Materiali di approfondimento per la trasmissione del 4/11/2015
http://coordinamenta.noblogs.org/post/2014/08/22/i-sogni-muoiono-nel-pomeriggio/
http://www.radiocane.info/nemico-alle-spalle5/
le donne nella “grande guerra”
Anche nella Prima Guerra Mondiale, più che nel passato, il prezzo pagato dalle donne fu altissimo, in un conflitto che lo storico Hermann Sudermann definì “la più gigantesca imbecillità che il genere umano abbia compiuto dal tempo delle Crociate”.
Per le donne il trauma bellico di lunga durata ha certamente significato lutto, sofferenza e ansia materna, ma ha causato senza dubbio anche una frattura dell’ordine familiare e sociale. Mentre la memoria e l’immagine maschile, che sono in gran parte memoria e immagini dei campi di battaglia, sono caratterizzate generalmente dal senso dell’orrore della violenza gratuita, della sofferenza e della tragedia, alcune testimonianze orali di donne, raccolte da numerosi studiosi, lasciano intravedere piuttosto un senso di liberazione e di orgoglio retrospettivo, nonchè di accresciuta fiducia in se stesse. Nelle fotografie dell’epoca le donne ritratte nelle mansioni un tempo riservate agli uomini (per esempio quelle adibite ai trasporti, come conduttrici o bigliettaie di tram) e nelle relative divise appaiono generalmente fiere, sorridenti e contente. Lo sguardo rivolto da queste donne agli orrori della carneficina di massa e’, almeno in questa particolare angolazione, diametralmente diverso.
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Generalizzare tuttavia, dimenticando diversità regionali e sociali, sarebbe sbagliato. Una cosa era la condizione delle donne di classi popolari, costrette a subire ristrettezze economiche e alimentari, il peso di nuove responsabilità e il superlavoro derivante dall’accumulo di compiti per l’assenza dei maschi; un’altra quella delle giovani operaie da poco entrate nel lavoro di fabbrica, esposte a lavori pesanti e pericolosi, ma pronte ad approfittare di qualche spazio di liberta dalla tutela maschile e in particolare paterna che cosi gli era offerto; un altro aspetto, infine, era quello delle donne appartenenti alla classe media, che trovarono per la prima volta il modo di uscire dall’ambito familiare, di sentirsi valorizzate in compiti socialmente utili e pubblicamente riconosciuti. Ma vi fu anche il caso estremo di quelle donne che dovettero subire le violenze sessuali degli eserciti occupanti. Non tutte le donne, quindi, vissero il tempo di guerra allo stesso modo, ma almeno per alcune la memoria di quel tempo “felice” appare oggi comprensibile, perché rinvia al senso di liberazione da un mondo chiuso nell’ambito privato e domestico, nel ruolo di madri e spose, nel quale si trovavano comunque “prigioniere” ancora in quel tragico agosto del 1914.
A dire il vero non mancano buoni argomenti anche alla tesi contraria, secondo cui 1’effetto della guerra, specialmente all’inizio, fu precisamente l’opposto: quello di tarpare le ali ai movimenti femministi, restituendo una drammatica preminenza al ruolo maschile come ruolo combattente e ridandogli una sicurezza ormai posticcia.
Allo scatenarsi delle ostilità, la guerra sembrò ristabilire ordine e distinzione tra i sessi, proponendo da un lato il mito dell’uomo difensore della patria e della casa, dall’altro l’immagine della donna angelo e custode, allo stesso tempo, del focolare domestico.
Il prolungarsi della guerra stravolse questo effetto. A parte i rischi e i disagi, gli uomini percepivano la permanenza al fronte come una sorta di segregazione, di emarginazione dal proprio mondo: fare la guerra richiedeva molto spirito di sopportazione e adattamento a una sostanziale, rischiosissima passività, mentre le donne a casa vedevano moltiplicati i loro compiti e le relative responsabilita’.
L’enorme consumo di energie umane innescato dalla guerra, il bisogno crescente di manodopera in tutti i settori (specialmente nella produzione bellica), provocarono chiaramente una specie di invasione di campo femminile nelle più diverse realta’ professionali.
Le donne si scoprirono tranviere, ferroviere, portalettere, impiegate di banca e dell’amministrazione pubblica, operaie nelle fabbriche di munizioni. Si arrivò pertanto alla rimozione di tabù e confini tra compiti e ruoli canonici, con una nuova confusione e mescolanza dei sessi. Il risultato di tale drastica rimozione della “repressione” sociale femminile, fu dunque un inedito anelito di libertà: vivere sole, uscire da sole, assumersi da sole certe responsabilità erano cose che ora divenivano per molte finalmente possibili, anche se non sempre accettate senza riserve dagli altri.
Dalla fine del 1915 i salari , che aumentavano in modo irrisorio rispetto all’aumento dei prezzi, vedevano dimezzarsi il potere d’acquisto di ogni famiglia europea. Molti generi di prima necessità, come scarpe e indumenti, sebbene sottoposti a calmiere, in realtà erano inaccessibili. Donne e bambini raccoglievano persino l’erba dei giardini pubblici, inventandosi addirittura “gustose ricette per cucinare in modo appetitoso le bucce dei legumi! I prezzi della lana, del pane, della carne, del latte, dei fagioli secchi erano non solo quintuplicati, ma spesso le merci risultavano introvabili.
Anche le donne che lavoravano in fabbrica, guadagnando chiaramente di più di molte altre rimaste a casa, non riuscivano a sfamare i figli con il loro stipendio. Le donne organizzarono allora veri e propri scioperi, per aumentare i salari e per porre fine alla guerra. Ad esempio, nel maggio del 1914 si astennero dal lavoro le operaie delle industrie tessili di Como, Vigevano e Borgosesia, nell’agosto del 1915 le operaie tessili di Torino; a settembre e a novembre l’agitazione si estese dal Milanese al Novarese e nel 1918, sebbene sul finire della guerra, riuscirono ad ottenere qualche aumento di salario e alcune categorie anche l’orario ridotto a otto ore.
Mobilitate negli eserciti le classi giovani e requisita militarmente la restante forza lavoro maschile, le necessità produttive dello sforzo bellico rimanevano insoddisfatte. Fu così che ampie sacche di manodopera femminile furono utilizzate nelle fabbriche, negli uffici, nell’assistenza.
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Comunque, si registrarono marcate controtendenze, volte a ristabilire i confini di un tempo e a ricondurre le donne al loro interno. Un piccolo, ma significativo indizio linguistico di tutto questo consiste nel fatto che, alle lavoratrici delle fabbriche di munizioni venisse affibbiato il termine diminutivo, ma anche vezzeggiativo di “munitionnette”, in Francia, e di “canaries” (canarini) in Inghilterra – quasi a ribadire che esse rimanevano sempre donne, avevano cioè qualcosa di specifico che le distingueva: la grazia femminile non veniva meno anche nella fabbricazione di ordigni letali.
C’e’ comunque da sottolineare che, nel caso inglese, il soprannome derivava perlopiu’ dalla colorazione gialla, assunta dalla pelle delle operaie, in seguito al contatto con la polvere pirica e le sostanze chimiche, evidentemente nocive, adoperate in fabbrica. A migliaia morirono le giovani operaie, a causa di cio’.
I compiti in cui la donna e’ più frequentemente rappresentata al tempo della Grande Guerra, sono quelli più tradizionali dell’infermiera e della dama di carità, che sottolineano il ruolo tipicamente femminile di angelo consolatore, di custode, assistente e supplente dell’uomo. Giornali e riviste si occuparono, in seguito, di rappresentarne le altre realtà professionali. Mentre ai medici professionisti erano affidate diagnosi e terapia, le infermiere venivano quasi sempre relegate al compito materno della cura e della consolazione dei pazienti. Come scrisse un medico francese: “Ai medici la ferita, alle infermiere il ferito”. Gli sforzi compiuti dalle donne in questa direzione risalivano all’età pionieristica dell’inglese Florence Nightingale, durante la guerra di Crimea. In Italia il volontariato femminile, sotto l’egida della Croce Rossa, sorta nel 1864, venne successivamente incentivato da donne del ceto medio-alto come Rita Camperio Meyer, figlia di un ufficiale che aveva svolto una missione in Manciuria al tempo della guerra russo-giapponese del 1904-1905 e aveva avuto modo di apprezzare il contributo delle donne all’organizzazione sanitaria dell’esercito russo. La Croce Rossa aveva permesso alla Camperio Meyer di fondare a Milano nel 1908 la prima scuola italiana per infermiere. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale l’organizzazione della Croce Rossa mobilitò moltissime infermiere volontarie, che trovarono impiego immediato nelle opere di assistenza sanitaria nelle immediate retrovie, nei treni-ospedale e negli ospedali piu’ grandi, lontani dal fronte. Nel 1917 le infermiere della Croce Rossa erano quasi 10.000, e altrettante quelle organizzate da altre associazioni di soccorso.
Il racconto dal fronte di guerra: la versione delle donne
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Anche la figura dell’infermiera concretizzava l’impegno femminile avvalendosi dello stereotipo dell’angelo consolatore e donando alla tragica dimensione della guerra e dello sterminio di massa una nota di indiscutibile grazia e di dolcezza. Nella promiscuità degli ospedali militari, dove le donne erano quotidianamente in contatto con gli uomini (medici e pazienti), il ruolo “angelico” e “materno” delle infermiere serviva anche a rimuovere idealmente quello sessuale, evitando i rischi e le tentazioni della convivenza coatta e quindi del “disordine” morale che poteva scaturirne.
Alle infermiere volontarie ad esempio, venivano affidati i soldati semplici, i quali, essendo di estrazione popolare, non avrebbero osato concepire e meno che meno manifestare pulsioni erotiche nei loro confronti. A riprova di ciò basti consultare le molte lettere indirizzate dai soldati alle infermiere e alle “madrine” – questi documenti appaiono pervase da una deferente gratitudine che raramente si abbandona ad atteggiamenti di affettuosa confidenza. Dunque, appartiene forse più alla letteratura romanzesca e alla fervida immaginazione degli scrittori dell’epoca, più che alla realtà del conflitto, il tema ricorrente dell’amore in guerra, di cui Ernest Hemingway ci ha regalato il suo capolavoro di “Addio alle armi”, al centro del quale c’è appunto la relazione tra un ufficiale ed un infermiera sul fronte italiano.
Nella realtà le tinte di un vero rapporto sentimentale durante quegli anni, si rivelarono quasi sempre sbiadite prematuramente dall’immenso dolore per la perdita del compagno al fronte, anche e soprattutto per le infermiere, come testimonia, ad esempio, la tragica odissea di Vera Brittain, aiuto infermiera britannica, che nel corso della guerra perse il fidanzato, il fratello e molti amici d’infanzia. In ultima analisi, non si devono trascurare gli immensi rischi e le estenuanti fatiche che caratterizzavano il lavoro e la vita stessa delle infermiere, soprattutto di quelle impegnate in zona di guerra. Infezioni mortali, avvelenamento dal contatto con soldati gassati, turni massacranti e un inumano stress psicologico, lasciavano poco spazio alle relazioni sentimentali e a qualsiasi tipo di svago o passatempo.
Con un atteggiamento fin troppo paternalistico, lo scrittore Ugo Ojetti, già corrispondente di guerra del Corriere della Sera, così si esprimeva nel 1917: “La fiumana di donne penetra, gorgogliando e frusciando, nei luoghi degli uomini: campi, fabbriche… Talune, è vero, assomigliano ai bambini, specie quando ancora non ne hanno di propri: si stancano, si distraggono, sospirano, litigano, s’impuntano, scioperano, minacciano, strillano. Ma le più, insomma, lavorano e sono preziose, e s’ha bisogno di loro… La donna è prima di tutto un essere pratico il cui lavoro sociale è utilissimo…”.
A colpire maggiormente l’immaginario collettivo fu soprattutto la comparsa delle donne in occupazioni tradizionalmente inconsuete, in una specie di “mondo alla rovescia”. Spesso quotidiani e riviste dell’epoca sfoggiavano clamorose fotografie di donne italiane o straniere impegnate come spazzine, tranviere, barbiere, direttrici d’orchestra, boscaiole, ecc., apparendo tanto insolite, quanto preoccupanti nei confronti della “normalità” dettata dalle secolari tradizioni precedenti.
Del resto, quando i conduttori dei tram furono sostituiti dalle donne ci fu una levata di scudi perbenista, in quanto questo lavoro poneva le donne a diretto contatto degli uomini e solo donne di scarsa levatura morale potevano accettare tali rischi, sebbene l’amministrazione pare che avesse avuto l’accortezza di scegliere per la bisogna ragazzone robuste dall’aspetto alquanto virile. Alla fine però anche questa novità finì per essere accettata per amor di patria, ma quando una mattina videro delle donne realmente impegnate a guidare i tram, l’opinione pubblica si scatenò: i tram sarebbero deragliati e si sarebbero contati i morti, previsione che si rivelò priva di fondamento, perché il numero degli incidenti non alterò le statistiche precedenti – tuttavia continuò a suscitare viva disapprovazione il fatto che le tranviere al capolinea si accendessero spesso una sigaretta.
Va da sé che le donne, di fatto, dovettero soprattutto accettare questo genere di responsabilità ed oneri tradizionalmente mascolini, senza poter spesso né scegliere, né godere appieno dei potenziali e presunti benefici che tali posizioni comportavano.
Un tipico esempio è quello delle giovani ragazze impiegate nelle fabbriche di proiettili, il cui sangue venne letalmente inquinato e la salute gravemente compromessa, dopo già pochi mesi di lavoro a contatto con pericolosissime sostanze chimiche (vedi i “Canarini” di cui si parlava poc’anzi).
Dal confronto tra i dati censuari del 1911 e del 1921 risulta che, tranne nell’industria, in tutti gli altri settori (trasporti e comunicazioni, commercio, banche e assicurazioni, amministrazione pubblica e privata, professioni e arti liberali) la presenza di manodopera femminile aumentò in cifre assolute, ma – a causa della crescita complessiva dell’occupazione – solo in alcuni di essi si verificò un aumento anche in percentuale: i trasporti, e soprattutto le banche e assicurazioni (dove passò dal 3,5% all’11,4%), 1’amministrazione (dal 4,7% al 12,9%) e le professioni. Ciò era l’indizio di una linea di tendenza innescata dalla guerra, che il ritorno alla normalità nel dopoguerra non fu sufficiente a invertire.
ASSISTENZIALISMO PATRIOTTICO FEMMINILE
Gli inni patriottici, invitando le donne ad esporre bandiere su balconi e davanzali e ad applaudire le truppe che si recavano al fronte, furono strumentali per far uscire in qualche modo dall’ombra l’universo femminile. Per chiari ed ostentati scopi assistenzialisti, le donne della propaganda militare tenevano in mano, legata al collo con un nastro tricolore, una cassettina per fare la questua per i regali da inviare ai soldati al fronte e in premio appuntavano un nastrino sul bavero dei donatori. Analogamente, soprattutto in Gran Bretagna e in Francia, specie all’inizio del conflitto, le donne davano la caccia agli aitanti giovanotti in abiti civili che, durante il passeggio, venivano facilmente “adescati” e convinti ad arruolarsi o… a fuggire a gambe levate, in qualità di presunti imboscati, crudelmente esposti al pubblico ludibrio.
La tradizione di regalare la piuma bianca, simbolo di codardia, di chiara memoria ottocentesca, a tutti coloro che non vestissero la divisa, veniva dunque ripresa per rimpolpare le file degli eserciti.Infaticabili, le donne della propaganda organizzavano balli, lotterie e pesche di beneficenza, e vendevano persino, a ben cento lire, un “bacio patriottico”. Una maestrina, Luigia Ciappi, diventò simbolo delle virtù guerriere delle donne, perché si travestì da soldato e tentò di partire per il fronte.
Ci fu anche un volontariato espresso esclusivamente dalle donne di estrazione borghese e aristocratica. Le cosiddette “Dame visitatrici” e quelle che si mettevano a disposizione dei vari Uffici Assistenza e Uffici Dono, avevano il compito di recare aiuto, sostegno e conforto alle famiglie dei mobilitati nonché agli stessi soldati quando si trovavano in licenza, nelle retrovie o negli ospedali.
Molte di queste nobildonne, dopo brevi periodi di volontariato, decisero di occuparsi ancor più da vicino dei soldati al fronte, diventando loro stesse infermiere o fondando/finanziando unità mediche di supporto al fronte.
Nel sostegno allo sforzo bellico venivano indiscutibilmente alla luce quell’inventiva e quella capacità di risparmio e “riciclaggio” che erano considerate virtù tipicamente femminili e che costituiscono, da sempre, una risposta alle proverbiali “vacche magre” e ai razionamenti: preludio a quanto succederà su scala anche più larga sia nell’Italia degli anni Trenta, colpita dalle sanzioni economiche internazionali per la sua aggressione all’Etiopia, sia nel periodo della seconda guerra mondiale. Si utilizzarono, per farne cappotti, parti di pellicce prelevate da indumenti usati, si promosse allo stesso scopo l’allevamento dei conigli, si inventarono forme di riuso della carta di giornale per riscaldare il rancio nelle gavette, o speciali superfici compresse detti “coltroni” (grandi coltri) che proteggevano i soldati dal vento e dal freddo. Si inventarono speciali indumenti antiparassitari, contenenti miscele per tener lontani i pidocchi che tormentavano i fanti in trincea. Si provvide anche ad organizzare la raccolta dei noccioli di vari frutti (pesche, albicocche e prugne) per vari usi farmacologici e di saponificazione. Persino la maschera antigas, simbolo di una guerra combattuta coi mezzi più terrificanti, fu inventata, a quanto pare, dalle donne di un comitato bolognese, prima di essere perfezionata da esperti di chimica e di essere prodotta in scala industriale dai militari.
MODA FEMMINILE E GRANDE GUERRA
(Di Massimiliano Italiano)
Agli inizi del 900, anche l’arte della modellistica sartoriale iniziò ad assumere un qualche aspetto industriale. Il sarto o i primi stilisti sono ancora prerogativa di une elite esclusiva, ma le prime forme di produzione di massa, specie dopo il primo decennio del secolo, impongono la creazione di abiti da fatica dal costo contenuto e soprattutto comodi. Questo sincronismo tra sviluppo industriale ed evoluzione della moda è sottolineato anche da alcuni sociologi, come ad esempio Benjamin, che vede tale cambiamento come necessario adattamento della società moderna al mondo meccanizzato, frenetico e dalla nuova mentalità del “prestissimo” della vita contemporanea.
Si è ancora lontani dalla partecipazione in massa delle donne nelle fabbriche, ma la moda sembrava già adeguarsi al nuovo mondo dell’efficenza. La scomparsa del sellino dai vestiti femminili, appena dopo il 1890, era stato il primo segnale di un irreversibile cambiamento di rotta. Verso la fine del secolo, comparve il tailleur, allora composto da tre pezzi. Per la prima volta nella storia, con l’adozione della giacca, la moda femminile si avvicinava a quella maschile; ed ancora, nel 1910, si poneva in disparte il busto. La donna, tuttavia, riprendeva la sua femminilità con gonne sempre più strette, che evidenziavano le sue rotondità. Con la grande guerra, questo processo di semplificazione è destinato ad una più rapida accelerazione. Con l’ingresso delle donne nelle fabbriche, le gonne lunghe e strette si presentano fastidiose nel lavoro quotidiano, lasciando il posto a quelle più corte e più comode. I colli sono più scesi e spesso assumono la forma delle giacche militari, quasi come voler uniformare, su un unico fronte, militari in trincea uomini e donne a lavoro. Perfino i colori assumono spesso maggiore uniformità sui vestiti, abbandonando la sfarzosa fantasia e il lusso degli anni precedenti, in nome del rigore della guerra. Il bustino, quando ancora presente, è posto più in basso, in maniera comoda, in modo da non intralciare i movimenti del corpo. Anche le pettinature sono più sbrigative, con capelli tirati indietro e più corti. Sul finire della guerra, la moda cercò di restituire una nuova eleganza anche alla donna che lavora, ma senza perdere quel carattere di praticità di cui si parlava, anzi, per risparmiare tessuto, si propongono gonne più corte e vestiti più semplici, con maggiore scollatura e con meno accessori. Finita la guerra, il tentativo di ripristinare gli ingombranti abiti che avevano vestito le donne qualche anno prima fallì miseramente. Anche quel naturale atteggiamento egocentrico, tipico di tutte le donne nella scelta dei propri abiti era stato vittima della modernità e della massificazione sociale.
La presenza femminile era percepita, specialmente dai vecchi operai, come un sovvertimento dell’ordine naturale se non un vero e proprio “attentato alla moralità”. Le nuove assunte venivano paragonate agli “imboscati” e considerate oggetto di favoritismi interessati da parte dei dirigenti maschi. Nelle lettere di protesta indirizzate dal personale ai dirigenti delle fabbriche, si parlava spesso delle donne come di “sgualdrine” che vivevano nel lusso, approfittando della loro nuova condizione sociale ed economica.
Come afferma il contemporaneo Antonio Gibelli (“La Grande Guerra degli Italiani 1915-1918”) “…non meno importante, fu la dilatazione dei compiti e dei ruoli delle donne nelle campagne: secondo calcoli attendibili, su una popolazione di 4,8 milioni di uomini che lavoravano in agricoltura, 2,6 furono richiamati alle armi, sicché rimasero attivi nei campi (a parte le scarse licenze) solo 2,2 milioni di uomini sopra i 18 anni, più altri 1, 2 milioni tra i 10 e i 18 anni, contro un totale di 6,2 milioni di donne superiori ai 10 anni. Inevitabile fu l’occupazione femminile di spazi già riservati agli uomini, e contemporaneamente lo straordinario aggravio di fatica e di responsabilità. Le donne videro ancora dilatarsi i tempi e i cicli abituali del lavoro (col coinvolgimento delle più piccole e delle piu vecchie), e dovettero coprire mansioni dalle quali erano state tradizionalmente esentate”.
Scompariva dunque la divisione del lavoro che voleva affidati agli uomini i compiti più pesanti e impegnativi, compresa la manovra delle macchine agricole.
Malgrado tutto questo, i rapporti familiari non subirono particolari trasformazioni. Rimaneva pressochè inalterato il primato maschile e quello di genitori e “vecchi”. La donna giovane doveva rimanere sottomessa, e poiché la fonte dell’autorità – ossia il marito – era lontana, essa passava spesso ai suoceri. A dispetto della maggiore severità delle leggi e del tentativo di imporre abitudini austere conformi alla gravità del momento, anche e soprattutto nell’universo femminile, questi primi germogli di emancipazione diedero il via ad un inarrestabile rimescolamento della vita sociale e, contemporaneamente, l’affermazione di nuovi costumi. Le donne iniziarono a bere alcolici, a fumare, ad uscire di sera e a frequentare locali di divertimento, che prima erano considerati prerogativa dei maschi adulti. Tale prosaica emancipazione venne chiaramente percepita come irriquietezza diffusa e indisciplina preoccupante, in contrasto con la tradizione di attaccamento al mestiere, di ricerca della stabilità e di etica della perseveranza che le classi dirigenti avevano sempre prediletto e cercato – non senza successo – di inculcare nelle classi lavoratrici.
GRANDE GUERRA, DONNE, CULTURA E POLITICA
Durante la guerra aumentò il numero delle donne che frequentavano gli istituti superiori; nell’anno accademico 1917-1823.000 maschi e circa 2.000 femmine frequentarono le 17 università governative e le 4 libere. Nel 1917 si laurearono 108 dottoresse in lettere, 4 in scienze economiche e commerciali, 81 in matematica, 7 in farmacia, 6 in medicina, 1 ingegneria e 1 in agraria, ma nel 1918 ci fu una flessione, sebbene il numero rimanesse superiore a quello di prima della guerra. Nacque un’Associazione di laureate e diplomate in magistero e altre cominciarono ad organizzarsi. Ristagnarono invece i progressi nella situazione politica e giuridica della donna, mentre in Gran Bretagna il 28 marzo 1917 venne varato il progetto di legge che concedeva il voto alle donne che avessero compiuto trent’anni.
Nel 1912 Giolitti decise d’instaurare il suffragio universale, riservato però solo agli uomini che avessero compiuto il trentesimo anno di età, anche se analfabeti; nello stesso anno finalmente, dopo laceranti discussioni, il partito socialista, soprattutto su istanza di Anna Kuliscioff, presentò un emendamento a questo progetto di riforma elettorale chiedendo il voto alle donne. L’emendamento fu respinto con 263 no e 48 sì. Giolitti che riteneva il voto femminile un salto nel buio si rallegrò che fosse stato respinto con tanta forza, ma stava maturando un ben altro salto nel buio.
Le classi dirigenti, nel momento in cui chiamavano a raccolta le energie del paese, non potevano non mostrarsi più benevole, o almeno più attente, anche alle aspettative femminili. Il dovere dell’impegno richiamava per forza di cose il diritto di cittadinanza. La questione del voto alle donne, amministrativo se non politico, comincio dunque a imporsi nel dibattito. della potenzialità femminile in Italia come in tutta Europa, che diventa un problema degnissimo di considerazione quello della maggiore importanza della posizione sociale che dovrà essere riconosciuta alla donna dopo la guerra. Da molto tempo convinto che alla donna spetti fin d’ora il voto amministrativo, ritengo la manifestazione delle molteplici attività femminili durante la guerra, abbia fatto fare un passo innanzi verso la conquista del voto politico. Più o meno nello stesso senso e con analoghe cautele si esprimeva il presidente del Consiglio Borselli:
“Per il voto amministrativo non credo vi possano essere dubbi o ritardi e si dovrà immediatamente consentire e consentirlo con assoluta parità rispetto al suffragio maschile. Quanto al voto politico, sono ancora incerto meco stesso fra uh consenso immediato ed una applicazione successiva all’elettorato amministrativo, per guisa che questa valga come di preparazione e di prova. Ma non v’e dubbio che, o subito o poi, anche nell’elettorato politico il voto della donna dovrà essere ammesso.”
Ma c’era anche chi continuava a rimanere diffidente, e chiedeva alle donne un’ulteriore prova di pazienza e di buonsenso consistente nel soprassedere per il momento alle loro rivendicazioni. Ad esempio il parlamentare nazionalista Luigi Federzoni dichiarava:
“Sono convinto che le donne italiane, da che e scoppiata la guerra, abbiano dato un esempio meraviglioso di patriottismo, di abnegazione e di intelligente energia. Confido che alle molte benemerenze acquistate vorranno aggiungere quest’altra, non meno degna delle loro virtù: di non complicare i gia numerosi, urgentissimi e gravissimi problemi della guerra e del dopoguerra risollevando inopportunamente e prematuramente la questione dei diritti della donna”.
Se le donne inglesi alla fine della prima guerra mondiale ottennero il voto, quelle degli Stati Uniti dovettero contentarsi di partecipare al voto solo alle elezioni locali di pochi Stati dell’Unione.
Una volta deposte le armi, tutti sentirono il bisogno di pace e di sicurezza; il rientro nei ruoli tradizionali, da tempo agognato, sembrava contribuire a questo senso di sicurezza, specialmente per quanto riguarda i maschi, che si erano visti soppiantati e minacciati nella loro tradizionale supremazia. L’esigenza di trovare un lavoro per i reduci spinse talvolta al licenziamento rapido e completo delle donne dalle occupazioni che avevano ricoperto, anche se in alcuni settori, per esempio nel terziario, la loro presenza continuò nonostante tutto a crescere. La difficoltà di trovare lavoro scatenò la guerra dei sessi che naturalmente fu perduta dalle donne, che solamente per un breve periodo ebbero diritto al sussidio di disoccupazione. La sconfitta dell’occupazione femminile fu rilevata solo nel 1921, data in cui risultarono occupate nell’agricoltura 3 milioni di donne, nell’industria un milione e 173.000 in meno rispetto al 1913, mentre le donne inattive erano 14 milioni. La retorica dominante fu infatti quella che prescriveva alle donne il rientro nei ranghi, nei ruoli familiari, nei compiti procreativi e materni.
La morte di milioni di uomini il relativo fortissimo calo della natalità, alimentarono dovunque politiche di sostegno di incremento demografico, che in Italia furono fatte proprie e sviluppate con particolare forza dal fascismo, cercando di reprimere ulteriormente qualsiasi velleita d’emancipazione femminile.
Per le donne, a guerra finita però non sempre seguì l’integrazione e la promozione fatte balenare dalla propaganda fatta per la mobilitazione alla guerra.
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Tuttavia, in conclusione, la Grande Guerra incrinò modelli di comportamento, le relazioni tra generi e classi di età, nonché tra le varie classi sociali, mettendo in discussione gerarchie, distinzioni e autorità ritenute immutabili: un effetto che – contenuto per il momento dalla legislazione repressiva – sarebbe emerso più ampiamente nel dopoguerra, contribuendo a conferire alle lotte sociali, comprese quelle per i diritti delle donne, quell’impronta di stravolgimento radicale dell’ordine esistente che avrebbe fatto per un momento tremare le classi proprietarie.
http://www.lagrandeguerra.net/gggrandeguerradonne.html
Fonti di riferimento:
ALESSANDRO GUALTIERI, “La Grande Guerra delle Donne”, Mattioli 2012
GIBELLI ANTONIO, “La Grande Guerra degli Italiani 1915-1918”, Rizzoli
P. BARONCHELLI GROSSON, “La donna delta nuova Italia. Documenti del contributo femminile alla guerra (maggio 1975 – maggio 1917)”, Quintieri
A. BRAVO,” Donne contadine e prima guerra mondiale”, in “Societa e storia”.
ANNA RITA ZARA – “Le donne nella prima guerra mondiale”