La via che porta al paese è in salita

La via che porta al paese è in salita

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Denys

Nonno, mi hanno annunciato che eri in ospedale questa mattina. Non c’ero, per una banale questione di logistica. Se anche avessi potuto non ci sarei stato lo stesso, perché non avrei voluto vederti in questi momenti. Assolutamente no.

La cultura popolare suggerisce che, quando la vita volge al termine, la persona che si appronta a morire vede scorrere il suo passato davanti a sé. Io sapevo che il senso della vita era unico, ma forse è proprio per questo che solo una volta la si ripercorre al contrario. Tu a cosa hai pensato? Non sarei così sicuro che morendo si pensi al passato. Penso che sia un errore da parte dei vivi, che generalizzano la loro esperienza estendendola ai defunti. Di certo non sono granché in grado di immaginare tu abbia pensato al passato. Tu avrai senz’altro pensato al futuro.

Alcune persone non ti conoscono, ma fanno finta di conoscerti. Loro sono accanto a te, in questo momento. Forse. Forse anche adesso avrebbero titubato per farti una carezza, ora che hanno una scusa per piangere. D’altra parte, non è che abbiano mai fatto qualcosa di diverso.

Io so chi sei. Conosco i tuoi spazi, i tuoi sorrisi e i tuoi silenzi, che sono tutto ciò che c’è da conoscere di te. Dove te ne vai, ora, non lo so. Non credo che la tua anima stia compiendo chissà che viaggio mistico. Sono agnostico, ho imparato da te l’importanza di difendere il mio diritto al dubbio. Ho un’idea sommaria di ciò che accadrà alle tue cellule, a quelle di chi conosci, e alla tua vecchia casa che piano piano decade anche lei. Tutta colpa dell’entropia.

Tra qualche giorno faccio vent’anni. So che eri e sei fiero di me. Questo, davvero, è quanto mi basta. Non mi serve nient’altro. Mi servono le lacrime, un po’, per farne buon uso. Ma quelle sono impermanenti: ne cascano un po’ e non si lasciano dietro nemmeno una scia. Quello che hai lasciato tu, invece, rimarrà finché avrò le parole per raccontarlo. Ti saluto, e nel mio vizio di scrivermi addosso lascio dietro di me una poesia.


La via che porta al paese è in salita
e la volevo salire

Mi hai portato sulle spalle della macchina
Mi hai detto, passeggiamo allora
l’orologio bianco batterà i minuti
l’aranciata mi fornirà gli zuccheri
in cartoleria mi fermerò a guardare
le riviste che divorerò, che non leggerò
e ruberò i quaderni, ruberò i colori

Vengo dalle fila del ribes
dell’insalata dei pomodori
dalla fuga dalle zanzare
i tralci dell’uva, l’ulivo dorato
e la bicicletta che ho inforcato
e le mie domande, e i miei errori
mamma che chiacchiera
papà a cofano alzato
con due bottiglie, olio extravergine,
uno dei quali per motori

Sulla via che porta al paese
c’è un viale alberato, un bar, una pasticceria
e più in là anche un cimitero, e poi si entra
dopo c’è un altro bar,
una trafila di negozi,
un centro anziani,
un altissimo orologio bianco.

Ti sei avvicinato troppo
all’altissimo orologio bianco
e ora non ci sei più.
Prima però due altissime statue,
e le avevi fatte tu.
Anche le statue del mio paese
le hai costruite tu.

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