ATTI incontro nazionale separato contro la violenza maschile sulle donne “IL PERSONALE E’ POLITICO, IL SOCIALE E’ IL PRIVATO” – 3 giugno 2012 mattina – Autodifesa e autorganizzazione

AUTONOMIA E AUTORGANIZZAZIONE

Elena Capuano

L’autonomia è un modo di lettura della società capitalista/patriarcale, dei suoi protagonisti, del modo di distribuzione dei suoi poteri, della dinamica del suo sviluppo, che prevede la presa in carico direttamente da parte nostra dei nostri desideri e la consapevolezza della possibilità di realizzarli.
Pertanto, è una teoria di liberazione.
E’, quindi, il rifiuto della delega, non solo perchè la delega dà ad altri soggetti, al di fuori di noi, l’autorizzazione a lottare, chiedere, decidere al nostro posto, ma, soprattutto, perchè questi soggetti, non essendo noi, portano avanti, per noi, esigenze che, nella migliore delle ipotesi, credono nostre, nella peggiore e più comune, sono invece loro.
La capacità di produrre autonomia, per esempio, la classe operaia l’ha espressa compiutamente negli anni ’70, quando, in contrasto con le lotte sindacali che contrattavano più o meno orario, più o meno salario, più o meno lavoro, gli operai hanno preso in carico, appunto in autonomia, quello che era il sentire loro proprio e cioè lo sganciamento del lavoro dal rendimento e “il rifiuto del lavoro salariato”.

Non è possibile dunque delegare alle organizzazioni sindacali, ai partiti, a soggetti esterni la nostra liberazione, dato che solamente chi vive concretamente lo sfruttamento può incidere profondamente nelle lotte, e la collaborazione con le Istituzioni e le loro protesi compresi i partiti e i sindacati è controproducente e dannosa poichè così non si fa che riprodurre un modello sociale in cui c’è chi è predisposto a decidere e chi a subirne le conseguenze (con relativa definizione delle competenze e dei ruoli).
Per questo solamente la realizzazione di un’organizzazione autonoma dei soggetti sociali sfruttati può modificare il senso stesso delle relazioni umane e far si che non si riproducano forme di gerarchia e dominio.

Questa prospettiva di liberazione ci lega inevitabilmente a tutti e tutte coloro che lottano contro la società capitalistica poiché una reale liberazione non può esistere in una società che si fonda sullo sfruttamento di una classe sull’altra.
La nostra lotta deve necessariamente essere sottrazione al comando sul lavoro, nell’oppressione di genere, nelle gerarchie sociali, in un rifiuto netto del principio gerarchico in cui è incardinata questa società.

L’autonomia è un tessuto di comunicazioni e organizzazioni, ricco di lotte, informazioni, conoscenze e saperi che si oppone alla società capitalista e patriarcale e della quale è alternativa.

L’autonomia, permette la nostra crescita e il nostro arricchimento affrancate dal dominio del plusvalore, è sintesi sociale diversa e contrapposta a quella della società neoliberista patriarcale, alla società seriale che si realizza nell’universo dei ruoli.
E’ affermazione di una diversità irriducibile. E’ capacità di esprimere rottura e identità politica, di scardinare il controllo sociale che si manifesta nel dominio culturale e sociale prima ancora che in quello militare e repressivo.
E’ la riappropriazione di un tempo liberato dal lavoro salariato, dal lavoro di cura, dai ruoli, ed è coscienza e tessuto di comunicazione e organizzazione sociale.
E’ la non partecipazione alle cicliche ristrutturazioni capitalistiche e patriarcali e la capacità di allargare i propri spazi.

L’autorganizzazione è la ricerca e la messa in atto, all’interno di un insieme oppresso, di strumenti per poter realizzare i desideri espressi dall’autonomia.

Autonomia e autorganizzazione sono due entità che si rapportano dialetticamente, non c’è un prima e un dopo.

L’autorganizzazione è quindi il riconoscimento che i settori subordinati in un’organizzazione sociale di oppressione e sfruttamento, sono in grado di produrre al proprio interno gli strumenti necessari per liberarsi.
Ci sono degli elementi di base che definiscono l’autorganizzazione in un’ottica femminista, ossia che sono in grado di produrre all’interno dell’insieme di genere, oppresso dalla società patriarcale/capitalista, strumenti necessari al percorso di liberazione:
– l’orizzontalità dei processi decisionali che non ha nulla a che fare con la “teoria del consenso”, con le “decisioni a maggioranza” e con la così detta “democrazia dal basso” che fa sempre riferimento, comunque, ad un’autorità superiore, ad esempio lo Stato, a cui rimettere le decisioni prese.
– il lavoro politico per la presa di coscienza di genere che è costituito dal rapportarsi con le “donne” che costituiscono l’insieme oppresso e dall’analisi delle contraddizioni e delle oppressioni, in un rapporto dialettico tra teoria e pratica.
– la messa in comune delle esperienze e delle sperimentazioni così che la condivisione crei realmente una crescita collettiva facendo fronte alla sproporzione che nella società capitalistica c’è tra chi può accedere ad un’istruzione qualificata e alla cultura e chi non ha le possibilità materiali per sperimentare e conoscere.
– l’anti-istituzionalità perché un reale percorso di liberazione è alternativo e incompatibile con le strategie e le finalità che hanno le componenti istituzionali. Queste (partiti, partitini, sindacati, associazioni ecc..) mirano o a incentivare lo sfruttamento o tutto al più a migliorare le sproporzioni esistenti tra le classi, i generi, le etnie mentre il nostro obiettivo è l’eliminazione delle classi, dei generi ecc…
E’ evidente quindi che non esistono scorciatoie o compromessi sulle prospettive che dobbiamo darci come femministe e che deve essere sempre chiara la necessità dell’uscita dalla società patriarcale e capitalista quale obiettivo e continuo riferimento delle nostre lotte.

CONSULTORIA AUTOGESTITA

La consultoria autogestita è l’espressione di una messa in comune, di una condivisione di necessità e bisogni, e una ricerca collettiva di soluzione.

 

L’attività della consultoria, dalla sua nascita, ha avuto diverse fasi. L’idea è nata tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 da un gruppo di donne che provenivano da collettivi misti e che avevano dato origine ad un gruppo separato. L’argomento sul quale si discuteva di più era quello della salute.

Nei primi anni ’90 a Milano non mancavano le strutture: c’erano consultori con équipes numerose ed efficienti, c’era totale disponibilità a prescrivere la pillola e praticare aborti, c’erano comitati di utenti all’interno dei consultori. Il problema più sentito era quindi non una carenza di servizi, ma il fatto che le risposte che venivano fornite non erano adeguate alle nostre esigenze.

Da qui nacque un percorso molto interessante dapprima di ricerca, riflessione e sperimentazione e poi di messa in pratica per rendere usufruibile anche da altre donne le conoscenze che avevamo maturato. Mappatura dei servizi, ricerca e studio in proprio sugli anticoncezionali, discussione critica sull’aborto e sulla RU486; in tutto questo percorso non c’erano punti di riferimento né “passaggi di testimone” da poter utilizzare. L’unico riferimento è stato il consultorio autogestito AED di Bergamo.

Nel 1995 dalla discussione si è passate alla pratica con l’apertura vera e propria della consultoria come spazio dedicato all’interno dell’ambulatorio medico popolare; un’esperienza che è durata fino al 2001. Il gruppo ha continuato ad essere coeso finché c’è stata attività di ricerca e di autoformazione, mentre nel momento in cui sulla discussione ha prevalso l’attività “di sportello” probabilmente sono venute meno anche le motivazioni che facevano vivere quest’esperienza.

Lo sportello è stato chiuso, ma le persone rimaste, che portavano avanti attività nell’ambulatorio medico popolare, sono rimaste attive come riferimento per tutto quello che riguarda la salute delle donne a Milano.

 

Nel 2006 si è formato il collettivo Maistatezitte, e fra le varie attività messe in cantiere è partita la campagna ‘obiettiamo gli obiettori’, contro l’obiezione di coscienza dei medici sull’ivg.

E’ in questo contesto, nel quale ci stavamo concentrando molto sull’attività di monitoraggio dei consultori e degli ospedali milanesi rispetto all’ivg, che è rinata l’esigenza di una consultoria autogestita.

La situazione in cui ci siamo trovate alla riapertura della consultoria era molto cambiata rispetto a dieci anni prima: servizi sempre più scarsi e inadeguati, e soprattutto soglie troppo alte di accessibilità in particolare per le donne migranti, che sempre più spesso ricorrono all’uso di farmaci come il cytotec come metodo abortivo. Una situazione che ci ha convinte, una volta di più, della necessità di aprire uno spazio facilmente accessibile riservato alla salute di tutte le donne.

La consultoria non ha però voluto essere semplicemente una “toppa” alla carenza di servizi. Oltre allo sportello dove trovare informazioni e indirizzamento su ospedali e consultori, dove poter avere un consulto o effettuare una visita ginecologica, rimane centrale l’attività di “pungolamento” delle istituzioni rispetto ai temi  della salute delle donne: dall’impoverimento dei consultori alla presenza del movimento per la vita negli ospedali.

Non solo, la consultoria è anche un luogo d’incontro, di stimolo, di circolazione e scambio di idee ed esperienze diverse. Negli ultimi anni abbiamo organizzato incontri molto stimolanti e fruttuosi su diversi temi: le politiche sanitarie regionali, ed in particolare sui consultori e sui servizi di prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili, nel confronto tra realtà come quella piemontese e quella lombarda;  il papilloma virus e la campagna di vaccinazione di massa promossa dalla regione Lombardia; la medicalizzazione sempre più ad ampio raggio del corpo delle donne; ma anche la presenza delle donne all’interno delle lotte politiche e sociali.

L’aspetto forse più interessante ed arricchente per noi è stato lo scambio di esperienze e progetti tra gruppi di donne anche piuttosto diversi tra loro: dalle lavoratrici di ospedali e consultori alle esperienze di autogestione come quelle dell’AED di Bergamo passando per i collettivi femministi in lotta contro la presenza del movimento per la vita negli ospedali, le donne della Valsusa e le esperienze nei territori palestinesi.

Tra Genova, Torino, Milano ed altre città, ci è sembrato importante e prezioso coltivare le relazioni tra gruppi di donne, provando a costituire delle reti solidali, in grado di confrontarsi periodicamente sul monitoraggio del territorio, di scambiarsi progetti ed esperienze, di creare complicità e solidarietà attiva nelle campagne e nelle lotte che portiamo avanti.

Uno dei frutti di questo percorso è la recente costituzione del gruppo Re-fe, che significa proprio relazioni femministe, formato da singole e collettivi genovesi, torinesi e lombardi, all’interno del quale stiamo sperimentando pratiche e ragionamenti collettivi che affrontano, da nuove prospettive, i temi della violenza di genere, del corpo e della sessualità, del conflitto, dell’immaginario. Crediamo che in questo momento sia fondamentale costruire percorsi che tendano, attraverso pratiche di confronto e consapevolezza, al rafforzamento delle nostre potenzialità di donne.

 

È in quest’ottica che ci stiamo anche interrogando sui rischi di una delega sempre più acritica del nostro corpo e della nostra salute ai cosiddetti “esperti” e “specialisti”.

Una questione che riguarda molto il percorso della consultoria autogestita è quella della consapevolezza di sé e del proprio corpo, strettamente collegata alla non-delega ad altri del proprio benessere, della propria salute, della propria cura.

La non-delega viene spesso intesa solo in relazione al paradigma biomedico occidentale. In realtà, possiamo allargare la questione a qualsiasi medicina con cui entriamo in contatto, poiché il punto centrale della non-delega è quello dell’assunzione di un atteggiamento critico (che non significa rifiuto a prescindere) verso chiunque pretenda di essere unico “esperto”, sia esso medico, sciamano, naturopata o altro ancora. In breve, al di là di come decidiamo di curarci, è necessario ripristinare e mettere al centro una forte consapevolezza di ciò che ci fa stare bene. Una consapevolezza che viene, noi crediamo, soprattutto dal confronto con le altre donne e con le loro consapevolezze, con i loro vissuti e le loro idee di corpo e di sé. Una consapevolezza che non si ferma al ragionamento sul corpo, ma che può spingersi a valutare quali siano i costi sociali, animali ed ambientali dei sistemi medici con cui abbiamo a che fare, quale sia la “sostenibilità” della nostra salute.

Inoltre, crediamo che questo possa essere un punto di partenza valido e prontamente critico rispetto all’entusiasmo che molte donne stanno dimostrando nei confronti della cosiddetta “medicina di genere”. La medicina di genere pone, secondo le parole di chi la sponsorizza, una nuova attenzione al genere all’interno del paradigma biomedico, poiché l’appartenenza di genere (attenzione, i generi sono riportati a due: uomo e donna) determina sintomi, progressione e decorso delle patologie sostanzialmente diversi.

Questo riconoscimento può anche essere tendenzialmente corretto da un punto di vista strettamente biologico, se pensiamo che la biomedicina è stata basata sul corpo dell’uomo (eccetto per quelle malattie considerate specificamente femminili). Ma ci pone di fronte a nuovi interrogativi: di quali generi stiamo parlando? Il mancato riconoscimento di determinate sintomatologie è riconducibile solo alla mancanza di strumenti sul corpo delle donne o c’è un problema di mancanza di ascolto di quello che le donne sentono? Ripensare un paradigma medico sul corpo delle donne: laddove non siamo noi stesse a farlo, quali vantaggi (e per chi) e quali nuove forme di controllo comporterà?

UN PASSO AVANTI: DALLA PARTE DELLE DONNE CHE REAGISCONO ALLA VIOLENZA
Nicoletta Poidimani/Noinonsiamocomplici

Care compagne, mi spiace molto non poter partecipare all’incontro che avete indetto, ma purtroppo avevo già preso degli impegni in precedenza.
Accolgo con piacere la proposta di inviarvi un contributo, così come ho accolto con un sospiro di sollievo la notizia di un incontro separato di compagne sul nodo della violenza. Nell’ultimo periodo, infatti, pareva diventato d’obbligo coinvolgere anche gli uomini e/o le donne di destra, come se il separatismo delle compagne non avesse una sua storia forte, importante e più che sufficiente per affrontare il nodo della violenza femminicida e provare ad individuare insieme nuove pratiche.
Il contributo che vi invio è la rielaborazione di un mio intervento scritto per un convegno sulla violenza, cui aggiungo una proposta. Spero possa arricchire la discussione.
Un abbraccio a tutte

Sono una femminista separatista e, come tale, ritengo fondamentale dare valore alle strategie che le donne hanno elaborato insieme, negli anni, per affrontare, in totale autonomia, una questione che ci riguarda tutte, in prima persona. E ritengo, al contempo, necessario rompere una volta per tutte con due mistificazioni che fanno il gioco dei nostri nemici: i discorsi perbenisti sulla non violenza– dietro cui si cela la criminalizzazione della rabbia – e i meccanismi di delega istituzionale. Ancora c’è, infatti, chi insiste sulla necessità di denunciare penalmente la violenza patriarcale contro le donne, illudendosi che la delega ai tribunali dello Stato possa essere uno strumento efficace contro questo tipo di violenza.

Negli anni più recenti, il prevalere dell’ideologia securitaria ha alimentato un proliferare di discorsi ed approcci riduzionisti sul tema della violenza. In questo clima culturale, non si nomina più il fatto che la violenza sia monopolio dello Stato e dei suoi apparati e, d’altra parte, ogni forma di ribellione antiautoritaria viene bollata col marchio della violenza.
Dalla sua nascita, lo ripeto, lo Stato moderno detiene il monopolio legale della violenza. Questo monopolio ha come corollari la stigmatizzazione e la criminalizzazione della rabbia. La stigmatizzazione della rabbia ha una funzione preventiva, di controllo; la criminalizzazione ha, invece, funzione repressiva.
Oggi, per mantenere contemporaneamente il controllo sulla popolazione e il monopolio della violenza – mascherato dietro termini persuasivi quali “ordine” o “sicurezza” – gli apparati statali neoliberisti inducono le popolazioni a sentirsi potenziali vittime e a delegare, di conseguenza, la propria incolumità ad un’entità superiore che stabilisca anche che cosa è bene per loro. Lo Stato diventa, così, molto prossimo ad uno Stato etico, cioè arbitro assoluto del bene e del male.
Il monopolio dell’etica è, dunque, il presupposto necessario del monopolio della violenza. Nemmeno la peggior tirannia o la più sanguinaria dittatura hanno mai rinunciato a giustificare questi monopoli in nome di un valore più alto, fosse esso l’ordine divino o il bene comune.
Una delle strategie per far digerire questo duplice monopolio statale è di alimentare la paura in modo da indurre nella popolazione un bisogno di sicurezza della quale lo Stato si fa garante – l’unico garante! – come sta accadendo da oltre un decennio in Italia. Si tratta di una strategia di tipo paternalistico: ti nego la libertà per il bene tuo e dell’intera comunità.
Là dove non funziona questa persuasione, lo Stato si impone con metodi apertamente autoritari, come si è visto con la gestione securitaria dell’emergenza all’Aquila dopo il terremoto del 2009. In nome della “sicurezza”, la militarizzazione del territorio aquilano è andata di pari passo con l’infantilizzazione delle popolazioni colpite dal sisma e il divieto di qualunque forma di autorganizzazione.
Allo stesso modo, le leggi che ci infantilizzano e vittimizzano, in quanto donne, in nome della nostra “sicurezza” sono il prodotto di una cultura sessista e, a loro volta, la alimentano. Considerare le donne come “deboli” e dunque bisognose di protezione, di qualcuno che ne tuteli la “sicurezza”, oltre ad essere un dispositivo ideologico che ci infantilizza non dà forza alle donne ma a chi incarna questa protezione. Le donne vengono indebolite da questa rappresentazione, soprattutto nel momento in cui la interiorizzano.

Non dimentichiamoci, poi, che l’uso ideologico delle categorie di violenza e non violenza è funzionale al rafforzamento di questo dispositivo.
La non violenza, infatti, viene riduzionisticamente fatta coincidere con l’obbedienza alle leggi – il mantra della “legalità”, tanto ricorrente! Tante femministe “per bene” ancora cadono in questa trappola… Ma noi sappiamo che la radicalità delle lotte contro le nocività in Italia (Tav, centrali nucleari, termovalorizzatori, ecc.), poiché si tratta di lotte contro qualcosa di estremamente dannoso per la salute della collettività, non ne oscura ma, anzi, ne accentua la valenza etica.
Come si possono definire violente lotte come quella in Valsusa o quella dei contadini indiani del Kanataka che, nel 1998, estirparono e incendiarono le coltivazioni transgeniche imposte con l’inganno nelle loro terre, cantando “Cremate Monsanto” e “Stop genetic engineering”?
In tutti questi casi, vi è un abisso tra la percezione soggettiva e la rappresentazione dominante della violenza. Per gli Stati e le loro leggi si tratta senza dubbio di azioni violente, passibili di condanna penale, ma per le autrici e gli autori di questi gesti si tratta, invece, di autodifesa.
Le donne che si autorganizzano – da sole o con altre – contro la violenza maschile, senza delegare la propria difesa allo Stato e alle sue leggi, stanno autodeterminando la propria sicurezza. Così come le popolazioni della Valsusa in lotta e i contadini del Karnataka che, “cremando” le coltivazioni ogm, hanno difeso se stessi dalla dipendenza forzata dalle multinazionali dei semi e, contemporaneamente, le biodiversità delle proprie terre.
In tutti questi casi si tratta, a mio parere, di autodifesa e di autodeterminazione.

L’apparato giuridico, si sa, non è neutro, ma espressione della classe dominante, del genere dominante e del gruppo etnico dominante e, in quanto tale, ne tutela il potere, gli interessi e i profitti. E’ allora chiaro che autodeterminazione e autodifesa sono incompatibili tanto con l’apparato giuridico quanto con i processi di delega istituzionale, essendo le istituzioni espressione del dominio capitalistico e patriarcale.
Questo nodo si complessifica se all’elemento autodifesa aggiungiamo la rabbia: tanto la rabbia reattiva delle donne di fronte a soprusi e violenze, quanto la rabbia di chi non intende sacrificare il proprio rapporto con la terra e la vita agli interessi e ai profitti del capitale e delle sue multinazionali.
La rabbia è, dunque, una reazione opposta alla vittimizzazione di sé. Potremmo dire che è una reazione post-vittimista. Essa, infatti, rompe la logica implosiva e passivizzante del percepirsi come vittima e, come ci insegna Vandana Shiva, articola le categorie di sfida elaborate dai soggetti vittimizzati – le donne in primo luogo.

Questo rovesciamento di prospettiva non solo porta ad una riappropriazione dell’etica, ma mostra anche come la rabbia espressa dai movimenti sociali, così come dalle donne e dai/dalle migranti possa rappresentare una risorsa contro lo Stato-Leviatano, in quanto spinta alla trasformazione, oltre che all’autodeterminazione, in direzione di collettività aperte, in divenire e antiautoritarie. Sarebbe, quindi, ora che certe femministe “per bene” la finissero di blaterare di nonviolenza e cominciassero, invece, ad interrogarsi seriamente su quanto il loro posizionamento si riveli essere, in fondo, complice dell’autoritarismo e del monopolio statale e patriarcale della violenza e dell’etica.

Faccio riferimento alla mia esperienza personale per avvicinarmi al cuore della questione.
Anni fa sono stata chiamata da un amico, insegnante in una scuola superiore, per intervenire sul caso di una classe in cui le ragazze a turno erano letteralmente vessate da un compagno, con gravi disagi familiari, particolarmente aggressivo e molesto nei loro confronti.
Sono stati sufficienti due incontri perché queste ragazze elaborassero degli strumenti per risolvere la questione. Dapprima abbiamo ragionato molto sull’idea di libertà e di privazione della libertà che ciascuna di loro aveva, evitando di focalizzarci sul singolo caso del compagno molesto ma ampliando l’analisi alla famiglia, alla scuola, alla cerchia di amici e amiche e, soprattutto, alla loro libertà di movimento. Nell’intervallo tra i due incontri le ragazze hanno poi preparato dei disegni in cui rappresentavano se stesse libere. Li abbiamo commentati tutte insieme, cercando di cogliere quali strumenti ciascuna di loro avesse utilizzato per rappresentare la propria libertà – ad esempio, le ali – e come si potessero tradurre in strumenti quotidiani a loro disposizione. Si è poi ragionato su cosa sia concretamente la costruzione sociale della debolezza – dunque della non-libertà – femminile, come ad esempio un certo uso della voce o una certa postura, e su cosa, per contro, veicoli l’idea di forza delle donne. Per concludere ho fatto una dimostrazione di alcune facili tecniche di autodifesa per liberarsi dalle prese, invitando tutte a provarle insieme per poi riflettere sulla loro efficacia, anche psicologica.
L’esito di questo percorso è stato che le ragazze hanno creato fra di loro un legame solidale che prima non esisteva e che le ha portate a reagire collettivamente nel momento in cui il compagno ha di nuovo provato ad assumere un atteggiamento di sopraffazione. Da quel momento non si sono più manifestati episodi simili e lo stesso studente ha completamente cambiato il proprio atteggiamento in classe.

Senza entrare ulteriormente nei particolari di questo intervento, vorrei però rilevare alcuni aspetti. Un caso come questo viene, generalmente, etichettato come “bullismo”, termine assai vago e generico che porta ad agire – spesso con autoritarismo e repressione – sull’individuo accusato di essere “il bullo”, anziché sull’intero contesto in cui si manifestano i suoi comportamenti. La mia scelta è stata, invece, quella di sollecitare, attraverso l’idea di libertà, queste giovani donne a valorizzare se stesse e le proprie compagne, a rompere con la percezione indotta della propria debolezza – che è l’altra faccia della forza del “bullo” – e, soprattutto, a non delegare all’istituzione scolastica né ad altri/e adulti/e la risoluzione del loro problema, scegliendo, invece, di cercare insieme gli strumenti per affrontarlo e gestirlo collettivamente tra pari.
Il mio intervento partiva dall’assunto che la sicurezza delle donne stia in un cambiamento culturale che rompa con il paternalismo e alimenti la solidarietà e l’autonomia femminili, ne valorizzi le capacità creative e reattive. Un cambiamento che non può che partire dalle donne stesse.
Si era dovuto, però, presentare alla scuola questo mio intervento come un breve ciclo di incontri sul genere, mascherandone il reale obbiettivo. Con l’amico insegnante eravamo infatti consapevoli che, se fossero state rese note le ragioni reali della mia presenza in aula, io non sarei stata accettata dall’istituzione – che avrebbe sicuramente preferito rivolgersi ad assistenti sociali o psicologi – e lo studente “bullo” sarebbe diventato un “caso” da affrontare in maniera disciplinare, tanto più in quanto immigrato, acuendo la sua condizione di disagio.
Quando per affrontare questo genere di situazioni la scuola prende provvedimenti autoritari, nella gran parte dei casi ottiene l’effetto opposto. Da una parte incancrenisce la situazione, esasperandola, e al contempo non alimenta in alcun modo il senso di autonomia e autodeterminazione delle/degli studenti nell’affrontare le difficoltà quotidiane.

Fatte queste premesse, vengo finalmente al cuore della questione, per poi arrivare ad una proposta.
Come possiamo definire la reazione di una donna alla violenza domestica o sessuale, o ad entrambe da parte di un familiare, un conoscente, il datore di lavoro o uno sconosciuto? In sostanza, è violenza il gesto di ribellione di una donna di fronte all’ennesimo tentativo di sopraffazione maschile?
In Italia ne siamo ancora lontane, come dimostrano i dati sulle violenze contro le donne e i femminicidi, ormai di pubblico dominio anche in sede Onu. La casa e la famiglia sono il luogo meno sicuro ma, ciononostante, rimane dominante la falsa convinzione che il pericolo per le donne sia al di fuori delle mura domestiche e, soprattutto, al di fuori del contesto “etnico” di appartenenza. Tale menzogna è funzionale tanto al controllo delle “proprie” donne da parte della famiglia e dell’etnia di origine, quanto alla criminalizzazione dell’altro, lo straniero. È significativo che la violenza contro le donne venga rappresentata come “tipica” di altre culture, mentre quando un uomo italiano uccide una donna i giornali parlano immancabilmente di “raptus”. Inoltre, quando una donna uccide il marito che la massacra da anni non le viene fornita alcuna giustificazione. Anzi: la si punisce per non aver delegato allo Stato la propria difesa e la si condanna come assassina.
Collocare “altrove” le culture femminicide serve solo a rafforzare il suprematismo e il razzismo e, al contempo, ad occultare il denominatore comune delle repubbliche occidentali e di quelle islamiche: il dominio maschile. Non è superfluo ricordare che, in Italia, fino al 1981 vigeva il delitto d’onore quale attenuante in caso di omicidio di una familiare e che fino al 1996 la violenza sessuale non era considerata un delitto contro la persona ma “contro la moralità pubblica e il buon costume”. Nonostante il cambiamento sul piano legislativo, ancora oggi i processi per stupro diventano spesso processi contro chi la violenza l’ha subita più che contro chi l’ha agita. Quasi come se si trattasse di una punizione per non essere stata alle regole del gioco di una società che, sotto sotto, ancora vorrebbe le donne “tutte casa e famiglia”.
Questa realtà diventa particolarmente lampante quando lo stupratore è un uomo in divisa, quindi un uomo dello Stato – sia esso militare, poliziotto, guardia carceraria, ecc.
Rammento due casi in quanto particolarmente emblematici.
Nel 2006 un militare statunitense che si trovava presso la base Ederle a Vicenza di ritorno dall’Iraq violentò una donna nigeriana, lasciandola poi ammanettata e nuda sul ciglio della strada. In sede processuale gli vennero riconosciute, quali attenuanti, lo stress psicologico prolungato e la ridotta importanza data alla vita umana conseguenti all’anno trascorso sul fronte di guerra. In sostanza, la guerra stessa è diventata un’attenuante.
Non ho bisogno di stare a ricordare, invece, il caso di Joy. Basti dire che quel processo si è concluso con l’assoluzione piena dell’ispettore capo di polizia accusato di violenza sessuale.
Conosciamo tutte la storia, ma vorrei richiamare rapidamente le motivazioni della sentenza, esemplari in quanto specchio dell’intersezione istituzionale di sessismo e razzismo. Per motivare l’assoluzione dell’ispettore di polizia, infatti, ai togati è bastato dare più credibilità alle parole dell’accusato e confermare, in sostanza, che l’attendibilità dei testimoni si fonda su un dispositivo gerarchico di genere, razza e classe.
Nelle motivazioni Joy è stata ritenuta “soggettivamente inattendibile” proprio in quanto immigrata, nera e partecipe della rivolta nel lager di via Corelli a Milano.
Come ulteriore prova della sua inattendibilità venne perfino citato un altro ispettore capo del Cie – per altro condannato alcuni mesi prima a sette anni di reclusione per violenza sessuale, concussione e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. In una annotazione di servizio costui aveva segnalato come, durante le proteste nella sezione femminile del Centro di identificazione, proprio le nigeriane, e in particolare Joy, avessero avuto un ruolo attivo.
Eppure non c’è nulla di più coerente di una donna che si ribella alla violenza maschile così come alla violenza della detenzione in un lager, cioè alla violenza – razzista – dello Stato.
E’ significativo, invece, che recentemente anche il secondo ispettore sia stato assolto in Cassazione in base a motivazioni molto simili e cioè l’interesse che avrebbero le persone rinchiuse in un Cie nell’impedire in tutti i modi la propria espulsione.

L’esito di questo processo rende evidenti le connivenze tra apparati istituzionali nel coprire le violenze che avvengono in tali universi concentrazionari, soprattutto quando a compierle sono uomini col mandato di “tutelare la sicurezza”. Inoltre delegittima e criminalizza la rabbia di chi vi è rinchiusa/o per mesi perché sprovvista/o di un permesso di soggiorno, e conferma le gerarchie razziali e di genere.
Ma c’è dell’altro. Non si può, infatti, ignorare la strumentalizzazione della violenza contro le donne, che anche in questo caso ha trovato conferma. Basti pensare che il prolungamento della detenzione nel Cie da due a sei mesi era una delle norme inserite nel “pacchetto sicurezza” che nel 2007 gli apparati statali avevano cercato di promulgare in seguito allo stupro e all’omicidio di Giovanna Reggiani per mano di un cittadino straniero. Significativamente, nessuna di quelle norme contemplava la diminuzione delle pene per le donne che reagiscono con forza a un tentativo di violenza sessuale, sia esso ad opera di un familiare/conoscente – che è il caso più frequente – o di uno sconosciuto. Quando poi, quasi due anni più tardi, nell’agosto 2009, è entrato in vigore questo prolungamento della detenzione nei Cie e si sono moltiplicate le rivolte, l’averne preso parte ha reso inattendibile, agli occhi dei giudici, una donna che aveva denunciato una violenza sessuale.
Di fronte a tutto questo risultano ancora più ipocrite e menzognere le parole di Francesca Koch – presidente della Casa internazionale delle donne di Roma – che, commentando in un video (http://www.youtube.com/watch?v=Q4wrNy9goGo) il Rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattenimento per migranti in Italia della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato, è arrivata a parlare di “una felice congiuntura tra la mobilitazione delle giovani dei movimenti e la presa in carico delle istituzioni, per cui si è arrivati alla condanna del poliziotto” (testuale!!!). Non solo si tratta di una falsificazione gravissima, ma chi, come noi, ha partecipato davvero a questa lotta, sa perfettamente quanto le donne istituzionali abbiano volutamente ignorato questa vicenda (al punto, come dimostra Koch, di non sapere nemmeno come sia andata a finite…) e quanto, d’altra parte, le istituzioni si siano mobilitate esclusivamente in senso repressivo contro chi l’ha sostenuta.

Detto ciò, credo che come compagne sia importante cominciare a prendere una posizione netta e pubblica al fianco delle donne che reagiscono alla violenza maschile, anche quando arrivano ad ammazzare perché non ne possono più. Tutte le donne che hanno reagito si sono, finora, ritrovate incarcerate e isolate. Penso che, di fronte ad una donna che reagisce con forza contro il suo persecutore, la prima cosa da fare sia cercare di metterci in contatto con lei (ovviamente con la dovuta delicatezza, senza invadenza alcuna), offrirle tutto il nostro sostegno, presenziare alle udienze che la vedono come imputata, ecc. Ma, tutto questo ha poco senso se, al contempo, non cominciamo ad urlare con tutta la voce che abbiamo, che tutte le donne hanno diritto di reagire quando si tratta della propria vita e della propria incolumità, che non esiste un “eccesso” di difesa quando si tratta di autodifesa, che condannare come violente ed omicide queste donne è uno degli strumenti dello Stato patriarcale per tenerci tutte buone, obbedienti e sottomesse.
Credo che oggi si debba partire da qui per fare un passo avanti nella lotta contro la violenza sulle donne.

IL SEPARATISMO, FORZA, GARANZIA DI RICONOSCIMENTO, NECESSITA’ DELLA LOTTA FEMMINISTA E LESBICA
Elisabetta Teghil

Il separatismo è una pratica politica di sottrazione che permette ad un insieme oppresso di riconoscersi, di riconoscere l’oppressore e di elaborare in autonomia.
Non appartiene solamente al movimento femminista, ma a molti altri ambiti di lotta come, ad esempio, la lotta contro le discriminazioni razziste o contro quelle basate sull’etnia o sulla religione.

E’ caratterizzato da due elementi:
– appartiene ad ambiti oppressi che hanno delle componenti trasversali ed interclassiste di oppressione;
– consiste nel rifiutare ogni pratica di analisi e costruzione politica con coloro che vengono ritenuti soggetti oppressori.

Un esempio conosciuto, oltre a quello all’interno della lotta di liberazione delle donne, è il separatismo attuato dalle nere e dai neri, nelle loro lotte di liberazione negli Stati Uniti.

Per alcune il separatismo è anche scelta di vita, come nel caso di alcuni settori del movimento lesbico.

Il separatismo femminista e lesbico adotta la sottrazione dalle relazioni politiche e di analisi con i maschi, ritenendo che sia impossibile analizzare la propria oppressione insieme a chi ne è portatore. Che alcuni maschi dichiarino di essere consapevoli e di volersi sottrarre al ruolo di dominatore, nulla toglie al fatto che la società patriarcale sia strutturalmente impostata sul dominio maschile e, quindi, che sia impossibile costruire la propria analisi con chi è portatore, comunque, di strutture di dominio.
Il separatismo, allo stesso tempo, non è isolamento e autoreferenzialità, ma è costruzione autonoma, per cui percorre una strada parallela alle altre lotte di liberazione e condivide spesso percorsi di piazza e di lotta.
Esistono quindi molti modi di intendere il separatismo……..

La pratica del separatismo è molto importante perché le oppressioni che sono trasversali alle classi e ai tempi storici, se ridotte nella lotta di classe, provocano forti contraddizioni che rischiano di regalare la lotta al sistema di potere.
Un esempio: anche le donne cattoliche e/o borghesi ecc. sono oppresse, ma la configurazione ideologica in cui sono collocate impedisce loro di liberarsi dal meccanismo di oppressione e, anzi, sono le prime che lo perpetuano. L’analisi di tutto ciò in ambito separato permette di sviscerare il meccanismo e di non liquidarlo con posizioni del tipo “sono borghesi e , quindi, non ci interessano” perché immediatamente le borghesi ce lo rovescerebbero contro dicendo che la lotta di classe è parziale e inadeguata.
Che la lettura di classe, da sola ,non sia sufficiente a leggere la società, e, in particolare la specificità delle questioni di genere, non solo è condivisibile, ma è patrimonio del movimento femminista, ma allo stesso tempo è un elemento imprescindibile nell’agenda politica delle nostre lotte. Nell’analisi, quindi dell’intreccio delle oppressioni di razza, genere e classe il separatismo è una modalità estremamente importante.

Lo stesso succede anche con le lotte che hanno componenti antirazziste, perché anche il razzismo attraversa le classi.

Il Black Power è stato un esempio molto importante di separatismo nero.
I nei/e americani si sono resi/e conto che per discernere le loro oppressioni e analizzarle era necessario sviscerarle in ambito separato perché i bianchi/e, per quanto “radicals” erano sempre portatori strutturalmente delle oppressioni dell’uomo bianco.
Bastava la loro presenza in una assemblea perché si instaurassero gerarchie e difficoltà di comunicazione e di analisi.
Le Black Panthers, attraverso la lotta separata e l’autodifesa sono arrivate al marxismo, evidenziando, anche all’interno della nazione nera, le componenti di classe. Ma ,questo, se lo potevano dire solo i neri/e con i neri/e.

Anche il Black Feminism degli anni ’80 ha operato la scelta separatista nei confronti del femminismo bianco, perché le strutture dell’oppressione razziale e di classe permanevano, più o meno consapevolmente, anche nei rapporti tra femministe.

Da alcune il separatismo è visto come pratica negativa in quanto identitaria al pari dei nazionalismi e, da altre, negativa in quanto riferita ad un’identità biologica. Questa critica viene soprattutto dagli ambiti Queer.
Ma non è l’identità o l’identità biologica che identifica l’oppressione,ma l’oppressione stessa.
E’ il riconoscimento dell’oppressione che permette all’insieme delle oppresse, per esempio le donne, di riconoscersi fra simili.

Nonostante il separatismo femminista abbia degli esempi anche più lontani nel tempo, se non altro come consapevolezza della difficoltà in ambiti misti, in Italia ed in Europa è stato rivendicato fortemente negli anni ’70 con modalità estremamente diverse e in un panorama estremamente variegato che andava dal rifiuto di qualsiasi rapporto con i maschi fino alla doppia militanza attuata da alcuni gruppi di compagne.
La pratica separatista è stata anche strumentalizzata, in quegli anni dalle componenti “femministe” socialdemocratiche, propagandando l’idea del separatismo come qualcosa di avulso ed, anzi, contrario, alla lotta di classe, contribuendo, così, alla mistificante propaganda “contro tutte le ideologie” che ha portato alla deriva attuale per cui il separatismo ed il femminismo stesso sono percepiti come frenanti rispetto alle lotte di tutti gli oppressi e ai processi di liberazione perché, in definitiva, corporativi.
“Ma il separatismo non è passato di moda. Tutt’altro. Quando è stato inventato, nel 1970,quello del Movimento di liberazione delle donne (Mfl) ha scioccato l’intera società, comprese le femministe della generazione precedente. Perché il separatismo è nato da una rottura teorica che rimette in discussione le precedenti analisi sulla subordinazione delle donne: non si parla più di una “condizione femminile” di cui tutti, uomini e donne, patiremmo allo stesso modo, ma dell’oppressione delle donne.”( Christine Delphy- Ritrovare lo slancio del femminismo- Le monde diplomatique-maggio 2004)

Attualmente, ci sono forti pressioni che spingono per il “superamento” del separatismo come pratica di lotta femminista e lesbica.
L’attuale stagione neoliberista, dietro una facciata “riformista e modernizzatrice” propugna e attua, in tutti i campi, l’annullamento delle conquiste degli anni ’70 ed un ritorno agli anni ’50, con il tentativo di assopimento della conflittualità sociale attraverso appelli al buonismo, all’accordo fra le parti sociali , alla “convivenza civile”, panacea dei conflitti di genere e di classe, appelli peraltro sempre e solo rivolti alle oppresse e agli oppressi.
Gli oppressi/e non sono più presentati/e con una loro caratterizzazione costituita dalla collocazione lavorativa e sociale, ma come un indistinto , spesso fatto percepire come criminale e fuori dalle regole.
La conflittualità nel mondo del lavoro, secondo questa impostazione, dovrebbe trovare la composizione in un vicendevole riconoscimento della naturalità e ineluttabilità dei ruoli e delle parti, e nella necessità di uno sforzo comune per il “bene del paese”.
La conflittualità sociale dovrebbe trovare uno sbocco “costruttivo” nel “confronto democratico” dove i dissidenti e le dissidenti, le valsusine e i valsusini, le refrattarie e i refrattari ,a qualsiasi titolo, nei riguardi di questa società, dovrebbero convincersi dei loro errori e rimettersi nelle mani dello Stato che decide “eticamente” e “per il bene di tutte e tutti.”.

In questo progetto si inserisce il tentativo di trascinamento dal femminismo al femminile e di riduzione della lotta delle donne ad una generica conflittualità tra i sessi, facendo dimenticare completamente la natura strutturale dell’oppressione di genere e della violenza dei maschi sulle donne, conflittualità che dovrebbe essere risolta ,secondo la visione riformista/neoliberista, attraverso un sereno e collaborativo confronto tra maschi e femmine in cui ognuna delle parti dovrebbe portare le proprie ragioni e insieme si dovrebbero risolvere i contrasti, con buona pace della famiglia.
E’ questo il senso delle iniziative femminili socialdemocratiche e riformiste. La donna a cui si rivolgono, viene descritta come casa e cura, madre, moglie, figlia, con la tessera di qualche partito, non importa quale, sindacalista, imprenditrice, volontaria, che sa mediare il lavoro di cura e il lavoro all’esterno. Vengono assolutamente annullate le differenze politiche e i ruoli nella società e, a cascata, si auspica e si attua il superamento della discriminante antifascista.
Si danno per scontate questa società, “civile ed accogliente”, la famiglia, e si fa appello ad una moralità che tutte ci dovrebbe unire all’insegna della nazione-patria.
Vengono completamente cassati anni di lotte e di repressione e dimenticata una struttura sociale basata sullo sfruttamento, sull’ingiustizia ,sulla disperazione della stragrande maggioranza della gente e, in particolare, delle donne.
Repubblichine e partigiane, donne borghesi indifferenti a tutto e forti dei loro privilegi e donne sfruttate e avvilite, donne in carriera che licenziano e donne licenziate, vengono tutte accomunate , in un ruolo indistintamente femminile, e dovrebbero tutte concorrere alla costruzione di questa società.
E’ la riproposizione di dio /patria/famiglia.
E assertore di questa impostazione non è il centro-destra, che pure ribadisce continuamente, secondo i suoi principi, il ruolo subalterno e di servizio della donna in questa società, bensì il centro-sinistra, i riformisti e socialdemocratici ,che sono i maggiori sponsor dei principi neoliberisti.
Da qui il proliferare di associazioni femminili che trattano le donne come le popolazioni del terzo mondo. Come le Ong non mettono in discussione le guerre neocoloniali e l’oppressione dei popoli indigeni, così queste associazioni perpetuano il ruolo subalterno delle donne in cambio di finanziamenti e promozioni individuali. E l’ultima stagione di questa deriva sono le lodi al governo Monti.
E’ in questo contesto che, quelle stesse componenti socialdemocratiche che, negli anni ’70, hanno usato il separatismo per snaturare e stravolgere la dimensione di classe della lotta di genere, oggi, chiedono, a gran voce, il superamento del separatismo nella lotta delle donne.
Quella volta, obtorto collo, dovendo fare i conti con il movimento femminista, hanno usato il separatismo per appropriarsene e togliere ogni valenza di classe, oggi, nella stagione neoliberista, arrivano all’impudenza di chiedere il superamento del femminismo, perché, dietro la parola “superamento del separatismo”, questo c’è.

Ma , il separatismo, è uno strumento, è una necessità di tutte/i coloro che portano avanti una lotta contro le oppressioni che hanno delle componenti trasversali, come lo è stato per il Black Panther Party, perché è una difesa, una zona franca, una garanzia di riconoscimento, una forza.
Soltanto in ambito separato è possibile sviscerare ,comprendere , razionalizzare le contraddizioni che la lotta femminista e lesbica si trova a dover affrontare nell’intreccio delle oppressioni di genere/razza /classe.
Contemporaneamente ,siamo consapevoli della necessità di collegarci con le altre realtà che lottano contro le oppressioni che esprime questa configurazione sociale, perché non esistono percorsi di liberazione che siano corporativi.
Per questo, oggi come non mai, è necessario salvaguardare e difendere il separatismo, creare e difendere spazi separati e autorganizzati.
Come, nella società, non è sufficiente, per scardinarne la struttura, l’endemico conflitto capitale/lavoro, ma è necessaria la presa di coscienza di classe, così la lotta di liberazione delle donne passa, necessariamente, attraverso la presa di coscienza di genere.
Il separatismo, oggi, è la dimensione di classe della lotta femminista e lesbica.

Questa voce è stata pubblicata in ATTI/"Il personale è politico, il sociale è il privato", Comunicati, Incontri Nazionali, Iniziative ed Eventi, Violenza di genere e contrassegnata con , . Contrassegna il permalink.