ATTI incontro nazionale separato contro la violenza maschile sulle donne “IL PERSONALE E’ POLITICO, IL SOCIALE E’ IL PRIVATO” – 2 giugno 2012 pomeriggio – Violenza delle Istituzioni sulle donne con particolare riguardo alla scuola, alla sanità, agli istituti totali

“NOI ODIAMO LE GLI UOMINI CHE ODIANO LE DONNE” violenza sessuale/femminicidi e moderno fascismo/medioevo capitalista camminano insieme”

MFPR-Movimento femminista proletario rivoluzionario

Il titolo che abbiamo dato all’ intervento di oggi, “NOI ODIAMO GLI UOMINI
CHE ODIANO LE DONNE”- violenza sessuale/femminicidi e moderno fascismo/medioevo
camminano insieme” vuole sintetizzare un ragionamento frutto di una comune
riflessione che, alla luce di un’analisi materialistico dialettica, noi
compagne, lavoratrici, donne precarie, disoccupate del Mfpr abbiamo fatto anche
sulla base delle esperienze concrete e di lotta messe in campo nelle diverse
realtà in cui siamo presenti.

Serve partire innanzitutto dalla necessità e urgenza, che per noi donne OGGI
si pone, di inquadrare il clima politico, ideologico e sociale in cui e per cui
tali violenze sessuali e uccisioni avvengono. Non si tratta affatto, come si è
detto più volte e da diversi ambiti, di casi isolati da vedere in sé per sé, ma
di una tendenza che andrà purtroppo accentuandosi: la violenza contro le donne,
le uccisioni stanno assumendo una dimensione da vera e propria “guerra di bassa
intensità” contro le donne, la stessa giurisprudenza ha iniziato a parlare di
femminicidio.
“Uomini che odiano le donne”, come si saprà, è il titolo di un libro di
successo dello scrittore Stieg Larsson che noi abbiamo utilizzato in questi
ultimi tempi perché, al di là dei limiti che può avere il titolo di un romanzo,
esprime in modo significativo la questione del perché oggi di questo aumento
impressionante della violenza contro le donne, del fatto che essa tocca oggi
soprattutto realtà di grandi città, di paesi capitalisti più moderni, e quindi
del legame che vi è tra la violenza e la fase attuale che viviamo che noi
definiamo di moderno fascismo/moderno medioevo, tra il carattere attuale della
violenza contro le donne e questa società capitalista.
Il moderno fascismo sta ora edificando a sistema tutto ciò che è reazionario,
maschilista, nero, coltivando, in legame con i pesanti attacchi alle
condizioni di vita, di lavoro, ai diritti della maggioranza delle donne, un
humus di odio, anche preventivo, verso tutto ciò e tutti coloro che non possono
accettare questo sistema di oppressione, repressione e che possono fuoriuscire
dal “controllo”, dalle donne, ai giovani, agli immigrati. Per le donne
soprattutto, questo odio, che al di là di come si esprime, è fascista, si
carica e alimenta sempre più il maschilismo; un odio tout court verso le donne,
in quanto donne che pensano, che agiscono, che decidono.
“In questo senso le uccisioni non si potranno fermare, né ci sono interventi
di legge, di controllo che possano frenarle… “Gli uomini che odiano le donne”
esprime l’immagine del sistema capitalista, nella sua fase di crisi, di
putrefazione imperialista, di un sistema che non ha più nulla di costruttivo ma
è solo distruzione” – abbiamo scritto in un recente opuscolo “Le uccisioni
delle donne oggi”, ripubblicato in forma aggiornata in occasione del 25
Novembre scorso.
I mass media hanno in questo un ruolo fondamentale. Su alcuni casi, come ad
esempio quello dell’uccisione di Sarah Scazzi a Taranto, hanno costruito
vergognosi talk show, su altri o si riducono a meri fatterelli di cronaca nera
o addirittura non se ne parla, deviando o indirizzando così l’opinione pubblica
in un certo modo per diffondere idee, giudizi spesso razzisti, di classe che
comunque hanno lo scopo di utilizzare i casi di violenza o uccisioni delle
donne per perpetuare/rafforzare la politica, l’ideologia “dominante” in questo
sistema – rappresentato al massimo grado/degrado dal governo Berlusconi ma che
continua nella fase del governo Monti/Fornero in cui, guarda caso, riprendono
anche i reazionari attacchi al diritto d’aborto – nascondendo invece le cause
sociali della violenza strettamente legata alla condizione della donna in
questa realtà sociale.

“La violenza sulle donne non fa – infatti – che proseguire la discriminazione,
l’ingiustizia, il doppio sfruttamento e oppressione di cui siamo vittime in
questa società capitalista…”
E’ sempre più sotto gli occhi di tutti come i padroni, il governo al servizio
di essi, agiscono per ricacciare a casa noi donne. Tante sono nel nostro paese
in questi mesi le lavoratrici licenziate, le operaie in cassa integrazione, le
precarie sempre più precarizzate, le disoccupate alla ricerca di uno straccio
di lavoro, le donne super sfruttate come le immigrate fin quasi a condizioni di
moderno schiavismo.
Si peggiorano rapidamente le già pesanti e discriminanti condizioni di lavoro
e di salario delle donne, si scaricano ancor di più sulle donne i tagli e i
peggioramenti ai servizi sociali, la gestione della crisi nella famiglia. Nello
stesso tempo, con un discorso tanto ipocrita “sulla parità” quanto effettivo di
un primo passo di un attacco generalizzato, vi è stato per esempio, da Brunetta
alla ministra Fornero oggi, l’innalzamento dell’età pensionabile delle
lavoratrici, non riconoscendo l’aspetto “usurante” del doppio lavoro delle
donne ai fini dei tempi di lavoro e della pensione.
Il Corriere della Sera del 13 maggio scorso riportava: “La Fornero insiste
sulla conciliazione “maschile” (i mariti devono fare di più in casa)… il
problema è che poco può essere fatto tramite il servizio pubblico perché
occorre contenere la spesa”. La Min. Fornero dunque fa la “femminista” ma per
tagliare i servizi sociali e scaricarli sempre e di più sulla famiglia. Tutta
la “politica di conciliazione” di cui anche la Camusso, le donne del PD, ecc.
si riempiono la bocca, vuol dire solo: conciliate tra di voi! Perché il governo
comunque deve tagliare! E sono ancora e proprio le donne a pagare i tagli alla
sanità e la logica puramente produttivista e utilitarista che vi regna, con il
ritorno delle morti per parto.
La Riforma del Lavoro anche per quanto riguarda il lavoro delle e per le donne
non solo non contrasta ma cristallizza ed estende l’attuale condizione fatta,
se va bene, di soli lavori a tempo determinato, precari. Nelle fabbriche la
causale delle “motivazioni economiche” (contenuta nella modifica dell’art. 18)
verrà usata per dare legittimità ai licenziamenti delle donne già molto
elevati; inoltre la riforma, pur se ipocritamente la Fornero parla delle donne,
mantiene tutte le forme esplicite di discriminazioni – sul salario, sulle
mansioni, su assunzioni e licenziamenti, ecc. – come in un’assemblea recente a
Pomigliano le operaie Fiat hanno denunciato.

Vi è poi tutta la questione della famiglia, nuovamente posta al centro sia da
destra che da “sinistra”, e del ruolo che le donne devono avere in essa in
questa società. Noi diciamo “in morte della famiglia”. Ma che cos’è la
famiglia?
Dal 30 maggio al 3 giugno di quest’anno si tiene a Milano l’incontro mondiale
delle famiglie in cui si discuterà del ruolo della famiglia che, secondo le
associazioni cattoliche:”resta, infatti, per comune percezione nel paese, la
fondamentale istituzione della società e richiede, specialmente in questo
momento di pronunciata crisi economica e sociale, la pianificazione di
interventi adeguati e meditati, che ne sostengano la funzione e ne promuovano
il ruolo.”
Solo da questa premessa si comprende come al centro di questo incontro è il
fatto che la famiglia e le donne all’interno di essa ancor più dovranno
svolgere un ruolo di ammortizzatore sociale, sia pratico che ideologico, su cui
scaricare il peso dei servizi sempre più tagliati, come tutte le tensioni
sociali. Sappiamo bene, poi, come questi incontri abbiano risvolti ideologici e
pratici contro le donne a partire dalla “difesa della vita sin dal suo
concepimento”.
La famiglia è uno dei puntelli fondamentali della marcia verso il moderno
fascismo del governo e dello Stato borghese affiancati dalla Chiesa, una
famiglia che deve essere funzionale ad essa sia nel senso di essere subordinata
alle scelte politiche del governo e dello Stato, sia in termini di sostegno
attivo sul piano ideologico di quelle scelte (la difesa della “sicurezza”, dei
valori di conservazione, ecc.),
La ‘famiglia’ poi per la Chiesa sempre più invadente nella vita sociale e
politica è la “sacra famiglia”. Volutamente sempre più astratta, non reale,
perché essa e il ruolo della donna in essa, devono essere il fondamento che
salva “l’ordine sociale esistente – cioè che salva il loro sistema capitalista
– in cui le donne devono, come scrive Ratzinger, “lenire le ferite, far zittire
chi vuole urlare e lottare…”, per impedire che le contraddizioni di classe,
sociali esplodano in ribellione, rivolta, rivoluzione.
Ma questa santificazione non può nascondere una realtà concreta in cui per la
maggioranza delle donne non c’è scampo in questa società; in particolare per le
proletarie si tratta sempre più di un ritorno ad un moderno medioevo che si
lega alla concezione della “proprietà” che in questo caso, a differenza delle
famiglie dei borghesi, dei capitalisti, dei ricchi, può essere per i maschi
solo quella della moglie e dei figli, alla concezione del ruolo del maschio che
a volte schiacciato sul lavoro, frustrato nel suo ruolo, si rivale sempre più
spesso in modo maschilista e fascista sulla “propria” donna. Tutto questo trova
la sua manifestazione più tragica nei femminicidi fatti da “normali” uomini.
Chi violenta, che uccide trova, quindi, in questa società il clima, l’humus
adatto, favorevole sentendosi legittimato, quasi autorizzato, “…un clima
politico/sociale sessista-razzista, di reazione alle donne che si vogliono
ribellare, che vogliono rompere con i legami oppressivi – il ruolo nella
famiglia…”.
Nell’Origine della famiglia della proprietà privata e dello Stato viene
ripresa una frase di Marx: “ la moderna famiglia… contiene in sè, in
miniatura, tutti gli antagonismi che si svilupperanno più tardi largamente
nella società e nel suo Stato. Una tale forma di famiglia segna il passaggio
dal matrimonio di coppia alla monogamia. Per assicurare la fedeltà della donna,
e perciò la paternità dei figli, la donna viene sottoposta incondizionatamente
al potere dell’uomo; uccidendola egli non fa che esercitare il suo diritto…”.
Un’analisi quanto mai attuale. La maggior parte degli assassinii di donne,
delle violenze sessuali, sono una miniera di esempi di quanto scritto da Marx.
Alcune uccisioni e violenze sembrano poi una parafrasi de “l’origine della
famiglia, della proprietà privata e dello Stato”, vedi l’uccisione di Sarah
Scazzi (delitto di famiglia), vedi l’uccisione di Melania Rea (delitto di
apparato dello Stato), vedi lo stupro di Strauss- Kahn, direttore generale del
FMI (violenza dei padroni, dei ricchi).

E’ alla luce di tutto ciò che siamo chiamate oggi a rispondere a questa guerra
scatenata contro le donne.
Affrontare la questione della violenza sessuale e dei femminicidi
esclusivamente con le misure repressive o con il potenziamento dei centri
antiviolenza, come le donne, dal governo, al PD, alla Camusso e company fino a
settori del femminismo borghese/riformista pongono, non può essere la
“soluzione”.
Le misure repressive non fanno che alimentare un clima oscurantista, razzista
(vedi il pacchetto sicurezza nato dalla strumentalizzazione del governo di
allora della violenza di Giovannna Reggiani ad opera di un immigrato), ideale
per la coltivazione e diffusione di idee e pratiche fasciste, maschiliste, di
sopraffazione che finiscono per favorire la violenza; si creano città sotto
controllo, invivibili, si propongono addirittura zone rosa/ghetto per sole
donne, in cui siano bandite le normali libertà, la socialità tra i ragazze e
ragazzi, tra le persone, l’uso normale delle città.
La logica dei centri antiviolenza è limitata e limitante perché interna a
questo sistema sociale, perché tende ad individualizzare i casi di violenza
soffocandone invece l’aspetto sociale della questione e la necessità della
ribellione e della rivoluzione attraverso la lotta collettiva delle donne.
“…Non è possibile lottare contro la violenza sessuale e i femminicidi senza
rovesciare questo sistema sociale che li produce e di cui se ne fa puntello.
Questa lotta non ha niente da spartire con la politica del femminismo piccolo
borghese che vuole “liberarsi dalla famiglia” in una logica però tutta
individualista, né può essere ridotta a mera lotta contro gli uomini… ma ha a
che fare invece con la concezione/pratica del NOI ODIAMO GLI UOMINI CHE ODIANO
LE DONNE, nel senso che ad una violenza che è sistemica la maggioranza delle
donne deve rispondere, organizzandosi, con la legittima violenza rivoluzionaria
– che deve esprimersi già da oggi, lasciando ad altri i lamenti e le inutili e
impotenti richieste, e sviluppando una linea combattiva verso gli stupratori,
assassini e le Istituzioni
“…Questa lotta, rivoluzionaria, se non può che essere fatta innanzitutto in
prima persona dalle donne, che subiscono tutte le catene, non è però interesse
solo delle donne, ma di tutti i proletari, perché è una lotta per una nuova
umanità, nuovi rapporti sociali…”
NOI ODIAMO GLI UOMINI CHE ODIANO LE DONNE vuol dire lottare contro le radici
della violenza sessuale e delle uccisioni contro le donne, lottare contro
questo sistema capitalista che deve essere distrutto, e le donne hanno doppie
ragioni per farlo!

*****
Il 10 Marzo scorso noi compagne del mfpr insieme alle lavoratrici dello Slai
Cobas per il s.c, abbiamo organizzato un’assemblea nazionale di donne a Palermo
che è rientrata nella settimana dell’8 marzo che ha visto in quella città tra
l’altro lo svolgimento di un bel e combattivo corteo di 150 lavoratrici,
precarie e studentesse.
L’assemblea, in cui la questione violenza/uccisioni delle donne ha avuto una
parte significativa nella discussione collettiva che ha riguardato nella prima
metà tutti gli aspetti della condizione di doppia oppressione (lavoro/genere),
è entrata poi nel merito di come concretamente e praticamente continuare a
mettere in campo la lotta contro una condizione che scaturisce dal sistema
sociale capitalista nel suo complesso, e in questo senso ribadendo la necessità
che le diverse lotte delle donne escano dai diversi ambiti per unirsi e
mettersi in collegamento tra di loro, l’assemblea ha lanciato l’appello a tutte
le lavoratrici, precarie, disoccupate, giovani, compagne in lotta per uno
SCIOPERO DELLE DONNE per l’8 marzo dell’anno prossimo!
Sciopero delle donne per noi vale come una pregnante parola d’ordine perché se
si riuscirà ad organizzarlo come risposta complessiva di classe e di genere a
quella che è una guerra complessiva contro di noi sarà una cosa importante, di
forte rottura e impatto, di valore sul piano strategico.
Le condizioni oggi ci sono ma sappiamo anche di avere contro parecchi, il
governo, i padroni naturalmente, ma la vera questione è costituita da altre
dighe, sia sul fronte sindacale che del riformismo femminista.
Dall’assemblea di Palermo, di cui ci sono disponibili gli atti scritti,
vogliamo portare oggi questo appello anche a tutte voi perché lo sciopero delle
donne, totale, come abbiamo detto, vuole guardare a tutta la condizione di
doppia oppressione delle donne in questa società di cui la violenza e i
femminicidi sono il frutto più marcio.

E’ ORA CHE LE FEMMINISTE E LE LESBICHE ARMINO I LORO CANTI
GLF – GRUPPO DI LAVORO FEMMINISTA – ROMA –
Contro i Cie e contro il controllo sociale

I Cie, Centri di identificazione ed Espulsione, sono nati non per internare persone che hanno commesso un reato, ma che non hanno il permesso di soggiorno nel nostro paese.
Sono stati creati come Cpt con la legge 40/1998, Turco-Napolitano, primo governo Prodi, Giorgio Napolitano ministro degli Interni, Livia Turco ministra della Solidarietà Sociale, Luigi Berlinguer ministro della Pubblica Istruzione, Pierluigi Bersani ministro dell’Industria, Commercio e Artigianato, Tiziano Treu ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale, Rosy Bindi ministra della Sanità, Walter Veltroni ministro dei Beni Culturali.
La legge fu approvata con votazione ad appello nominale. Votarono a favore anche il Partito della Rifondazione Comunista, compreso l’attuale segretario del Sel, Niki Vendola.
La legge ha introdotto il principio di detenzione amministrativa per cui si può essere internate/i per una condizione, creando un vero e proprio “vulnus” nel concetto di diritto.
La detenzione per condizione e non per reato, porta alla reclusione “amministrativa” di soggetti che per quello che sono e non per quello che fanno, sono passibili di condanna, detenzione e/o internamento.
Il fatto che una condizione, poi, venga rubricata come reato, nulla toglie al concetto di base, anzi lo aggrava, perché rende manifesta l’azione dello Stato di arrogarsi il diritto di definire “reato” qualsiasi comportamento o situazione di per sé.
E’ il trascinamento dallo Stato di diritto allo Stato etico.
Una nota a margine riguarda, chiaramente, il fatto che le leggi non sono nulla di neutrale o al di sopra delle parti, ma rappresentano la sanzione formale di un rapporto di forza.
Il concetto di detenzione per condizione e non per reato, apre scenari inquietanti.
Il fatto che, oggi, a farne e spese siano le migranti ed i migranti considerati, per svariati motivi, irregolari, nulla toglie alla possibilità che, da tanti segnali, è più reale di quanto si possa credere, che venga internata/o chiunque non sia gradita/o al sistema, per condizione di vita (“vagabondi”, senza fissa dimora, senza possibilità di sostentamento?), per scelta comportamentale e/o sessuale (gay, lesbiche, trans, prostitute?), per etnia (Rom, Sinti?), per scelta politica e/o ideologica e dissidenti ritenuti, a qualsiasi titolo, “pericolosi” per la società.
Le donne sono soggettività ad alto rischio, perché il non rientrare nei ruoli, per le non omologate a vario titolo, può essere ragione di condanna sociale e la conseguente “rieducazione” è una possibilità tutt’altro che peregrina. Questa è una società che ha fatto diventare reati penali una miriade di scelte e di comportamenti individuali. Ha criminalizzato la povertà, la mendicità, la condizione di senza casa, la marginalità di chi rovista nei cassonetti… l’assunzione di droghe, bere alcolici, dormire per strada, scrivere sui muri… per non parlare di chi si ribella o si organizza.
Tutto è perseguibile penalmente e amministrativamente.
Il così detto “reato d’autore” o “colpa per il modo di essere”, taterschuld, si è delineato, accanto alla comune concezione di colpa, legata ad un fatto specifico, nella dottrina tedesca , attorno agli anni ‘40: una profonda mutazione genetica per cui non si risponde penalmente per quello che si è commesso, ma per quello che si è. Si è perseguite/i per quello che si è, in riferimento all’estrazione familiare, sociale, all’etnia, al tipo di vita, all’io, al modo di essere e, tutto questo, è l’obiettivo reale della persecuzione penale.
Anche durante il fascismo, in Italia, alla fine degli anni ‘30 furono introdotti i campi di internamento, da non confondere con quelli di concentramento, dove venivano rinchiuse persone non per aver commesso un reato, ma ritenute pericolose socialmente: antifascisti, Rom, omosessuali, a cui si sono aggiunti, dopo le leggi razziali, gli ebrei. Per gli idolatri della legalità, le leggi razziali erano una legge dello Stato e, perciò, andavano rispettate.
Battezzati con i Rom, i campi di internamento cominciarono a proliferare in tutta Italia: ce ne furono anche per sole donne, naturalmente con direttrici donne. Anche allora, commissioni di vario tipo visitavano i campi, prime fra tutte quelle della Croce Rossa che, almeno allora, si asteneva dal gestirli direttamente. Tante persone lavoravano per e intorno ai campi: dalla polizia che andava a prendere a casa o per strada le persone da internare e svolgeva opera di controllo, al personale, spesso civile, dal direttore/direttrice a tutte le altre figure e alle ditte che fornivano il necessario per il funzionamento degli stessi.
E c’era la stampa che, da una parte, demonizzava le pericolose figure degli internati/e e, dall’altra, faceva finta di non sapere dell’esistenza dei campi, se non quando raccontava le lamentele e le paure dei cittadini/e che avevano la “sventura”, poverini/e (!) di viverci accanto.
Fino a qui tutto uguale. Però una differenza c’è. La storia non è ragioneria, ma qualche volta, i conti bisogna farli. Nella nostra democratica repubblica, nei Cie, c’è un numero considerevole e spaventoso di pestaggi, all’ordine del giorno, numerosi casi di morte, sempre rubricata come naturale, di suicidi e di gesti dolorosi di autolesionismo. Chi si infligge orrende mutilazioni, come quella donna che si è cucita la bocca, siccome siamo tanto civili e progredite/i, viene portata nel reparto di neurologia e psichiatria di un ospedale perché qualche esperto/a ci deve mettere a posto la coscienza e dirci che non è disperata, ma soltanto pazza. A tutto questo vanno aggiunte/i le/gli “irregolari” che sono state/i ricondotte/i forzatamente nel loro paese. Non ci vuole molta fantasia per immaginare in quale inferno le/i abbiamo gettate/i.
Nessuno/a dica non sapevo, non immaginavo, non credevo. Non ci sono zone neutre: o si è contro o si è complici. I campi di internamento pensavamo di non vederli più e, invece, dobbiamo fare i conti con i Cie. La rappresentazione ed i ruoli sono sempre gli stessi, però, fra trent’anni, metteranno una targa ricordo nei Cie, faranno qualche convegno, ci porteranno le scolaresche e ci faranno qualche dotto libro.
I Cie non sono un ambito settoriale, ma una proiezione della nostra società. Una volta si diceva che per giudicare un paese bisognava conoscerne il sistema carcerario, oggi hanno trasformato la società in un carcere a cielo aperto.
Le ondate migratorie vengono usate anche per instillare nei cittadini/e la paura del diverso/a, paura sfruttata per legittimare la persecuzione, l’internamento, la deportazione delle/dei migranti e per far accettare una legislazione securitaria sempre più invasiva rispetto alle vite di tutte e di tutti. Da qui l’incentivazione degli atteggiamenti razzisti nella popolazione, funzionali, oltre tutto, ad una guerra fra poveri, in cui i cittadini /e “legittimi” scaricano sul migrante e sul diverso frustrazioni e impossibili rivincite.
Dentro i Cie viene esercitata quotidianamente violenza e violenza di genere, da parte degli operatori in divisa e non. Come possiamo pensare che chi pratica la violenza quotidiana in quell’ambito, fuori da lì sia qualcosa di diverso? Vengono delegati ad essere lì dentro violenti e, fuori, al servizio dei cittadini/e (!?!) E per qualcuno/a diventano interlocutori, come se questo fosse possibile. La violenza insita nel ruolo diventa, poi, anche abitudine. Crediamo ancora che le persone siano al “lavoro” qualche cosa e in famiglia o nell’ambito privato, diversi? “buoni padri, mariti, figli”?
Quello che succede nei Cie, compresa la violenza di genere, smaschera l’inconsistenza di chi pensa che la soluzione sia nella “convivenza civile” e nell’“educazione alla convivenza fra i sessi”.
E chi sarebbero i referenti di questo messaggio buonista e politicamente corretto, in questo caso? Quelle/i rinchiusi o chi le/li ha rinchiusi? Chi i pestaggi li subisce o chi li fa? E, riguardo al rifiuto della violenza, a chi dobbiamo dire che non va mai praticata? A chi la subisce o a chi la esercita?
I Cie sono un momento molto alto del controllo sociale. Questa è una società basata sullo sfruttamento dell’essere umano sull’essere umano e sulla natura intera e, perciò, ha bisogno dei Cie, delle telecamere, delle intercettazioni telefoniche, delle cimici ambientali, di una legislazione invasiva. Rispetto a questo progetto, partiti, onlus, ong, media, polizia, magistratura, sono tutti chiamati a partecipare.
Siamo tutte/i in libertà vigilata e condizionale. Siamo libere/i di dire e di fare quello che vogliamo purché siamo omologate al pensiero unico di conservazione di questa società. Per chi esce fuori dal coro le parole come democrazia, libertà di opinione e via dicendo non valgono.
Ma i Cie sono, anche, un momento molto alto del controllo del mercato del lavoro. La composizione della popolazione internata è caratterizzata da un gran numero di lavoratori stagionali, soprattutto agricoli, da manovalanza edile, da badanti, domestiche, prostitute, da lavoratori e lavoratrici migranti che sono arrivati da poco in Italia, traghettati nei momenti in cui servono lavoratori in nero nelle campagne, ma anche da lavoratori e lavoratrici migranti che stanno in Italia da tanti anni, che qui hanno ormai famiglia e radici, ma che hanno perso il lavoro e, quindi, anche il permesso di soggiorno. Chi è rinchiusa/o nei Cie non ha più una storia personale, non conta l’età, il lavoro che faceva, i traguardi personali raggiunti e le speranze coltivate e perde il diritto alla parola. Le storie della donna senegalese, da dodici anni in Italia, sei figli, che perde il lavoro e viene internata e della donna tunisina, da ventuno anni in Italia che, licenziata, viene deportata, nonostante quattro figli che è costretta a lasciare qui, sono solo degli esempi fra i tanti.
I Cie costituiscono serbatoio di riserva e di regolamentazione, non a caso si svuotano e si riempiono a seconda delle esigenze delle lavorazioni stagionali, e permettono il ricambio del mercato del lavoro con la deportazione di chi lavora magari qui da tanto e viene sostituita/o con “merce fresca”. I migranti e le migranti lavorano in condizioni di semischiavitù, sono i nuovi schiavi e le nuove schiave della nostra epoca, ma costituiscono anche arma forte di ricatto nei confronti di tutti gli altri lavoratori costretti ad accettare, di conseguenza, condizioni di orario e di retribuzione proibitive.
Ciò che informa le leggi sull’immigrazione è la governabilità dei corpi, non solo dei/delle migranti, ma di tutte/i, allo scopo di garantire il massimo di produttività. In pratica, l’obiettivo principale è una sempre maggiore appropriazione di ricchezza dagli individui messi al lavoro. A conferma che la ricchezza è sempre data dalla quantità di lavoro e che l’obiettivo del capitalismo è appropriarsene nella maggior misura possibile. Gli individui vengono usati come macchine, e, come tali, vengono acquistati, venduti, rottamati. Per fare questo, bisogna piegare le persone alla solitudine e all’insicurezza.
I Cie non sono un raffreddore o qualcosa di patologico, ma fanno parte di questa società. Addentrarsi nella problematica dei Cie significa, quindi, smascherarne la natura intrinsecamente funzionale al sistema e, fare i conti con la loro essenza, è mettere in discussione i principi fondanti di questa organizzazione sociale. Queste strutture sono momento importante di questa società. Infatti sono presenti in tutti i paesi europei in seguito all’adozione di una politica comune sulle migrazioni da parte degli Stati dell’Unione Europea, sancita negli accordi di Schengen del 1995. E’ l’Agenzia Frontex che viene delegata e pagata da noi europei per “tutelare” le frontiere e provvedere anche ai rimpatri forzati.
In questo contesto i partiti e partitini della così detta sinistra partoriscono amenità del tipo che i Cie sono illegali, come se non fossero legge dello Stato, e che violano il diritto internazionale, come se non fossero presenti anche in tutti gli altri paesi europei. Poi, ne fanno un’occasione di sola propaganda contro il centro-destra, dimenticando che sono stati istituiti dal centro-sinistra con il nome di Cpt e che anche nell’Inghilterra laburista e nella Spagna socialista, hanno lavorato e lavorano a pieno regime e con gli stessi criteri con cui operano in Italia.
Ma, l’analisi e le iniziative che la così detta sinistra e le organizzazioni collaterali portano avanti, non sono il frutto di un’errata lettura, tutt’altro. Non possono e non vogliono parlare del controllo sociale che soffoca questa società, perché, di questo controllo, sono partecipi. Infatti, effettuano il trascinamento, nei pochi momenti in cui se ne occupano, della problematica dei Cie sul solo piano dell’antirazzismo e dei risvolti umanitari. E strumentalizzano l’antirazzismo che è un tema nobile, su cui tutte/i abbiamo il dovere di impegnarci, per lavarsi la faccia e per utilizzarlo pro partito, senza toccare il tema centrale che è quello delle scelte neoliberiste, a cui concorrono, e che hanno trasformato questo paese nella fattoria orwelliana.
E il mediterraneo è un cimitero.
Ma le responsabilità del sistema economico-politico delle multinazionali e delle guerre neocoloniali non vengono mai messe in discussione, anzi, viene incentivato il razzismo nei confronti di quei popoli.
I notiziari ci descrivono numeri e tipologia dei/delle disperati/e che arrivano sulle nostre coste e ci dicono che ci sono molte donne, anche incinte e anche con bambini.
Ma qualcuna si è chiesta che fine fanno o hanno fatto? Dove vengono messe? Vengono anche loro deportate? E come? Dovremmo chiedercelo non per spirito di parte o tutela di categoria, ma perché sappiamo che le donne, oltre a tutte le vessazioni, le violenze, le umiliazioni, subiscono anche le violenze di genere e che per una che ha la forza fisica e mentale, la lucidità e il coraggio di denunciare, tantissime continuano ad essere maltrattate ed umiliate.
Però stiamo tranquille/i. Il centro-sinistra, guardate la regione toscana, non vuole i Cie solo in ogni regione, ma in ogni provincia e, come dicono i partitini della così detta sinistra “radicale”, li vogliono “umani” e con la partecipazione di quelle associazioni umanitarie che, guarda caso, gravitano intorno a questi partiti e partitini. Non esistono Cie dal volto umano, non esistono guerre “umanitarie”, non esistono torture per un buon motivo, magari con l’assistenza di medici ed esperti.
Le leggi sull’immigrazione e i Cie hanno una rilevanza che va ben oltre il campo specifico ed è per questo che le femministe ed i solidali e le solidali che se ne occupano da tanto tempo sono oggetto di una particolare attenzione repressiva.
Non è più tempo di coltivare orticelli o di ritirarsi in giardini protetti, perché spazi in cui rifugiarsi non ce ne sono più.
E’ ora che le femministe e le lesbiche armino i loro canti.

IL CORPO E’ MIO, DELLO STATO O DEL MERCATO?
RAPPRESENTAZIONI E AUTORAPPRESENTAZIONI DEL LAVORO DI CURA

Elena De Marchi/Scateniamotempeste

Le streghe non sono solo accusate di avvelenare e di uccidere, di crimini sessuali e di cospirazione, ma anche di curare e di guarire. […] Le streghe guaritrici erano spesso le uniche che prestavano assistenza alla gente del popolo, che non aveva né medici né ospedali, e viveva nella povertà e negli stenti. Particolarmente chiara era l’associazione tra strega e levatrice […] L’affermarsi della medicina come professione che richiedeva un’istruzione universitaria rese facile escludere legalmente le donne dalla sua pratica.
Barbara Ehrenreich, Deirdre English, Witches midwives and nurses. Complaints and disorders, New York nel 1973 (in R. Sarti, Streghe, serve e… storiche. Qualche spunto di riflessione su storia di genere e stregoneria, «Storicamente», 4 (2008), http:!//www.storicamente.org/05_studi_ricerche/streghe/sarti.htm)

Come è chiaro, secondo le due autrici, vi è un filo rosso fra stregoneria e la donna che cura le altre e i malati, nelle società di età moderna, per cui colei che cura è al tempo stesso fattucchiera e curatrice, racchiude in sé pertanto il disprezzo e la fiducia, contemporaneamente.
E certamente, a lungo, nella mentalità popolare, le due caratteristiche andarono a braccetto, così come, forse anche proprio per questo motivo, il lavoro di cura fu uno dei temi più cari al femminismo anni Settanta, poi divenuto fuori moda, oggi tornato prepotentemente alla ribalta da un lato a causa della diffusione del proliferarsi delle figure che lo esercitano (si veda il fenomeno “badanti”), dall’altro grazie alle ricerche sulla femminilizzazione del lavoro, strettamente connesse all’ambito della cura.

Pur consapevole della vastità del discorso, vorrei porre l’accento sulle rappresentazioni e le autorappresentazioni delle figure legate al lavoro di cura, siano esse pagate per svolgere tali attività, lavoratrici senza salario, come tutte quelle figure femminili che siamo anche noi quando ci prestiamo ad assistere qualcuno per qualsivoglia motivo non autosufficiente, in nome di legami affettivi, parentali e con dedizione pressoché (almeno apparentemente) incondizionata.
Per motivi di brevità concentrerò l’attenzione su pochi aspetti. Lo scopo è tutto politico ed è quello di sottolineare come, di colei che si dedica alla cura, la cosiddetta care-giver, la società e lo stato forniscano un’immagine del tutto distorta, funzionale al sistema, che costringe le donne stesse a nutrire un senso di colpa costante verso i datori di lavoro, gli assistiti, i familiari da curare, i familiari lontani.

Disponibile 24 su 24, una donna la cui funzione è assistere un anziano malato e non autosufficiente, e farlo con amore e totale dedizione. Far diventare l’anziano malato il centro dell’attenzione. Curare i figli altrui come i propri. In nero, “in grigio” (come emerge dalle recenti ricerche), in regola, non importa. Per qualsiasi cifra. Purché sia devota alla causa. In varie città italiane sono disponibili servizi offerti dal Comune o dalla Provincia che vi mettono in contatto con l’assistente familiare, e a volte si può scegliere anche età, provenienza, corporatura, esperienza della stessa. Sono servizi efficienti, che si auto-proclamano progressisti e che si occupano di tutelarvi step by step e di tutelare anche lei, con i pochi diritti che ha. Sono servizi domiciliari che riempiono il vuoto che lo stato ha lasciato smantellando un po’ alla volta il servizio di un welfare, la cui domanda, a causa dell’invecchiamento della popolazione, era al contrario cresciuta.

D’altro canto, si dice che le donne italiane non possano “più” assistere gli anziani, perché lavorano fuori casa, per cui è previsto inevitabilmente che, in carenza di servizi pubblici, ci siano altre donne, per lo più straniere e residenti in paesi poveri, s’intende, disposte a fare un lavoro considerato di serie B socialmente ed economicamente. Ci tengo inoltre a sottolineare che essere in nero, per le assistenti familiari extracomunitarie, significa inoltre essere clandestine, cioè, secondo lo stato, commettere un reato, cosa che le rende ancora più ricattabili, togliendo loro anche la possibilità di contrattare un salario.

Questa è la situazione attuale.

L’opinione pubblica, esattamente come per le streghe cinquecentesche, ha una doppia immagine stereotipata di queste donne, da un lato quello di figure preziosissime (perché efficienti, ricattabili e a buon mercato), dall’altro quello di profittatrici senza scrupoli, che vivono dei bisogni delle famiglie di un paese più ricco di quello di provenienza. Si fa spesso leva sul fatto che queste donne debbano essere delle vestali devote, che non possano portare amici e conoscenti in casa, che debbano essere iper-professionali (facendo corsi di aggiornamento, se in regola), che debbano a tutti i costi allacciare un legame affettivo con l’anziano, perché il lavoro di cura è un lavoro d’amore.

In questo panorama fitto di sospetto e buoni sentimenti, mi ha colpito molto l’esito di diverse ricerche, in cui le assistenti familiari assumono un volto più umano, quello di donne, spesso madri, che hanno lasciato i figli e le figlie lontane, che hanno relegato gli affetti in un cassetto, che magari vanno anche d’accordo con l’assistito/a e la sua famiglia ma che, se non fosse per denaro, mai e poi mai si sognerebbero di vivere in una casa altrui, soggette a regole spesso ottocentesche, sia per quel che riguarda gli orari da rispettare che i comportamenti da tenere. Emergono immagini di donne, che sentono la mancanza dei figli e che provano sensi di colpa, per averli lasciati con al paese con le nonne o con altri parenti. Il senso di colpa diventa in alcuni casi doppio, verso gli anziani da assistere, sempre meno estranei ma nei confronti dei quali manca lo slancio emotivo, e verso i figli, sempre più estranei. L’unica forma di salvezza risulta la solidarietà reciproca delle domeniche pomeriggio libere, passate fra connazionali. Isolate per il resto della settimana. Molto poche, le rivendicazioni politiche.

Ecco, la questione del senso di colpa, mi sembra una chiave di lettura attuale, per molte di noi,come se il “paradigma badante” fosse valido per tutte, non solo perché siamo spesso costrette a svolgere dei lavori poco garantiti, poco retribuiti, poco interessanti e frustranti, ma perché la dedizione l’insuccesso, il fallimento vengono attribuiti dalla nostra società, che millanta per ogni dove la meritocrazia, a noi stesse, che magari non svolgiamo con sufficiente amore e dedizione i nostri compiti lavorativi. Le badanti siamo noi, scollegate le une dalle altre, con una dose sottopelle di senso di colpa, di bisogni inespressi, di necessità di essere altro, incapaci di fare fronte comune, finché restiamo isolate. Ognuna con una sua rivendicazione, che non diventa mai collettiva.

Uno stato che abbatte i diritti e le libertà individuali (sempre più zone rosse, leggi repressive, controllo sociale) e una società dove la spontanea solidarietà è venuta meno, non solo non smette di ri-affidare il lavoro di cura quasi esclusivamente alle donne, come se fosse qualcosa di cui occuparsi per caratteristiche innate, come si sosteneva tanto tempo fa, ma le colpevolizza anche, rendendo intimo il senso di colpa verso gli assistiti e magari verso sé stesse e i propri affetti. E, oltre a fare ciò, applica il “paradigma badante” a tutte: efficienti, devote, serve del lavoro, disponibili 24 ore su 24, disorganizzate nella lotta, incapaci di rivendicare.

Dobbiamo per questo rifiutare l’immagine di una donna eternamente a disposizione dell’altro/a, soprattutto nei casi in cui il piano del mestiere viene mescolato a quello dell’umanità che si deve all’assistito. Dobbiamo smettere di invocare soltanto più servizi a prezzo delle altre, delle donne di serie B e capire che i meccanismi che le imprigionano per farci sentire emancipate oggi stanno imprigionando anche noi. Dobbiamo rifiutare il concetto di meritocrazia, che ogni giorno viene esaltato per creare condizioni di disparità fra sfruttate; dobbiamo liberarci dello spirito che non esiterei a definire da “crocerossina” o, peggio, da “missionaria”, per apparire più brave e attutire il nostro senso di colpa: la maestra che non ha il materiale per la scuola, lo compra con i suoi soldi; l’insegnante dedica ore gratuitamente alla scuola per gli studenti disagiati, convinta di fare del bene; l’educatrice che compra la frutta alle ragazze della comunità… Si potrebbero fare centinaia di esempi, dove vengono coinvolti il lato affettivo, la buona volontà, l’umanità, la pietà, magari anche assieme alla volontà di mantenere un posto di lavoro che, seppure per quattro soldi, ci permette di campare, dimenticando che la nostra vita dovremmo sceglierla noi e non farla scegliere ai nostri sensi di colpa e che il tempo è nostro. Non è un appello all’individualismo: la solidarietà è quella che noi decidiamo di portare avanti nei confronti delle altre aldilà degli obblighi che ci vengono imposti, è spontanea; essa è coscienza di classe, ha l’obiettivo di sostenerci le une le altre in nome di parole comuni e non di interessi corporativi; non è carità e non si deve acriticamente a tutti; ma soprattutto non è e non deve essere un modo per renderci complici del sistema.

LA LINGUA COME ISTITUZIONE
Dumbles – feminis furlanis libertaris

Breve premessa
Abbiamo recentemente ripreso a riflettere sulla lingua, ma lo abbiamo fatto da un altro punto di vista. Nei primi anni ‘90 le nostre considerazioni prendevano le mosse dalla nostra lingua-madre (il friulano), cancellata dalla lingua “nazionale” imposta, cioè dalla lingua di stato: l’italiano.
[Qui un ns scritto del 1993 http://www.ecologiasociale.org/pg/dum_lingua_remanzacco.html] Oggi, pur ritenendo quell’aspetto, (che allora configuravamo come “lingue tagliate”, minorizzate, cancellate, attraverso un inesorabile processo di colonizzazione), molto importante ed ancora degno di analisi; tentiamo invece un altro approccio, di certo non esaustivo, che ha come perno la discriminazione sessuale che è codificata nella lingua a danno soprattutto delle donne e che quindi si configura come prima violenza istituzionale, la più profonda e forse la più difficile da affrontare. Tenendo quello che sbrigativamente si usa definire “sessismo linguistico“, come obiettivo di analisi, non ci soffermiamo sulle differenze fra lingua, logos, parola, glossa, idioma, dialetto, linguaggio ecc; usiamo questi termini in modo generico e sicuramente, delle volte, forse anche improprio, ne siamo coscienti, ci teniamo ancora ad un livello poco raffinato proprio perché quanto tentiamo di fare è una prima identificazione del contesto nel quale collocare quel fastidioso segno discriminante. Questo è un work in progress che raffineremo nel corso del tempo con la riflessione nostra e con i contributi di donne che già ci hanno lavorato, per mestiere o per passione e con tutte quelle che con noi vorranno rifletterci su. ====================================================================== Intanto occorre tentare di definire, per quanto sia possibile che cos’è una lingua. Ci rimettiamo a Ferdiand De Saussure il quale dopo essersi posto la domanda: che cos’è la lingua? Risponde: “Per noi, essa non si confonde con il linguaggio; essa non ne è che una determinata parte, quantunque, è vero, essenziale. Essa è al tempo stesso un prodotto sociale della facoltà del linguaggio ed un insieme di convenzioni necessarie, adottate dal corpo sociale per consentire l’esercizio di questa facoltà negli individui (De Saussure Corso di linguistica generale, Bari Laterza 1979) E poi ancora: ….”la lingua è una convenzione…la lingua è un’istituzione sociale…” “La lingua esiste nella collettività sotto forma d’una somma di impronte depositate in ciascun cervello…” Perciò sintetizziamo brutalmente: la lingua è un’istituzione ed il cervello è la sua casa. E, potremmo dire, l’uno modifica l’altro e viceversa. “ Il cervello in generale è un sistema di super relazione. La complessità del sistema nervoso e la sua plasticità (cioè la possibilità indotta da un certo ambiente di modificarsi strutturalmente o apprendimento) indica una strategia evolutiva (unica rispetto agli altri “organi“) a bassa specializzazione con notevoli capacità di adattarsi e sopravvivere in diverse nicchie ecologiche” …. “la corteccia del cervello umano è la struttura a più alta plasticità nel mondo animale conosciuto“… [da Lingue cervello ed entropia – Franc Fari 1985 (*)] Luria così sintetizza: “La lingua (e il discorso che la utilizza) serve non soltanto come mezzo di comunicazione, ma permette anche di conservare e di trasmettere l’esperienza delle generazioni. La lingua permette di astrarre i caratteri essenziali, di generalizzarli, formando un atteggiamento categoriale verso la realtà e determinando praticamente tutti gli aspetti dell’attività cosciente. Per l’influenza della lingua che serve come fondamentale secondo sistema di segnalazione, cambia radicalmente la percezione, si formano nuovi tipi di memoria, si creano nuove forme di pensiero che assicurano i più complessi sistemi di feed.back. Il linguaggio, dapprima esteriore e poi
interiore, diventa uno dei principali fondamenti della regolazione del comportamento… (Lurija E.R. “Neuropsicologia e Neurolinguistica” Ediori Riuniti, 1974) Lepschy (http://w3.uniroma1.it/studieuropei/programmi/programmi2011/lingua-e-sessismo_Lepschy.pdf) è sinteticamente così conciso: “siamo noi ad essere parlati dalla nostra lingua, anziché essere noi a parlarla”.
Ma quella che ci è più illuminante è Judith Butler: con lei capiamo ancora di più che cos’è l’essere “costruite nel linguaggio”, in una sintesi che evoca il linguaggio (la lingua, le parole) come disegnatore di soggetti sessuati. ….Si “esiste” non solo grazie al riconoscimento che si ottiene, ma, in un senso che viene ancora prima di tutto ciò, nell’essere riconoscibili. I termini che facilitano il riconoscimento sono essi stessi convenzionali, sono gli effetti e gli strumenti di un rituale sociale che decidono, spesso attraverso l’esclusione e la violenza, le condizioni linguistiche dei soggetti che possono sopravvivere.
Il linguaggio, se può sostenere il corpo, può anche minacciarne l’esistenza…. (**)
Non è qui il luogo per riportare gli studi e le ricerche circa l’organizzazione neurale della comprensione e della decodificazione di una lingua, dell’organizzazione degli emisferi destro e sinistro ecc., tutti argomenti appassionanti di quella infinita disputa che è il “cervello sessuato” o “neurosessismo” ecc. ma passiamo subito ad individuare almeno alcuni aspetti, quelli al momento “ufficialmente” riconosciuti della codificazione della discriminazione sessuale che oggi possiamo chiamare sessismo nella lingua di stato.
Prendiamo spunto dal citato lavoro di Lepschy. Intanto l’aspetto più evidente è l’uso del maschile universale, cioè parole che si riferiscono a maschi e che vengono usate come termini generali per denotare sia uomini che donne. Una forma maschile inclusiva che comprendendo anche il femminile senza nominarlo, di fatto lo cancella dal discorso. L’aspetto discriminatorio evidente con la specifica di distinzioni circa lo stato civile che si usano per le donne (signora o signorina), ma non per gli uomini. Perciò l’individuazione della donna, prima di qualsiasi altro discorso, se sia o meno suscettibile di approccio sessuale socialmente consentito. L’uso dell’articolo “la” davanti al nome (la Fornero, per rimanere in ambito istituzionale) che per gli uomini non si usa (mai sentito il Monti), se non dentro un discorso di analisi storico-culturale (il Pascoli). Un’ulteriore aspetto del maschile universale che non ha bisogno di essere definito perché socialmente riconosciuto. I titoli professionali usati nella stessa forma maschile anche se praticati da donne. Questo è forse l’aspetto meno problematico, rispetto ad un genere grammaticale sempre accordato al maschile anche quando sono coinvolti entrambi i sessi.
Allora, se la lingua è quel sistema di organizzazione del pensiero e del comportamento che abbiamo detto, ci possiamo chiedere, che effetto ha sulla plasticità del cervello in termini di architettura delle connessioni tra neuroni. Un recente articolo a firma Maria Carnuccio apparso su Neuroscienze.net (http://www.neuroscienze.net/?p=2480)esplicita bene questa relazione:
Gli stimoli (input) ambientali che arrivano al cervello vengono distinti in positivi e negativi. Gli input positivi esterni potenziano la trasmissione di informazioni (attraverso una maggiore attività elettrica dei circuiti nervosi), realizzando gli aspetti produttivi e di crescita della plasticità neuronale sopra descritte. Gli input negativi determinano, invece, depressione o inibizione dell’attività elettrica che si traduce in modificazioni involutive della sostanza cerebrale.
La lingua italiana che non riconosce la soggettività femminile, discrimina le donne determinando, a loro danno, situazioni di disparità e relazioni di subordinazione e realizzando comportamenti di prevaricazione e di dominio. Tali comportamenti si traducono, per il cervello delle donne, in input esterni negativi i quali deprimono l’attività elettrica dei circuiti nervosi, determinando modificazioni plastiche involutive della sostanza cerebrale.
….
Il fenomeno della plasticità acquista un’importanza ancora più rilevante nelle giovani menti dove la plasticità è elevata e l’esperienza agisce in modo determinante modificando attivamente la struttura e la funzione dei circuiti nervosi e quando l’architettura delle connessioni tra aree cerebrali e le mappe di proiezione alla corteccia cerebrale vengono stabilizzate (cosa che avviene ad un certo punto dello sviluppo) con definitive e permanenti trasformazioni neurobiologiche, il ruolo delle donne è definito, programmato nei circuiti nervosi del proprio (e altrui) cervello che le imprigiona nello stereotipo culturale che le vuole subalterne, meno capaci e spesso anche ridicolizzate.
….

La lingua italiana, annullando il femminile, compromette anche il processo di formazione dell’identità di genere delle donne, il processo di formazione del sé (che si sviluppa principalmente attraverso il riconoscimento da parte degli altri), pregiudica l’autostima e inibisce lo sviluppo di una personalità autonoma.

“Il cervello è più grande del cielo” scrisse Emily Dickinson e di sicuro ha saputo trovare le sue vie di fuga all’analisi così soffocante e dal sapore biologicamente determinista di Carnuccio; cionostante, questo non significa che quanto osservato non sia vero. E qui dovremmo inserire quelle riflessioni di Henri Laborit che riteniamo ancora utilissime, il quale ci indica il linguaggio come la veste e i drappeggi della gerarchia e del dominio depositati nelle strutture cerebrali più profonde, senza la cui conoscenza e comprensione è difficile trovare la propria via di fuga… (citiamo solamente, con la speranza di riprenderlo: H. Laborit “Elogio della fuga”, Mondadori 1982)
E cosa c’è di più profondo di quello che si deposita lasciando la sua impronta nella “plasticità neuronale”, con la lingua-madre?
Ma qui la questione diventa più delicata e più complessa. Se restiamo al dato che la lingua in generale è l’espressione della società, della nicchia ecologica nella quale quella cultura è cresciuta e si è sviluppata; che dovremmo dire dei ritratti di donna nella nostra lingua storica, nel suo dato antropologico, nell’ontologia delle sue parole? Per esempio, se cerchiamo la “donna” in lingua friulana, non la troviamo, né troviamo la “moglie”, troviamo solo la femmina: le fèmine. Ferme, inchiodate al puro dato biologico, bypassato lo stato civile, la “moglie” si coniuga con “le me femine”, la mia donna, un attributo di proprietà…. Si inserisce qui, molto interessante a proposito delle lingue storiche, la ricerca che Ivan Cavicchi ha fatto a proposito dei canti contadini (non sappiamo quali, né da che lingua… ma il suo scritto propone interessanti suggestioni) dove descrive i passaggi relativi alla definizione linguistica della donna. (http://www.zeroviolenzadonne.it/index.php?option=com_content&view=article&id=18065) Così dice Cavicchi:
Studiando i canti contadini abbiamo compreso che la donna, un tempo, era considerata una specie quasi-umana costruita con un sistema di ideologie discriminanti, che definiscono specismo. Lo specismo è una forma di razzismo ontologico che fonda disuguaglianze, che non accetta il cos’è della donna ma che decide coercitivamente il “cosa deve essere” esaltando la superiorità del maschile.

Per atti successivi e consequenziali di specificazione si costruisce il significato, in “logiche che usano il linguaggio per determinare la specie imponendo delle ontologie discriminanti”.
Quanto fino a qui riportato, [e meriterebbe certo ulteriore approfondimento ….], ci catapultiamo in una prima approssimazione del che fare?
La questione del sessismo nella lingua non è certo nuova. Adriana Perrotta Rabissi, in un suo recente articolo (http://www.overleft.it/arch-con-marx/108-di-corpi-e-di- parole.html), ricorda in proposito gli studi di Alma Sabatini e Patrizia Violi della metà degli anni ottanta, quindi convegni, studi e raccomandazioni in proposito. Sicchè oggi, descrivere il sessismo nella lingua o parlare di linguaggio sessista, non è certo cosa nuova; quello che resta sempre difficile è come uscirne.
Se la lingua è quanto abbiamo accennato più sopra, è convenzione e istituzione, ma anche biologia ed evoluzione, ma anche ontologia ed identità…, davvero è sufficiente osservare le raccomandazioni che prescrivono aggiustamenti grammaticali che rendano giustizia all’ignorato genere femminile?
Oppure è questa una soluzione tipo “pari opportunità” , quella sorta di “leggi speciali” per donne, dove il doverle concepire significa che si continua ad agire a valle e non a monte … Cose che effettivamente cambiano assai poco, modificano l’apparenza ma non la sostanza. [Un’analogo della recente proposizione della revisione in chiave femminile della toponomastica, dalla quale le donne sono generalmente state escluse, salvo le sante e le madonne; anche la toponomastica è lo specchio della società che l’ha prodotta cioè del patriarcato; chiedere uno spazio di visibilità, che magari viene anche concesso, rimanendo poi peraltro sempre minorizzato, ha senso o ne ha di più sottolineare l’estraneità ad un ordine di nominazione e ripartizione del territorio riappropriandosi collettivamente di quello…? Ma lasciamo in sospeso anche questo…]
Quando, anni fa, avevamo iniziato a riflettere sulla lingua a partire dalla nostra madre-lingua, ci aveva pienamente convinte il testo di Nettle-Romaine “Voci del silenzio“, (Daniel Nettle, Suzanne Romaine “Voci del silenzio- sulle tracce delle lingue in via di estinzione, Carocci, 2000) secondo cui le lingue sono una sorta di organismi viventi spesso soffocate dal colonialismo linguistico ovvero la sovrapposizione d’autorità di una lingua di stato. Poi qui torna Butler quando parlando di Toni Morrison suggerisce che il linguaggio vive o muore come può vivere o morire una cosa viva, e che la questione della sopravvivenza è centrale per il problema del modo in cui il linguaggio viene usato.
Il linguaggio rimane vivo quando rifiuta di incapsulare o catturare gli eventi e le vite che descrive. Ma quando cerca di rendere effettiva quella cattura, esso non solo perde la propria vitalità, ma acquisisce la propria forza violenta, quella che Morrison, in tutto il suo discorso associa alla violenza di stato e alla censura.
Forse la sua riflessione è contestuale alle violente espressioni del razzismo, ma nondimeno interessante per porci la questione se vogliamo impegnare le nostre energie, i nostri sforzi nel
rendere accettabile (a noi) un linguaggio, che ci ha già incapsulate come soggetto, attenuando e rendendo meno ripugnante la violenza intrinseca di una lingua per noi nata morta in quanto nemmeno espressione reale della sua nicchia ecologica ma costruzione artificiale della borghesia di stato che aveva bisogno della lingua unitaria per estendere il suo terreno di dominazione?
Sì e No. Questo interesse verso lingua e sessimo ci è tornato qualche tempo fa quando alcuni compagni e compagne di area libertaria hanno organizzato qui in regione un’iniziativa sull’antispecismo dal titolo: “Essere liberi, esseri liberi”. Antispecista ma non antisessista in quanto l’uso del maschile universale è palese. Abbiamo sottolineato il problema ma si è visto che proprio questi/e non avevano capito assolutamente i termini della questione, quindi questo ha riproposto un vero problema di (ancora!) incosciente sessismo nel movimento. Mettiamo che dopo la nostra osservazione il titolo fosse stato cambiato in un più accettabile “Essere libere/i, esseri liberi”, sarebbe cambiato anche l’approccio? Probabilmente No. Però l’abitudine a pensare a due soggetti ed a nominarli, sicuramente aiuta, aiuta ma non risolve e, a nostro avviso, non dovrebbe essere il nostro obiettivo principale. Seguire le raccomandazioni per una lingua italiana depurata dal sessismo è soltanto richiedere l’uso di un codice corretto che sia giustamente rappresentativo della realtà in cui i soggetti sono due e non uno solo. Punto. Far emergere il soggetto dalla lingua e nella lingua, farlo vivere nel linguaggio è altra cosa ma richiede un rimescolamento degli ingredienti e delle sensibilità. Qui abbiamo provato, senza pretese, a vagliarne alcuni che riteniamo di base; la ricetta si può implementare, correggere migliorare. Questo è solo un assaggio di quello che, ci rendiamo conto, è ancora un gran minestrone, ma chissà che alla fine, con un lavoro sinergico e collettivo non ne venga fuori una ricetta appetitosa… Piacevole alla lingua… dopotutto i recettori del gusto sono lì e a noi non piace mangiare insipido…☺
Dumbles – feminis furlanis libertaris http://dumbles.noblogs.org/ Mail: dumbles@inventati.org
maggio 2012
(*) “Lingue cervello ed entropia – Le lingue come tensione e realizzazione di diversità” di Franc Fari (Franco Fabbro) è un opuscolo non pubblicato, frutto delle discussioni con l’autore, neurofisiologo nostro amico di allora. Tempo e grafica permettendo, cercheremo di renderlo fruibile sulla rete.
(**) Tutte le citazioni qui riportate sono tratte da: Judith Butler “Parole che provocano – per una politica del performativo” Raffaello Cortina editore 2010. I brani citati sono tratti dall’introduzione che si intitola La vulnerabilità linguistica. Le parole di Toni Morrison sono quelle che lei stessa ha pronunciato nel suo discorso di accettazione del premio nobel per la letteratura che le è stato assegnato nel 1993 per il romanzo “Amatissima”. Il libro della Butler è stato tradotto e stampato in Italia nel 2010 ma si tratta di un lavoro del 1997.

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