Una bella conversazione/ Silvia De Bernardinis e Barbara Balzerani

È uscito da poche settimane il libro che ho curato Brigate rosse: un diario politico per DeriveApprodi. Chi lo leggerà si troverà di fronte a un testo, se non distante, sicuramente differente dalle ricostruzioni storiche fatte dagli storici. È un’analisi densa, complessa e non facilmente sintetizzabile se non per linee generali, con una costruzione del testo metodologicamente molto chiara che analizza pezzo per pezzo la storia brigatista: parte dal contesto politico, prende in esame partiti politici, movimento di classe, sinistra rivoluzionaria, guerriglia e antiguerriglia, proposta politico-strategica delle Br e verifica alla prova dei fatti. Una ricostruzione a 360 gradi che è storia delle Br e storia dell’Italia degli anni 70, al di là delle intenzioni degli autori. Più che farti domande ti propongo alcuni temi di carattere generale che emergono dal testo su cui può essere utile spendere qualche parola.
Diciamo prima di tutto che i compagni protagonisti del confronto, delle discussioni da cui ha origine il documento che DeriveApprodi ha deciso di pubblicare, sono stati tra quelli con cui hai condiviso sia la fase iniziale della tua esperienza nelle Br, nella colonna romana, sia il periodo successivo, quando ti sei ritrovata a gestire in un ruolo dirigente l’eredità brigatista e la parte finale della sua storia, per usare le tue parole, a cercare di «tradurre in pratica politica e organizzativa quel controverso bilancio». Fa eccezione Carlo Picchiura che hai conosciuto dopo il tuo arresto, nel 1985, durante i processi, uno dei pochi che dal carcere aveva aderito alle Br-Pcc dopo la spaccatura. Si tratta dei compagni politicamente più vicini e di discussioni che hai vissuto direttamente.
Si, ed è difficile parlarne ora che Piero, Gigi, Salvo e Picchio non ci sono più. Mancanze, tra le altre, che hanno reso ancora più vuoti questi anni così difficili da vivere. I legami nelle Br non sono mai stati familistici visto il prevalere su tutto della buona salute dell’Organizzazione e la precarietà della nostra vita a piede libero, ma è indubbio che il sentire i compagni un bene prezioso di cui godere e da preservare, dava forza anche nelle condizioni più dure e compensava la provvisorietà del domani di ciascuno di noi. La fiducia incondizionata è una reciprocità di sguardo che non sempre la politica concede ma che pareggia i conti con le proprie paure e incertezze quando si ha la fortuna di viverla. Cercare di essere all’altezza dell’altro insegna a superare la competizione e i protagonismi. Credo renda migliori.
Questa pubblicazione rende giustizia a una realtà misconosciuta che poco appare nella storia delle Br. Infatti nella vulgata con cui è raccontata emergono pochissimi nomi in confronto ai tanti militanti che l’hanno attraversata e alla loro qualità. Anche questo concorre alla distorsione del suo patrimonio politico e del senso stesso dell’agire in un’organizzazione di comunisti. Come se non fosse un prodotto collettivo in cui ciascuno, per come sa e può, è essenziale a comporre il tutto ma la raffigurazione elitaria di qualche testa pensante nell’insignificanza di tanti anonimi e invisibili, senza nome, faccia e identità. E questo riguarda anche i compagni che hanno lavorato a vario titolo a questo testo dal carcere e che sono stati tra i pochi che ho avuto accanto negli ultimi difficilissimi anni di militanza. La spaccatura di cui parli, quella col Partito della guerriglia, non è stata la sola ma certamente la più devastante sia per l’inconciliabilità dell’analisi, delle tesi politiche e delle pratiche, sia per l’adesione massiccia dei nostri compagni in carcere. Cosa di non poco conto in quel periodo di scarse certezze. Per questo il testo che hai curato è ancora più prezioso, spiragli di luce nella opacità del presente per chi era rimasto fuori a resistere che, purtroppo, sono caduti nel vuoto (forse per un malinteso rigetto di ogni contributo proveniente dal carcere?) e un rimedio di senso nel dilagare di follia che sembrava imperversare tra i seguaci del partito della guerra civile in atto. Una mano tesa nella navigazione rovinosa della nostra crisi politica e del perfezionamento scissionista dei prigionieri del «nucleo storico». Le riflessioni di cui tratta il testo sono quelle che hanno impegnato i compagni prigionieri rimasti nelle Br-Pcc che non potevano che andare all’origine di una storia per poterne valutare i punti di criticità, gli errori, la necessità di adeguare l’analisi e la pratica alle nuove condizioni. Fino all’interrogarsi sulla percorribilità stessa del terreno di lotta per come l’avevamo sempre inteso, in cui l’azione armata costituiva la esemplificazione, il condensato di un programma politico reso possibile dai contenuti presenti nelle punte più avanzate del movimento rivoluzionario di quegli anni e necessario per continuare ad avanzare.
Di quelle lotte interpretavamo l’insito contenuto rivoluzionario, di potere, traducendolo in una strategia politico-militare di guerra di lunga durata. Niente a che vedere con il sindacalismo o i bracci armati dei movimenti, niente con l’insurrezionalismo. Tutte concezioni queste che caratterizzavano molta parte delle altre organizzazioni rivoluzionarie e che verranno riproposte dai diversi spezzoni in cui si è frantumata l’Organizzazione. Si è trattato di uno scontro di idee portato avanti attraverso un intenso lavoro politico all’interno dei movimenti. Questo può spiegare anche la adesione alle Br di molti compagni che avevano animato il movimento del ’77 con la sua radicalità di contenuti, disperso dai carrarmati di Cossiga e la sua impossibilità di tenuta attraverso scontri armati di piazza. Continua a leggere





<Nel linguaggio mediatico viene ormai celebrato come “rivoluzione” pressoché qualunque fatto politico, dal riformismo più modesto fino a moti di vera e propria conservazione. Il grande rimosso è invece il senso di rivoluzione che ha gettato le basi per i grandi cambiamenti della modernità, ma che assume per la sensibilità odiernale tinte scure di un evento sanguinario, irrazionale e arbitrario. Occorre dunque tornare a ragionare sul significato e gli effetti delle grandi rivoluzioni del passato, cercando di riconoscerne modalità, successi e fallimenti, per porre infine la questione se il concetto di rivoluzione sia davvero così inattuale e inopportuno per la politica del presente.>
Di seguito uno stralcio: […]Assertività femminista











