo superficiale di fare comunicazione, che non comunica assolutamente niente. Ha ragione Otto quando scrive che sono aumentati i mezzi di comunicazione ed è diminuita la comunicazione. Perché questa non è comunicazione, ma il massimo dell’esaltazione dell’individualismo attuale, dove vige la regola dell’isolamento, dove ognuno è separato dall’altro e si parla addosso. Non c’è confronto di idee, non si va oltre l’insulto. Il livello di velocizzazione del sistema di comunicazione raggiunto è tale che non lascia spazio all’elaborazione dell’informazione stessa. Come discutere, come conoscere in questa maniera?

Ci troviamo quindi in una fase di afasia totale. Per questo è importante il passaggio di testimone con persone che comunque alcune esperienze le hanno fatte e possono ri/raccontarle. È un modo che permette di riannodare il filo con chi ha qualcosa da raccontare, che ha avuto un’esperienza, anche se si tratta di un’esperienza che credo sia abbastanza irripetibile, almeno nel prossimo futuro. E’ vero che si è trattato di anni irripetibili. Si dice “anni di piombo”, galera, morti, sangue, vittime…ma non si dice mai che quegli anni sono stati ricchi di conquiste, di lotte, di capacità di comunicazione, di inclusione…sì, vivevamo benissimo, erano anni di ricchezza intellettuale, di rinnovamento culturale in generale, che hanno espresso una capacità critica e creativa impensabile oggi. Si dice, d’altra parte, che quando si invecchia venga meno la capacità di comprendere le nuove tendenze, può darsi sia vero…a volte mi pongo il dubbio…

Ci sono due elementi di forza che secondo me hanno scavato e agito a fondo perché si affermasse la narrazione dominante: quello del grande complotto, del “chi c’è dietro”, e quello del cosiddetto paradigma vittimario. Entrambi si muovono in senso univoco, per impedire la possibilità stessa di pensare alla legittimità e alla necessità del conflitto. Una volta il conflitto era pane quotidiano, perché non esiste storia senza conflitto, non esiste possibilità di movimento se non c’è rottura. Una volta questa era una verità banale. Tutta la ricchezza politica degli anni ’70, tutte le conquiste, tutti gli avvenimenti, tutto è stato ridotto al racconto allucinato di un’unica giornata, anzi di una mattinata, il 16 marzo 1978, in cui avrebbero agito dai marziani alla ‘ndrangheta, ai servizi segreti di ogni genere e qualità. È un modo di togliere ogni legittimità di esistenza a quegli avvenimenti, come se la battaglia di via Fani fosse venuta fuori da un lampo una mattina e lì si fosse anche esaurita, senza capirne il percorso, il contesto e tutto quello che ha reso possibile, in un paese come l’Italia, più di dieci anni di lotta armata comunista. Non sarebbe secondario capirne la specificità, le particolarità, la storia politica e sociale, le molteplici responsabilità delle forze politiche, non ultime, quelle dell’ininterrotto potere democristiano e dei sempre più gravi cedimenti del più forte partito comunista d’occidente.

L’altro elemento è il paradigma vittimario, cioè il fatto che gli unici ad avere non solo voce in capitolo – e quindi il monopolio della parola – ma anche legittimità e ragione sono le vittime e i loro parenti. Non è la testimonianza di chi ha agito a poter contribuire alla comprensione degli avvenimenti ma la ragione di chi ha subito un danno. Ragione che non è riconosciuta a tutte le vittime, come non lo è l’attribuzione di innocenza. Il discrimine passa tra chi ha dalla sua il potere decisionale di cosa si debba ricordare e chi non lo ha. Secondo il paradigma vittimario, che trascende la questione specifica delle vittime della lotta armata, il solo fatto di agire, di essere cioè soggettivo attivo e responsabile delle proprie azioni, rende colpevoli. Anche questa è un’operazione politico-culturale molto raffinata, e molto pesante. E anche in questo caso ha lo scopo di togliere legittimità. Si è colpevoli perché si agisce, perché si è agito, indipendentemente dalle cause e le ragioni. E così tutti sembrano sapere tutto, ma nei fatti nessuno sa niente.

Nella confusione che è stata scientemente creata e che si muove attorno a questi due elementi, la cui funzione è di impedire che si sviluppi una discussione, non si riesce ad entrare nel merito delle questioni. Non si riesce a farla una critica degli anni ’70 e del paradigma rivoluzionario del Novecento.

Queste due forze concentriche sono un’arma terribile, il messaggio che impongono è chiaro e forte: il mondo di oggi è l’unico possibile. Il capitalismo ha vinto sull’alternativa socialista, e la caduta dei muri ne è la dimostrazione. Quella attuale è quindi l’unica società ammessa, accettata, e deve andare bene anche ai proletari. Questo sistema deve diventare il massimo dell’aspirazione umana, il che significa farsi sfruttare, consumare, morire dentro prima ancora di finire sotto terra ed essere grati di avercela fatta individualmente. E tutto viene imposto come se si trattasse di un corso “naturale” delle cose, come se non ci fosse altra possibilità.

Una parte di questo libro-intervista Salvatore lo dedica alle questioni del “diritto” e ce ne parlerà approfonditamente. Da parte mia, semplificando, dico che non esistono diritti, esistono rapporti di forza. I diritti sono elencati in quelle carte che vengono scritte alla fine di un conflitto in cui si sancisce uno stato dei rapporti di forza, ma poi non ci si può fermare, proprio perché nessuna conquista è mai perenne, perché il potere ha la capacità di appropriarsi delle nostre conquiste, di farle sue, di cambiarne i colori, la fisionomia, tanto che ci si ritrova a dire “ma questo non era un terreno mio? Perché adesso lo occupi tu?” Ed ecco perché diventa fondamentale il che cosa e il come ricordare, come scrive Otto, e che cosa dimenticare soprattutto. Questa capacità di selezione della memoria il potere ce l’ha, e ci disarma, prima di tutto nella testa, per renderci innocui e impotenti.

C’è un’espressione che Otto usa e che mi è piaciuta molto, è una sua sottolineatura a proposito dell’importanza del soggetto e del suo percorso nella storia. La frase dice: “Salvatore fa parte della storia, è un soggetto a cui appartiene il futuro mentre il presente sembra travolgerlo”. A me sembra bellissima questa frase, perché significa riconoscere una soggettività nella sua collocazione storica. Nel momento in cui questo presente ti ha annichilito, sei carico di futuro perché rappresenti una potenzialità che non si è concretizzata ma che sta nelle possibilità della storia, qualcosa che non è accaduto, ma che potenzialmente poteva, e può, accadere. Possiamo negare questo presente, ma non sta nelle nostre capacità attuali sapere quando e se questo futuro, cui Salvatore appartiene, potrà concretizzarsi. Possiamo rifiutare questo presente, ma non sempre ci è data la possibilità di cambiarlo, perché non dipende solo dalla nostra volontà, ma è determinata anche da altre condizioni. La trovo molto azzeccata e anche molto profonda questa frase, bisognerebbe ragionarci sopra.

C’è un’altra cosa interessante nel libro. Salvatore ha qualche anno più di me, apparteniamo alla stessa classe, la differenza sta proprio negli anni che ci dividono. Io vengo da una famiglia di cinque figli, i miei fratelli, più grandi di me, sono andati all’istituto tecnico e poi a lavorare, quella era la condizione e non esisteva possibilità di sottrarsene. Io che sono nata dopo, sono entrata in una dinamica sociale diversa. È stata la rottura durante gli anni 60, e l’esplosione sociale che ne è seguita con il 68, a permettere che questa società cambiasse volto. A differenza della generazione di Salvatore, per esempio, non ho mai avuto rapporti con il PCI, non era assolutamente necessario, la divisione già c’era stata e quando sono arrivata a Roma e ho cominciato a fare politica, già era molto netta. Il movimento era così forte, così autonomo nelle sue impostazioni teoriche e nella sua prassi, che il fatto che esistesse un partito comunista e un sindacato comunista i più forti d’Europa come quelli che abbiamo avuto, non ci condizionava e non ci impediva assolutamente di occupare l’esistente con le nostre lotte, quasi sempre di strada. La possibilità di avanzata e di conquista era quotidiana e i risultati si vedevano. Nell’intervista, anche se si riferisce in particolare al carcere, Salvatore esprime un concetto importante e universale delle dinamiche di lotta. Ossia dice che i carcerati adesso si suicidano proprio come facevano prima dell’esplosione della lotta nelle fabbriche e nella società intera, come sempre accade quando non c’è la convinzione che si possa lottare e si possa vincere, e cioè quando non c’è un terreno positivo e prospero per pensare un superamento dello stato delle cose. Questo è fondamentale per capire l’oggi, un presente le cui condizioni di vita sono anche peggiori di quelle degli anni ’70, nel quale però non si riescono a elaborare delle idee di cambiamento che possano riarmare le teste, generalizzare e rendere offensive le lotte. Perché è proprio quando si intravede un cammino praticabile, quando si vede che su un determinato terreno è possibile avanzare e conquistare che si procede, che si è disponibili a lottare e destinare alla lotta ogni risorsa, persino la vita. Del resto questa è stata l’idea, molto giusta, delle Brigate Rosse nei primi anni della loro attività, quella della propaganda armata, un tentativo di battere e spianare la strada rivoluzionaria da parte di alcune avanguardie, per dimostrarne la praticabilità e facilitare il percorso e lo sbocco delle tante lotte antisistema di quel periodo storico.

Barbara Balzerani

Questa voce è stata pubblicata in I Nomi Delle Cose, Iniziative ed Eventi, Lotta armata, memoria, Movimenti, Podcast, Storia, Storie e contrassegnata con , , , , , , , , . Contrassegna il permalink.