ATTI incontro nazionale separato contro la violenza maschile sulle donne “IL PERSONALE E’ POLITICO, IL SOCIALE E’ IL PRIVATO” – 2 giugno 2012 mattina – Ruoli e stereotipi di genere nella società neoliberista

PRESENTAZIONE Margherita Croce

Innanzitutto ci piacerebbe raccontarvi l’esperienza della Coordinamenta, le riflessioni e le pratiche che l’hanno nutrita. La coordinamenta nasce come spazio di confronto tra collettivi, gruppi e singole compagne femministe e lesbiche in cui intrecciare i percorsi di lotta di ogni realtà, con l’analisi teorica, il recupero della memoria storica e dei movimenti, segnatamente quello femminista. Un luogo in cui costruire discorso anche a partire dal racconto di alcuni pezzi della propria vita, per svelare la violenza e le oppressioni che abbiamo incontrato nel nostro percorso personale, più o meno consapevolmente,  e che si sono presentate mascherate, sottili, o pervasive ed eclatanti negli spazi della nostra esistenza. Ci siamo confrontate quindi sul mondo del lavoro, sulla sanità e la medicalizzazione esasperata del corpo della donna, sulle istituzioni totali e le politiche securitarie sdoganate in nome della sicurezza e della protezione delle donne italiane contro presunti aggressori stranieri… ma anche sulle relazioni affettive e familiari, sulla violenza di genere. Questo articolato viaggio all’interno di tali molteplici contraddizioni ci ha condotte ad indagare non solo gli effetti e le manifestazioni della violenza maschile sulle donne, ma le ragioni strutturali che ne sono causa.

Nell’introdurre il convegno di questi giorni ed avviare il dibattito, ci piacerebbe mettere preliminarmente a fuoco alcuni concetti, i quali hanno anche costituito il filo rosso dell’opuscolo da cui prende le mosse questo incontro. Tra questi vogliamo soprattutto affrontare il concetto di donna, di separatismo e di violenza di genere.

Il concetto e la definizione di donna non ci appartengono nella misura in cui sono strutturazioni fittizie del patriarcato, in funzione dell’asservimento e della riduzione di questa a soggettività subalterna. Donna è una categoria socialmente e culturalmente costruita, un termine tutto interno al sistema patriarcale. Intendiamo riappropriarci del termine donna attraverso la riappropriazione della categoria di oppressione a cui tale parola è legata. É  infatti l’oppressione stessa che definisce l’insieme delle oppresse. Per dirla con la Beauvoir “donne non si nasce, si diventa”.

Non ci riconosciamo a partire da presupposti identitari, men che meno dall’identità biologica, ma a partire dalla nostra capacità di riconoscere l’oppressione patriarcale in tutte le forme in cui viene declinata all’interno del sistema sociale, politico e privato.

In questa prospettiva la pratica dei momenti separati risulta indispensabile per elaborare in autonomia, riconoscere il ruolo della divisione sessuata della società e del sistema patriarcale in genere, senza preoccuparsi costantemente del confronto con chi è portatore, consapevole o meno, di valori dominanti. Separatismo inteso come momento di analisi necessario ogni qual volta ci si confronta con un tipo di oppressione interclassista e trasversale. Un spazio anche che rende possibile un percorso di liberazione che parta veramente dal privato, consapevoli che l’egemonia culturale in cui siamo immerse, con i suoi debiti corollari di metodo democratico come unica relazione conflittuale possibile, e di pacificazione sociale come orizzonte ineludibile, ha fatto si che i meccanismi e i valori della società patriarcale siano fortemente introiettati anche da noi stesse. Ambito separato in cui praticare la liberazione individuale ed elaborare pratiche conflittuali che , non rimanendo confinate ad uno spazio chiuso e vittimizzante, corrano parallele alle altre lotte che come soggetti politici portiamo avanti.

Crediamo infatti fermamente che né la lotta di genere, né quella di classe siano sufficienti da sole. Vanno invece coniugate in una visione più ampia che intrecci le oppressioni di razza, genere e classe e ne distingua i meccanismi di riproduzione all’interno del neoliberismo e del patriarcato. Informare la nostra riflessione e la nostra pratica di autodeterminazione di una critica radicale al sistema capitalistico, e alla sua versione neoliberista, risulta indifferibile per smascherare i dispositivi che favoriscono la divisione gerarchica e sessuata della società, i rapporti di subordinazione in genere e quelli di mercificazione, relegando in limiti sempre più angusti la donna in quanto soggetto subalterno, caricandola di funzioni produttive e riproduttive funzionali al profitto.

Con queste premesse la violenza di genere si definisce anche a partire dalla funzionalità che assolve nel mantenimento del sistema di potere. Per violenza di genere si intende infatti la violenza sessuale/fisica/economica/verbale/psicologica fino al femminicidio del maschio sulla femmina, ma si intende anche la violenza esercitata in senso lato dal maschio: vale a dire anche della istituzioni o dalle altre donne nella logica patriarcale. Tale logica difende e perpetua un sistema sociale nel quale il potere, l’autorità e i beni materiali sono direttamente o indirettamente concentrati nelle mani dell’uomo. Una violenza dunque che si esplica e si auto-alimenta negli stereotipi di genere, nello sfruttamento lavorativo , nelle istituzioni: dalla scuola, passando per la sanità, fino alle istituzioni totali (come i carceri, i cie).

Vogliamo che questi giorni possano costituire un momento prezioso di condivisione di consapevolezza e analisi, che arricchisca i singoli percorsi di nuove idee e pratiche, e che possa anche significare la riappropriazione di una cultura conflittuale, di cui sono portatori i movimenti  femministi e antagonisti in genere , che viene sempre più marginalizzata e criminalizzata. Riappropriazione che passa per la lotta contro i deliri securitari e il controllo sociale, contro la devastazione dei territori, la medicalizzazione, la gerarchia, l’espropriazione costante di tempi e modi di vita, contro lo sfruttamento, e in generale contro l’oppressione e la violenza di razza, genere e classe; riappropriazione che deve anche confrontarsi con  l’enorme patrimonio che abbiamo ricevuto in eredità dal pensiero e dall’azione femminista. Vorremo trovare insieme forme di autodifesa e autorganizzazione che rifiutino la logica della vittimizzazione e della delega, mettere a valore l’esperienza accumulata in anni di lotte e farci noi stesse luogo di trasmissione di tale sapere. Riscoprire ciò che fu il movimento femminista rivoluzionario e saper rideclinare i suoi principi sulle nuove forme che il potere ha assunto all’interno della società pacificata e neoliberista, che procede frammentando il processo di soggettivazione per rendere sempre più problematico il riconoscimento di classe e di genere  ed erodere spazi di autonomia e alterità. La trasmissione del sapere tra generazioni e all’interno della stessa è una grande forza, l’unica forse in grado di confrontare esperienze di lotta in ottica sincronica e diacronica, in modo da poter estrapolare elementi di continuità e invece di discontinuità tra ciò che combattevano le nostre madri e ciò che dobbiamo difendere e combattere oggi.

Partire dal privato e riconoscerne la valenza politica significa anche questo: assumere su noi stesse il patrimonio dell’esperienza e il sapere del nostro corpo, caricarci della responsabilità politica della nostra storia e della nostra consapevolezza, ed essere in grado di manifestarne la potenza.

 

LA LOTTA DELLE MADRI DEI TUNISINI DISPERSI E LA CAMPAGNA “DA UNA SPONDA ALL’ALTRA: VITE CHE CONTANO. DOVE SONO I NOSTRI FIGLI”

Le venticinqueundici di Milano

 

Come collettivo femminista Le2511 siamo nate dopo esserci ritrovate in piazza
Cadorna a Milano il 25 novembre 2009, durante una manifestazione lanciata in
occasione della giornata mondiale contro la violenza sulle donne per sostenere
la lotta di Joy e di altre ragazze nigeriane che avevano denunciato il
tentativo di stupro  da parte dell’ispettore capo del Cie di via Corelli e la
violenza sistematica che come donne migranti subivano all’interno dei Cie. Come
molte sanno quella manifestazione fu violentemente repressa dalla polizia per
la frase che compariva su uno striscione “Nei cie la polizia stupra”; per noi
fu l’inizio del nostro percorso collettivo.
Inizialmente ci siamo interrogate su che cosa rappresentano i Cie nella nostra
personale esperienza e una delle prime cose che emersa è che i Cie
rappresentano la barriera per eccellenza del modo in cui le politiche di
governo delle migrazioni dividono l’umanità: da una parte noi, che come
italiane siamo dalla parte della barriera che, lo si voglia  o no, crea
oppressione, dall’altra loro, donne e uomini migranti  che possono essere
bollati come illegali, clandestini e rinchiusi in un Cie .  Abbiamo voluto
esplorare  i nessi  fra le politiche di controllo delle migrazioni, che hanno
consentito il nascere dei Cie, e ciò che limita e ingabbia le nostre vite di
cittadine cosiddette “legali”.
Ci siamo chieste infinite volte come superare quell’innalzamento di confine
noi/loro senza rischiare di riprodurre il dispositivo di confinamento.
Nell’indagare la nostra relazione con donne migranti ci siamo rese conto di
come possa essere semplice assumere la posizione dominante della donna
occidentale, come ad esempio quando si fa della questione del velo  la
scriminante per valutare il livello di emancipazione della donna musulmana
senza riconoscere la comune oppressione che come donne ci riguarda.
Per questo, quando  l’anno scorso siamo venute a conoscenza della lotta che
stavano conducendo i  familiari dei migranti tunisini dispersi, abbiamo deciso
di “esserci”, di non distanziarci da quel dolore che costituisce, secondo noi,
un fatto del tutto politico e di una politica altra, non immaginata ma
praticata.
Come sapete, subito dopo la rivoluzione che ha portato alla caduta del regime
di Ben Ali in Tunisia, molti giovani hanno attraversato il Mediterraneo su
imbarcazioni che con un po’ di fortuna potevano approdare sull’altra sponda e
condurli perciò verso l’Europa, nell’unico modo reso possibile dalle politiche
di governo delle migrazioni, agendo così la libertà di movimento dopo la
libertà conquistata con la rivoluzione e allo stesso tempo bruciando le
distanze fra le due sponde che quelle stesse politiche hanno sempre voluto
incolmabili.
Tra di essi, molti sono arrivati, molti altri sono stati rinchiusi in Italia
in strutture detentive, altri sono stati respinti e altri sono morti in mare.
Di altri ancora, partiti su quattro diverse imbarcazioni nel corso dei mesi di
marzo, aprile e maggio 2001, non si hanno più notizie.
Le famiglie dei tunisini migranti dispersi, dopo essere state ignorate dalle
istituzioni tunisine, italiane ed europee, si sono organizzate per chiedere
alle stesse istituzioni di procedere ad un raffronto delle impronte digitali,
per sapere se e dove siano arrivati i loro figli. Da circa un anno, non passa
un giorno senza che le madri di questi ragazzi scendano in piazza, blocchino
strade, facciano presidi davanti ai ministeri tunisini o assedino l’ambasciata
italiana, per pretendere di sapere che fine abbiano fatto i loro figli.
E’ la prima volta che succede: le famiglie chiedono conto, pretendono di
sapere, vogliono i loro figli, vivi o morti e la fanno scendendo pubblicamente
in piazza contro le leggi del loro paese che, complici delle politiche di
governo delle migrazioni dell’Unione europea, prevedono un reato di
“emigrazione clandestina”, contro le politiche dell’Unione europea e gli
accordi bilaterali tra l’Italia e la Tunisia che prevedono “quote” di visti, di
ingressi regolari, così come “quote” di morti nei viaggi di tutti gli altri.
Anche se è stata una questione dibattuta e non unanime al nostro interno,
soprattutto da parte di chi, fra noi, riteneva che non fosse una lotta di donne
e che poco avesse a che fare con una pratica femminista,  abbiamo deciso di
unirci a questa lotta perchè quelle madri, col loro dolore reso pubblico, ci
suggerivano qualcosa, ponendo con estrema radicalità la domanda sulla vita dei
loro figli, chiedendone conto alle istituzioni europee, italiane e tunisine, e
denunciando le responsabilità delle loro politiche di morte e di scomparsa.
Insieme alle madri tunisine abbiamo così dato vita a uno spazio di agire
pubblico unico  caratterizzato dalla radicalità dell’obiettivo di far contare
le vite, bruciando la distanza che ci separava. La campagna Da una sponda
all’altra: vite che contano. Dove sono i nostri figli è stata lanciata
contemporaneamente in Italia e in Tunisia;  ogni presidio, ogni iniziativa
pubblica, ogni richiesta sono state fatte insieme alle madri in Tunisia e qui
in italia da noi Le2511 e da tante altre, donne italiane e tunisine,
associazioni, gruppi che hanno aderito alla campagna.
Questo approccio ci ha permesso di entrare in contatto anche con donne e
uomini con cui non avremmo mai pensato di avere relazioni perchè abbiamo
cercato di parlare un linguaggio non ideologico, caraterrizzato dalla
concretezza della domanda sulla vita dei figli che le madri continuamente
ponevano.
La radicalità dell’obiettivo di questa lotta ha determinato anche una
radicalità dell’agire, non tanto nel senso di un ostinato fronteggiamento con
le forze di polizia in occasione delle numerose iniziative pubbliche – anche se
in Tunisia le madri sono persino riuscite a mettere sotto assedio l’ambasciata
italiana –  quanto nel porre continuamente alle istituzioni la domanda sulla
vita dei figli scomparsi,  costringendo le autorità tunisine ed italiane a
trattare il caso degli scomparsi proprio mentre stanno continuando  i negoziati
per un nuovo accordo migratorio.
Siamo consapevoli che è una domanda a cui le istituzioni non possono
rispondere, perchè implicherebbe un riconoscimento delle loro responsabilità e
la necessaria constatazione che la terra è di tutte e di tutti e che la libertà
di movimento non può essere riservata solo a una parte dell’umanità , come
insieme alle madri abbiamo affermato nelle nostre iniziative.
Allo stesso tempo siamo anche ostinate a cercare con le madri i loro figli e
per questo sentiamo ora la necessità di incontrarle in Tunisia per decidere
come proseguire la lotta e come far contare le loro come le nostre vite.

IL NOSTRO RUOLO E’ FUNZIONALE AL CAPITALE

Collettivo femminista “Le Mandragore”

Fin dalla nascita alle bambine viene attribuito un ruolo che dovranno ricoprire nel corso della loro vita.
E’ in aumento la divisione e separazione netta dei ruoli, che si cerca di definire attraverso tutto quello che riguarda la sfera della crescita e dell’educazione.
Il rosa o al massimo il viola sono i colori che definiscono il sesso della bambina e quindi tutti gli oggetti che riguardano la neonata prima e la bambina in seguito sono scelti prevalentemente di questi colori. Deve essere chiaro a tutti che è una bambina. Per non parlare dell’inserimento nel vestiario infantile di oggetti e accessori femminili alla “moda” quali: scarpe con il tacco, reggiseni e tanga. E’ chiaro l’intento di spingere pesantemente verso l’omologazione. Ogni bambina dovrà desiderare e divenire una donna attraente, piacevole, “femminile” e al servizio dell’uomo dominante. I genitori e così anche le mamme sembrano avere la necessità di stabilirlo chiaramente e di mostrarlo alla società.
Così oltre ai colori e al tipo di abiti, tutta una serie di giochi diventano elementi necessari alla interiorizzazione del proprio ruolo di donne.
Basta pensare a tutta la gamma di giochi che “appartengono” alla sfera femminile: cucina, ferro e tavola da stiro, lavatrice, bambolotti da curare e accudire, gioielli, principesse etc. etc. La bambina dovrà assimilare il concetto di cura della casa, delle persone e interiorizzare quanto prima la maternità.
Altra caratteristica che investe il ruolo di donna è il suo completamento nell’uomo che la amerà. Le storie che rappresentano le donne nelle favole e poi tutto il mondo adulto oltre a ribadire la netta distinzione dei ruoli, incoraggia le bambine a vivere in attesa dell’amore (di un uomo) che darà senso alla loro vita che fino ad allora sarà mancante.
Invece di educarci all’amore per noi stesse, per la nostra autonomia, per i nostri desideri siamo continuamente sollecitate alla ricerca e soddisfazione del piacere dell’altro.
Questo fa si che le relazioni delle donne siano spesso cariche di ansie e nascondano una sfiducia in noi stesse e nelle nostre capacità e qualità. L’amore diventa quindi una ricerca affannosa di riconoscimento mentre crescere alimentando e nutrendo i nostri reali bisogni renderebbe più liberi e sereni anche i rapporti che da grandi avremo con gli altri/le altre.
Altro punto dolente è la sessualità; perché nell’intimità come nella sfera sociale alla giovane donna non è mai stata riconosciuta l’autonomia, la consapevolezza e la conoscenza di se stessa e del proprio corpo. La nostra vita a 360° è vincolata all’insegnamento e alla protezione che l’uomo esercita su di noi, da padre, marito, compagno e amico!!
E’ in atto quindi un violento sforzo per educare ad essere “donne” e questo diviene ancora più esplicito nella violenza che le donne subiscono quando si ribellano al ruolo che è stato loro imposto. Quasi come se ci fosse una violenza “preventiva” che è quella che riguarda tutta la sfera della crescita e dell’educazione che subisce una donna, e poi una violenza “repressiva” che la donna subisce se non si identifica nel ruolo che le è stato attribuito e tenta di scardinarlo.
Naturalmente quella che sembra essere il frutto di un’ossessione, che investe solamente la sfera privata, è in realtà il risultato di una strutturazione della società che per sopravvivere necessità di una netta definizione delle competenze, divisione dei compiti e conseguente gerarchizzazione.

Educate a compiacere, servire, essere accomodanti e mai conflittuali, siamo perfettamente utili al capitale, che ha fatto così di noi delle lavoratrici sfruttabili e delle “donne di casa” gentili e silenziose.
Il lavoro infatti è un ambito in cui è palese che il ruolo che ci viene imposto:
– è sempre subalterno a quello maschile: nella distribuzione tra i livelli le donne sono sempre inquadrate a livelli più bassi rispetto agli uomini e raramente ricoprono ruoli di coordinamento (per non dire posizioni dirigenziali)
– è sempre di ‘cura’: le tipologie contrattuali in cui sono maggioritarie le donne sono quelle che prevedono il servizio al cliente ad esempio i call center, perché le ‘donne sono più calme, più gentili, più disponibili’ oppure ripercorrono il lavoro di cura all’interno della famiglia ad esempio svolgendo le pulizie nei posti di lavoro.
– e comunque è tollerato nella misura in cui non confligge con il lavoro di cura della famiglia, sempre a nostro carico: quando nasce un figlio è quasi sempre la donna che chiede un contratto part-time o prende i congedi parentali, quando c’è una persona che ha bisogno di cure è quasi sempre la donna che prende la 104 per assisterla, fino ad arrivare al punto di smettere di lavorare percependo un salario per continuare a lavorare a casa gratuitamente.
Tutto ciò è supportato da dati statistici:
1- Estratti da statistiche Istat (dati 2010)
– Il 46,5% delle donne tra i 15 e i 64 anni hanno un’occupazione, contro il 67,5% degli uomini.
– Tassi più alti di occupazione femminile si rilevano al nord, con il massimo picco in Trentino-Alto Adige/Sudtirol, dove il 65% delle donne lavora, anche se in misura notevolmente inferiore agli uomini occupati, che sono l’82%. Al sud la percentuale di donne occupate si attesta intorno al 30% contro circa il 60% di occupazione maschile (in Campania lavora il 27,9% delle donne contro il 59,9% degli uomini).
– Il 29% delle donne occupate svolge un lavoro part-time, contro il 5,5% degli uomini. Il fenomeno si distribuisce in modo abbastanza uniforme tra le diverse aree, ma il lavoro part-time da parte degli uomini è più diffuso nel centro-sud dove è molto elevata l’occupazione a orario parziale di tipo involontario, peraltro in aumento sia per gli uomini che per le donne.
– Per quanto riguarda il tempo determinato le donne sono il 14,5% delle occupate, con punte di oltre il 20% degli occupati al sud, mentre gli uomini il 11,4%, sempre con una maggiore incidenza al sud fino a poco meno del 15%.
– Al Nord, dove il livello occupazionale è maggiore, le donne hanno accesso a quei tipi di lavoro che, anche se considerati ‘stabili’, non permettono un’indipendenza economica stabile perché prevedono obbligatoriamente forme di part-time (call-center, commesse, cassiere etc.).
– Al Sud, dove i livelli di disoccupazione sono generalmente più alti, le donne subiscono maggiormente la difficoltà della stabilizzazione del rapporto di lavoro, attraverso forme contrattuali precarie, come il tempo determinato.
2- In Aci (dati 2011):
– circa il 61,5% dei dipendenti è donna. Se si analizzano però le posizioni dirigenziali o organizzative le percentuali si ribaltano: in questo caso il 62,5% dei dirigenti e coordinatori è uomo.
Tra le dipendenti donne solo il 4,75% ricopre ruoli di coordinamento contro quasi il 13% degli uomini.
– Su 554 persone che hanno usufruito di congedi parentali, 427 sono donne, con una media per persona di 28 giorni per le donne contro i 16 per gli uomini (dati 2009-2011). Questo comporta un abbassamento del salario, considerando che i congedi parentali sono pagati al 30% del salario intero o non sono pagati affatto.
Alla domanda: ‘Sono state adottate misure per favorire il reinserimento del personale assente per lunghi periodi (es. maternità, congedi parentali, ecc.)’ la risposta è ‘NO’.
– Tra le persone in part-time l’86% è donna. Tra le persone in telelavoro il 77% è donna. Il caso del telelavoro è la sussunzione massima dei tempi di vita al capitale, perché si arriva al paradosso di lavorare in casa propria per il datore di lavoro, con immaginabili aggravi per le donne che in casa ci lavorano già e gratuitamente.

3- In Aci Informatica (dati 2011):
– Le donne rappresentano il 33% dei dipendenti. Tra le dipendenti l’1,7% delle donne è dirigente, contro il 9% degli uomini
– Premesso che in Aci Informatica il part-time è sempre una scelta delle lavoratrici e dei lavoratori e mai un’imposizione il 10% delle lavoratrici ha un contratto part-time, contro l’1,2 degli uomini.
– Storicamente sono sempre state più le lavoratrici che i lavoratori a prendere aspettativa facoltativa per maternità: nel 2011 3 le dipendenti e 2 i dipendenti. Nel 2010 14 a 13, nel 2009 5 a 1, nel 2008 16 a 9 (considerando che le lavoratrici hanno sempre rappresentato circa il 30% dell’intera forza lavoro).
– Differenza salariale: a parità di livello, le lavoratrici percepiscono in media 6.600 euro in meno rispetto ai colleghi uomini. Nel 2005 la differenza era di circa 3.000 euro, nel 2007 di circa 4500, nel 2009 di 5.000 euro e nel 2010 di quasi 7.000 euro. Come si vede non è un fenomeno casuale, ma cronico.
4- Da un’inchiesta Fiom del 2008 svolta su circa 100.000 tra metalmeccanici e metalmeccaniche risulta che:
– Le donne hanno più spesso degli uomini contratti di lavoro precario. Sotto i 35 anni le donne precarie sono il 20% gli uomini il 15%.
– sia le operaie che le impiegate guadagnano in media 200 euro in meno al mese rispetto agli uomini, anche quando hanno lo stesso titolo di studio, lo stesso livello di inquadramento, la stessa anzianità lavorativa, lo stesso tipo di contratto.
– sia le operaie che le impiegate sono sempre inquadrate nei livelli più bassi anche quando hanno lo stesso titolo di studio, la stessa anzianità lavorativa, lavorano nello stesso comparto.
– Circa la metà (44,7%) delle donne intervistate dedica al lavoro domestico e di cura almeno 20 ore a settimana. Circa il 31% delle operaie ogni settimana lavora 40 ore sul posto di lavoro e svolge dentro casa più di 20 ore di lavoro domestico.
Detto in altri termini, una operaia su tre lavora oltre 60 ore a settimana.

CHI SONO LE DONNE? CHI SONO GLI ANIMALI? ECONOMIE DEI CORPI E POLITICHE DEGLI AFFETTI.
Agnese Pignataro

In questo intervento esploreremo il modo in cui molte relazioni tra noi e gli animali si declinano in forme che eccedono l’interpretazione naturalizzante (così come quelle tra i sessi nella società umana), plasmando l’identità degli animali attraverso la loro collocazione in determinati spazi politico-sociali umani che li identificano come «animali». Tali spazi verranno rapidamente esaminati nei loro aspetti filosoficamente e politicamente pregnanti, il che permetterà anche di riconoscere alcune intersezioni con altre forme di oppressione, in particolare quella delle donne (senza per questo cedere alla tentazione semplicistica di rintracciare un unico meccanismo all’opera). Infine faremo qualche considerazione sulle forme di resistenza degli animali, insistendo sull’importanza degli affetti che ci legano a loro ed interrogandoci sul modo in cui l’ambivalente prossimità (utilitaria ed affettiva) con gli animali possa essere trasformata da fattore della sfera privata a tema di analisi politica.
Chi sono le donne? Chi sono gli animali? Economie dei corpi e politiche degli affetti
Di cosa parliamo e di chi parliamo quando pronunciamo le parole «donne» e «animali» nel contesto di una riflessione politica?
Se per quanto riguarda le donne, nessuno dubita del fatto che si tratti di un «chi», per gli animali la domanda stessa genera disagio: pochi sosterrebbero che gli animali sono cose, e che di essi ci si debba domandare «cosa» sono; ma pochi sono anche coloro che ne accettano l’ammissione nella sfera del «chi». Nella cultura occidentale moderna, ancora profondamente cartesiana nel separare la materia dallo spirito, ma nello stesso tempo – e non a caso – restìa ad accettare l’idea che i non umani siano delle mere «cose», gli animali occupano dunque una zona bastarda dell’essere: né cose, né persone.
Se si passa poi a considerare i contenuti del discorso politico sulle donne e di quello sugli animali, entrambi – ma più marcatamente quest’ultimo – devono fronteggiare la forte tendenza alla naturalizzazione che ancora pervade la nostra società anche nei suoi contesti più «radicali». L’idea che le donne non siano semplicemente un aggregato di esseri umani accomunati da genitali e fattezze analoghi, ma una classe, inserita in specifiche relazioni conflittuali con altre classi e coinvolta dunque in una lotta di classe, idea affermata e sviluppata dal pensiero femminista (seppure in molte e diverse declinazioni), fatica a farsi strada nella coscienza comune. Per quanto riguarda gli animali, essi sono comunemente compresi come esseri «naturali»: concetto privo di scientificità, il cui valore è unicamente retorico, volto ad evocare l’idea di una necessità (che alternativamente veste i panni della «biologia», dell’«istinto», dell’«evoluzione») alla quale gli animali sarebbero ineluttabilmente legati e che li priverebbe delle gioie dello sviluppo culturale e sociale, e delle virtù ad esso associate. Si parla degli animali come di un insieme omogeneo – le specie «non umane» contrapposte alla specie umana – senza esplorare il senso politico che comportano i nostri rapporti con alcune specie. Se si vuol prendere sul serio l’idea di una filosofia politica animalista, è necessario in primo luogo riconoscere che in questo contesto il concetto «animali» costituisce, come quello di «donne», una classe, e si determina quindi non attraverso descrizioni scientifiche (biologiche, genetiche, etologiche…) ma attraverso la collocazione di certi individui in determinati spazi politico-sociali umani che li identificano come «animali».
Concretamente, quali sono questi spazi? Una lista non esaustiva che mira a mettere in luce qualche aspetto filosoficamente e politicamente pregnante può essere la seguente:
– lo spazio dell’appropriabilità: l’«animale» è quell’essere che può diventare proprietà di qualcuno (e in alcuni casi, deve diventarlo, pena l’impossibilità di esistere tout court);
– lo spazio della negazione della biografia: l’«animale» è quell’essere che non ha diritto né a un’individualità né a una storia, ma è consegnato all’eterno presente della sua riduzione a materia prima attraverso il suo corpo e le sue funzioni riproduttive;
– lo spazio della mangiabilità: l’«animale» è quell’essere che, semplicemente, può essere mangiato; correlativamente, è quell’essere la cui vita, in virtù della sua commestibilità, può essere stroncata in modo violento senza che a tale evento venga associato un significato violento.
(Di questa «generazione» dell’«animale» attraverso l’economia della sua sottomissione si può ovviamente cogliere l’intreccio con altre forme di oppressione – quella delle donne in primis, ma anche quella degli schiavi o, perché no, quella dei folli – senza per questo cedere alla tentazione semplicistica di rintracciare un unico meccanismo all’opera, se non addirittura di eleggere il dominio sugli animali a matrice e fondamento di ogni forma di dominio, annullando ogni distinzione tecnica, storica, geografica.)
Eppure, gli animali – nel senso sopra specificato – resistono. La resistenza animale all’annientamento non consiste tanto, o non solo, nelle concrete ribellioni, fughe, o morti per inedia, di cui sono protagonisti alcuni degli animali a noi sottomessi. Gli animali resistono anche, o soprattutto, nella loro intatta ed insistente capacità di ispirare in noi – in una società che ci ha alienati da loro al massimo grado – interesse, sollecitudine nei loro confronti, desiderio di creare spazi di condivisione. Questi animali ci accompagnano dagli albori della nostra storia in modi e forme che non si limitano all’annullamento dell’animale in nome di una cieca «volontà di dominio» umana, ma racchiudono anche un senso di prossimità profondo nel comune essere al mondo, nel respirare, percepire, tessere legami affettivi con i propri simili; nell’essere infine consegnati ad un comune destino di caducità. Animali e umani formano insieme una comunità multispecifica. Inoltre, a quegli umani che sono oppressi da altri umani, gli animali ispirano solidarietà sulla base di comuni esperienze di sofferenza e costrizione (nel caso delle donne, ad esempio, la riduzione del Sé al proprio corpo organico operata dalla società, la denigrazione ontologica, la manipolazione scientifica).
Gli animali, in definitiva, contano: per loro stessi, ma anche per noi. La grande sfida intrapresa dalla filosofia politica animalista consiste nella trasformazione di questa rilevanza degli animali da percezione personale a tema di discussione collettiva. Torniamo così al ponte che lega strettamente la questione delle donne a quella degli animali: il femminismo ha mostrato la rilevanza politica di sfere «private» come la sessualità e gli affetti familiari, l’animalismo sarà capace di seguirne l’esempio, politicizzando in modo chiaro l’ambivalente prossimità (utilitaria ed affettiva) che ci lega ai nostri concittadini animali?

UN “GENERE” DI COMUNICAZIONE
Laura Carbonari

Può sembrare quasi superfluo sottolineare l’importanza che l’informazione e la comunicazione hanno nel veicolare i valori del sistema dominante, eppure credo sia fondamentale, in una giornata di approfondimento e di lotta come questa, spendere una parola sul ruolo che i media hanno avuto ed hanno tuttora nel perpetuare una cultura sessista.
Tutto il ‘progresso’ e la tecnologia degli ultimi decenni, si sono da subito rivelati mezzi utili, alle volte fondamentali, per promuovere in maniera capillare un preciso modello capitalista della donna e del suo ruolo all’interno della società: il modello della donna “mamma”, della donna “casalinga”, della donna “in carriera”, della donna “manager”, che si prestano alla perfezione alla dialettica sfruttatore-sfruttato propria del capitalismo e di cui si fanno megafono tutte quelle donne che credono che la risoluzione passi attraverso la promozione sociale. Ancora oggi si tende troppo spesso, infatti, a confondere l’emancipazione giuridica ed economica con quella sociale e culturale che è invece strettamente connessa alla lotta di classe e che non può quindi prescindere da una critica radicale della società neoliberista basata sui criteri di produttività e di mercato. Criteri, questi ultimi, che trovano nella televisione e nella pubblicità il massimo canale di promozione e consolidamento.
La televisione, imponendoci l’immagine, ci ha educati all’immagine stessa, facendo della donna un oggetto privo di contenuti, necessario soltanto a vendere o ad aumentare l’audience.
Anche quando questa è messa a servizio della comunicazione di genere, ci si limita spesso e volentieri soltanto alla censura del nudo femminile, senza affrontare una reale discussione di genere, con il buonismo borghese tipicamente utilizzato nei confronti di ogni minoranza con cui si scontra.
Aspetto ancor più grave dei mass media in genere è il vigere, negli spazi da essi occupati, della dittatura del vis grata puellae (violenza gradita alla ragazza), tipico della cultura maschilista, in cui una donna è spesso costretta a fare buon viso a cattivo gioco, assecondando molestie linguistiche e psicologiche e limitando la propria libertà sessuale. Questo tipo di condotta risulta particolarmente pericoloso in quanto tende a normalizzare e giustificare atteggiamenti violenti da parte degli uomini e si ripercuote nella colpevolizzazione delle vittime da stupro che quotidianamente ci viene propinata in forma più o meno esplicita.
C’è però da dire che negli ultimi anni si è verificato un ulteriore passo avanti nel processo di svalutazione della donna. La determinazione e la mancata accettazione della “pacificazione sociale” del movimento femminista, sono state avvertite dalle istituzioni che hanno prontamente risposto con un raffinamento della violenza di genere, che non si limita più ad essere arroganza palese ma che si traveste da emancipazione consapevole.
Ed è così che nel 2010 nasce la7d, d come donna, che propone una programmazione “al femminile” in cui la cucina sembra essere la principale preoccupazione ed occupazione; è così che nel 2011 nasce il movimento “Se non ora quando”, assolutamente interno al sistema e che appoggia ed è appoggiato dal governo stesso; ed è così che in occasione delle manifestazioni contro le discariche campane nascono le “mamme vulcaniche”, che pur portando avanti una protesta contro il sistema, rimangono perfettamente aderenti ai ruoli da questo impostogli ed anzi se ne fanno portavoce; ed è così che nel 2007 nasce la campagna “Rispetto per le donne” di Lactacyd, che sottoforma di sondaggi di genere non fa altro che promuovere e divulgare stereotipi e pregiudizi sulle donne. Utilizzando una metodica che ricorda tanto quella “del bastone e della carota”.
Il potere e chi di dovere hanno ben chiaro l’importanza della svalutazione della donna e ancor più delle sue lotte.
Informazione e comunicazione non sono però soltanto strumenti di manipolazione, ma anche di resistenza e di lettura alternativa, al servizio dei cambiamenti sociali. Ed è proprio in questo ambito che si inserisce un altro aspetto fondamentale dell’influenza esercitata dai mass media, non dipendente da ciò che viene pubblicato, ma da ciò che non viene pubblicato.
Oggigiorno sembra infatti valere nella politica come nella società tutta, il paradigma del “pubblico ergo sum”. Si esiste politicamente se si esiste mediaticamente.
Siamo per questo costrette a fare i conti con il fatto che la vittoria di questo ordinamento sociale, neoliberista e patriarcale, ha prodotto una forma di neo-analfabetismo di ritorno rispetto alla politica. E questo comporta il tentativo in atto di trascinare il femminismo in un indistinto femminile, con una riproposizione forte dei ruoli che ci viene trasmessa in maniera prepotente e insistente dai media.
E’ perciò necessario, in un mondo globalizzato che aspira al conformismo assoluto di tutte le masse, recuperare parole, categorie e rappresentazioni che appartengano al percorso di liberazione e costruire realtà autorganizzate e autonome anche nella comunicazione.

COSCIENZA ILLUSORIA DI SE’
Elisabetta Teghil

Uno dei nodi del nostro impegno come femministe è lo scardinamento dei ruoli.
Lottare solo contro l’ideologia ,la mentalità, la cultura patriarcale senza mettere in discussione i meccanismi che la producono, è insufficiente se non fuorviante.
Non trasformando i rapporti di produzione capitalistici iscritti nei processi di lavoro, questi riproducono continuamente tutti i ruoli della divisione sociale capitalistica, tutti i ruoli degli apparati politici e ideologici patriarcali.
Disoccupazione, inquinamento, controllo, lavoro sempre più monotono ,noioso, sempre più disumano…….. qualsiasi condizione ,situazione, fisica, mentale, affettiva….. trasformata in occasione di profitto, è qui il carattere propriamente tragico degli anni che viviamo.
Ma, questa condizione non si realizza a partire dall’automatismo in sé, non dipende dalle nostre possibilità o capacità, ma ha le radici dentro le condizioni sociali cioè nella natura della società e può essere dissolta soltanto dalla prassi consapevole di soggetti che intendono liberarsi.
Pertanto, la liberazione di noi tutte non è un programma per il futuro ma l’inventario del presente, l’insieme delle potenzialità incorporate nel sapere sociale.
Nell’inventario del presente bisogna scrivere la possibilità di una grande trasformazione nei rapporti di produzione e di scambio fra gli esseri umani e, questo, a dispetto di tutte le culture che danno per scontata ed inevitabile questa società, sia che lo facciano per interesse, sia che lo facciano per ignoranza, perché l’uno e l’altra non comportano innocenza.
Infatti, hanno ripudiato, oltre il materialismo storico e quello dialettico, anche la lotta di classe che è diventata monopolio dell’iper-borghesia e sono approdate al “liberalismo umanitario” che è una spietata apologia del darwinismo politico-sociale e, attraverso questo, santificano lo stato delle cose presenti.
Passando attraverso la criminalizzazione e la demonizzazione delle parole.
Una generazione, per anni, si è riconosciuta chiamandosi compagna e la parola suggellava un patto di appartenenza e solidarietà, qualche cosa ben oltre i gruppi politici e i loro programmi, qualcosa di difficilmente verbalizzabile proprio per la ricchezza della sua estensibilità.
Compagna e femminista, ancor ieri provocavano vibrazioni che penetravano fin dentro gli abissi del disagio e della solitudine che pure c’erano anche allora.
Ma, se sono le parole che fanno le cose, disfare quelle parole che sono, allo stesso tempo, categorie di rappresentazione e strumenti di mobilitazione, ha contribuito alla smobilitazione di quello che , un tempo, si chiamava femminismo.
Il potere è la guerra. La guerra, continuata con altri mezzi, è iscrivere e riscrivere le disuguaglianze economiche, etniche e di genere fin nei corpi e , da qui, la gravità di quelle che si sono arruolate nelle Istituzioni che, di questa guerra fatta alle più, sono l’esercito.
Da qui lo sdoganamento della violenza che pervade tutta la società , la recrudescenza del femminicidio in una società patriarcale che ha legittimato il razzismo da parte di chi si ritiene superiore ad un altro /a.
E’ la banalizzazione della morte , l’introduzione della pena di morte extra-legem, la distruzione di tutti gli equilibri di cui si facevano forti piccola e media borghesia, lavoratrici e lavoratori cognitivi e liberi professionisti.
E’ in questo contesto che si assiste alla riproduzione amico/a-nemico/a, costruita artificialmente attraverso il richiamo ad un gruppo sociale, di volta in volta criminalizzato, che permetta di veicolare il concetto che siamo in guerra.
E, quando si è in guerra, si usa l’esercito e il fine giustifica i mezzi.
Ma, nessuna società può tollerare questo deprezzamento del valore della vita. Il valore della vita non solo si è deprezzato, è praticamente nullo.
E’ una società in corto circuito e la pretesa avallata e ripetuta come un “mantra” dalla socialdemocrazia, che da questa società non si può uscire e non si può cambiare, non le permette di sopravvivere se non al prezzo della repressione, della forza, del sangue.
Ed è per questo che lo Stato è in guerra contro le cittadine e i cittadini e chiama continuamente alla mobilitazione ed è disposto a cooptare chi si presta a concorrere all’oppressione delle/dei più.
Si delinea, così, uno Stato che colonizza il territorio e, amministrativamente, la vita privata, l’esperienza individuale e collettiva.
Il neoliberismo non riguarda più la conquista al mercato di tutti i territori e la riduzione a merce di tutto, ma, nella sua necessità autoespansiva, vuole impossessarsi anche degli aspetti più propriamente privati (soggettivazione-sessuazione).
Il neoliberismo fagocita nell’universo mercantile tutto, il lavoro, la natura, la sostanza vivente e, pertanto, anche l’immaginario e la mente.
La donna merce è donna incarcerata tra sbarre di segni ideologici e culturali della società patriarcale e borghese, è donna che inizia ad essere programmata sin dalla nascita, facendosi riproduttrice di merce e, quindi, anche di se stessa come merce.
Ogni donna realizza, inconsapevolmente, un programma che in lei è stato introdotto.
La sua “normalità” è così il dramma sociale dell’esecuzione automatica, inconscia , della propria programmazione fabbricata per lei dal capitale, espressione attuale del patriarcato.
La donna merce è senza “coscienza per sé”, è coscienza del capitale che opera per il suo tramite. Dominio reale del capitale significa assoggettamento della coscienza individuale delle donne ai programmi di comportamento patriarcali, è il trionfo della
“coscienza illusoria di sé”, una catena che va spezzata e si può spezzare solo ponendo le proprie pratiche sociali in rapporto antagonistico con l’intera società borghese patriarcale.
Il capitalismo è metabolismo sociale e investe tutti i rapporti sociali e, pertanto, l’alienazione della coscienza sociale individuale è generale e la si recupera con la rimozione di quei rapporti sociali di produzione che l’hanno generata.
Pertanto il movimento espansivo della materia sociale è, necessariamente, connesso ad un processo sociale di accumulazione di informazione extragenetica con ciò intendendo tutta quell’informazione non riferita all’essere umano, come creatura biologica, e, cioè, non trasmessa con il patrimonio genetico/cromosomico.
L’accumulazione di informazioni è un processo essenziale e costitutivo della produzione e riproduzione sociale e, di conseguenza, anche dell’esistenza stessa
dell‘umanità.
La cultura è il processo sociale generale di questa accumulazione.
La cultura è il movimento dell’informazione ed il processo di memoria dei collettivi umani: classe, genere, etnia….
Il processo sociale di informazione è un processo semiotico e ideologico, semiotico perché si avvale di segni, è produzione/scambio di segni, ideologico perché l’informazione è un microtesto che cristallizza la dialettica vivente nei rapporti sociali che lo hanno prodotto. E’, quindi, una traduzione ideologica.
Pertanto la donna viene inserita in un programma che, poi, automaticamente, sia pure inconsciamente, ne determinerà il comportamento per l’intera durata della vita.
Quindi, nella formazione sociale borghese-patriarcale codici, funzioni e canali della comunicazione culturale sono controllati dalla classe dominante e dal maschio che ne detengono la proprietà “privata”.
Dato il controllo che la borghesia ed il maschio esercitano sui codici, sui canali di comunicazione, sulle modalità di decodificazione e interpretazione del messaggio, sulla cultura tutta, la donna si trova spesso nella condizione di essere letta e parlata dalle sue stesse parole, di essere portavoce di una realtà e di valori di cui non comprende il fine e la funzione.
Affermare il carattere storicamente contestualizzato e segnico di tutte le zone della coscienza e della cultura tutta, significa ribadirne necessariamente il carattere ideologico.
Pertanto si rivela l’inconsistenza di tutte le teorie innatiste e idealiste, non solo la cultura, ma anche l’inconscio esiste come realtà materiale nella società e nella memoria collettiva.
E’ il luogo dove quello che è rifiutato dall’ideologia dominante viene privato di parole, posto nell’impossibilità di comunicare.
E, all’ingiunzione di regole di comportamento dettate dall’ideologia vincente si accompagnano sempre precisi divieti, stigma e punizioni.
Per questo, il divieto e la paura di infrangerlo ( con relative conseguenze), soffoca il nostro presente ed il nostro futuro.
Da qui, la necessità di una pratica sociale antagonista che ha arricchito il movimento femminista nel corso della sua ormai lunga, diversificata e contradditoria esperienza nella consapevolezza che il privato è politico e che il sociale è il privato.
Di fronte all’ideologia dominante noi non scappiamo intimorite e ne lasciamo alla borghesia il monopolio, ma abbiamo la ricchezza del materialismo storico dialettico.
Strumento rivoluzionario perché consente e promuove un processo incessante di presa di coscienza delle stesse leggi di formazione della coscienza.
Il risultato è una pratica sociale trasgressiva e comunicata. Significa pratica sociale orientata al soddisfacimento dei nostri bisogni materiali, delle nostre aspirazioni, ma anche al raggiungimento della felicità e della gioia.
E’ un trasformarsi trasformando la società, è prassi politica, ma, contemporaneamente, prassi sociale. Significa guardare il presente con gli occhi del futuro.
Liberazione dal capitale e dal patriarcato significa produzione di festa e di autorealizzazione e diversa qualità del tempo e della vita.
Tempo e vita sottratti alla tirannia del plusvalore e al dominio patriarcale.
Qui acquista importanza la produzione della memoria sociale, di fronte alla pretesa del capitale di avere il monopolio della produzione e della circolazione dei meccanismi di funzionamento della memoria collettiva.
L’area della comunicazione sociale è l’area della vita sociale: come la sua espansione è misura di ricchezza, così il suo controllo, da parte della borghesia, è una forma di pauperismo culturale.
L’uso borghese patriarcale della memoria sociale produce un’informazione sempre più avvelenata che passa attraverso l’imposizione dell’oblio, la censura e la simulazione dei fatti. Accompagnata dalla selezione dei fatti stessi.
Il monopolio della lettura della memoria collettiva è una strategia di controllo sociale che passa dalla censura alla falsificazione dei segni ideologici e, per far questo, usa strumenti diversi compresa la socialdemocrazia ed il riformismo che, nelle reti della comunicazione quotidiana fanno guerra semiotica alla memoria e all’identità del movimento femminista.
Tutto ciò attraverso la produzione di falsificazioni e di segni ideologici che, mentre simulano eventi sociali reali, presenti e passati, ne propongono una “modellizzazione” menzognera.
La socialdemocrazia attua forme di dissimulazione per giungere, attraverso l’intossicazione e la manipolazione della memoria femminista, al controllo preventivo dei comportamenti potenzialmente antagonistici.
Poiché l’esperienza passata condiziona quella futura, si configura come codice dell’attività riproduttrice dei rapporti sociali. E, perciò, si capisce perché la declinazione della memoria collettiva assume una così grande importanza per la borghesia neoliberista e patriarcale. E, pertanto, concepisce il futuro come un semplice prolungamento dell’adesso.
Da qui, la necessità, per il movimento femminista, di conquistare una memoria autonoma e collettiva della lotta di liberazione delle donne.
La socialdemocrazia è incardinata sul principio di ricordare per conservare, mentre, noi femministe ricordiamo per trasformare.
La nostra memoria è, necessariamente, determinata da molteplici e contraddittorie accentuazioni.
All’interno di queste, come complesse trame su un ordito, si svolgono intrecci complicati di specifiche memorie, più o meno organizzati, più o meno frammentari, ma, il risultato finale è completamente unitario.
E’ un inno, un anelito alla nostra liberazione.
Le informazioni, la cultura, non sono affatto neutre, buone per tutti i generi, le classi, le etnie….La veicolazione della memoria collettiva, nella formazione semiotica ideologica borghese patriarcale, è esteriorizzazione di sapere che si realizza sotto il dominio del capitale.
Da qui, la necessità di rigettare i codici linguistici del potere che costituiscono la rete essenziale del controllo sociale.
Da qui, la necessità di costruire un nostro linguaggio, una nostra prassi che investa tutti gli aspetti della vita, dall’apprendimento del lavoro, dai linguaggi quotidiani, dall’eros, dalla capacità di sognare.
Finalmente potremmo avere per oggetto e scopo la nostra vita: il corpo, il piacere, le passioni, le emozioni….insomma, la realizzazione di noi come universo illimitato di desideri.
La felicità è originata dall’autorealizzazione ed è la misura della civiltà.
In breve e insieme, rivoluzione sociale e culturale, rivoluzione totale fuori e dentro di noi.

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