8/12 Manifestazione NOTAV
Ritrovo dalle 12 a Susa – Ponte Briancon – Statale 24
Leggi l’appello:
8/12, marcia Susa -Venaus. Perchè liberare tutt* vuol dire lottare ancora!

8/12 Manifestazione NOTAV
Ritrovo dalle 12 a Susa – Ponte Briancon – Statale 24
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… e adesso s’è rivà el momento de dirghe basta e de cambià… Giudeca, canzone di Alberto D’Amico,1973

Ho passato a Venezia una parte di tutte le estati della mia vita fino a vent’anni. Poi i tamburi di rivolta sono stati coinvolgenti e totalizzanti e non c’è più stato spazio neanche per Venezia. Mi è rimasto per sempre stampato nelle mie sensazioni l’odore dell’acqua salsa dei canali, il rumore delle onde leggere che sbattono sulle rive, il risuonare dei passi, nella calli lontane dal turismo, della vita quotidiana di una città che va sempre a piedi. Ora, quando, per qualche motivo, ci torno mi ritrovo a camminare inconsapevolmente con piede leggero quasi a non volere pesarci su. Da anni ormai, Venezia è sommersa dall’acqua alta in maniera più violenta e continuativa che mai, la sua laguna è percorsa da navi da crociera più alte del campanile di San Marco per non parlare delle petroliere che vanno e vengono da Marghera, è invasa da masse debordanti di turisti. Ma al di là delle belle parole, delle frasi fatte e delle vesti stracciate, di Venezia non gliene importa niente a nessuno. Non importa niente ai politici locali e nazionali perché altrimenti in tutti questi anni avrebbero fatto ben altre leggi e preso ben altri provvedimenti, non importa ai turisti che si riversano in ondate, questa volta umane, incontenibili e che, se fossero coscienti di quello che fanno, a Venezia non ci dovrebbero venire, non gliene importa niente neanche alla maggior parte dei veneziani perché <fin che ghe semo noi, no che non va zò>. D’altra parte il capitalismo è un modello economico basato sul profitto e nella sua attuale fase neoliberista, caratterizzata da un delirio di onnipotenza, tutto è merce, il turismo è merce, le navi da crociera sono merce, il Mo.s.e. è business, Venezia è merce, è una gallina dalle uova d’oro e le faranno fare le uova d’oro finché non stramazzerà per terra. Continua a leggere
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
“Mi uccidete ogni giorno, Quando mi dite il come si fa, il come si è.
Mi uccidete ogni giorno, Quando mi volete a forma di madre, di moglie, di brava figlia, di buona donna. Quando ogni parte del mio corpo è in un campionario, alla stregua di una pezza.
Mi uccidete ogni giorno, Quando io vi parlo e voi mi interrompete per dirmi “come sei bella”. Quando difendo una mia idea e voi mi dite “che caratterino”. Quando penso di essere una persona e voi mi dite che sono solo una donna.
Mi uccidete ogni giorno, quando mi fate sentire insufficiente, sempre disperatamente distante da un modello la cui violenza risiede al contempo nella sua imposizione e nella sua irraggiungibilità.
Mi uccidete ogni giorno quando mi volete un po’ mulo, un po’ gazzella.
Voi mi uccidete ogni giorno, quando vi piacciono di più i culi delle tette, di più le tette dei culi, quando fate a pezzi la mia integrità. Quando non considerate me come persona, ma come ruolo, funzione. Sempre e solo a vostra disposizione, e per vostro piacere.
Quando ciò che sento non è vero se non è funzionale alla vostra idea di come devo vivere e sentire. Non è vero, ti sbagli, era solo una lusinga, esagerata, isterica, hai le cose tue, scopa di più. Non ti si può dire niente.
Mi uccidete ogni giorno.
Quando ridete ad ogni mio tentativo di liberazione, quando sminuite la mia frustrazione, perché voglio vivere tra pari e non per gentile concessione, o grazie alla vostra protezione.
Mi uccidete ogni giorno, quando mi dite che devo essere favolosa, mentre io voglio solo essere libera. Libera.
Mi uccidete ogni giorno, sorelle, quando vi sforzate di essere a forma di come ci vogliono loro. E la chiamate decostruzione, autodeterminazione, ma a me sembra più una ristrutturazione, una restaurazione.
Mi uccidete ogni giorno, quando rafforzate il modello che mi opprime, lo corteggiate, pretendete di padroneggiarlo. Ma non si padroneggia il padrone. Il padrone si uccide. Si fa carne macinata, del padrone.
Mi uccidete ogni giorno, ed io non è che non voglia morire. Ma non ogni giorno.”
Una donna

La responsabilità degli stupri, delle torture e degli assassinii di tante e tanti in Cile in questi giorni di sollevazione popolare non è soltanto degli assassini che li eseguono materialmente, ma anche di tutte e tutti quelli che in quello sfortunato paese e anche qui da noi sono fautori, supportano, sponsorizzano, sostengono le politiche neoliberiste. Ed è inutile che si nascondano dietro ipocriti condanne e pelosi cordogli. Le loro mani sono sporche di sangue.



di CanaglieCatanesi Collettiva femminista
https://www.facebook.com/canagliecatanesi/
Il progetto artistico-musicale della “diva” Myss Keta, alla faccia dell’autodeterminazione, nasce nel 2013 da un’idea di tre uomini: un producer, un regista e un grafico del collettivo milanese Motel Forlanini. L’artista, ex-CEO (Amministratrice Delegata) della Rovagnati Salumi S.p.A., ha pubblicato il suo ultimo album con l’etichetta major Universal e il suo libro con la Rizzoli, casa editrice del Gruppo Mondadori. Emersa dal mondo del clubbing milanese, Myss Keta si dichiara nostalgica del periodo yuppie. Il suo modello è la Milano da bere degli anni ’80 in cui giovani professionisti rampanti celebravano il tripudio dell’economia capitalistica. Strizzando l’occhio ai lettori, la performer scrive: “Rivoglio l’Avvocato Agnelli!”
Presentando l’uscita dell’album di Myss Keta, “Paprika”, la testata online Rockol.it titolava: “Mortadella femminista”. La “vocalist”, infatti, ha lanciato il suo nuovo album presso la gastronomia “Il Principe” di Corso Venezia a Milano, dove il 29 marzo 2019 i giornalisti sono stati accolti da panini alla mortadella e da una mortadella gigante, come quella che lei cavalca sulla copertina del cd. Una trasgressione da brivido. Si tratta di una citazione divertita – ironia e cinismo sono la cifra stilistica (con creanza parlando) di Myss Keta – del film “Bambola” (1996) con Valeria Marini, così come il titolo dell’album, “Paprika”, si rifà all’omonimo film di Tinto Brass (1991). Queste le trasgressioni “pazzeske” (come le “cagate” di fantozziana memoria?) che per i giornalisti musicali – e non solo per loro – renderebbero “femminista” Myss Keta.
Riesumando l’associazione erotica salume=pene, Myss Keta dichiara, in un’intervista rilasciata alla trasgressiva rivista Vanity Fair, che la mortadella “ormai se la porta ovunque”: “ho deciso di cavalcarla. Perché sai… si cavalca la vita, ma anche le mortadelle”. Sempre con ironia, oltre che le mortadelle, Myss Keta cavalca di recente anche il femminismo, pronunciando occasionalmente la parola “patriarcato”. D’altra parte, la performer si vanta di un “grande fiuto per gli affari” e delle proprie “geniali mosse di marketing” (Cit. Una donna che conta, Rizzoli 2018). Sarà quindi stata grata al movimento Non Una Di Meno che le ha offerto l’opportunità di allargare la sua audience, quando l’ha scelta come testimonial per l’appello alla manifestazione del 23 novembre a Roma contro la violenza maschile sulle donne.
Bastano pochi minuti su internet per farsi un’idea dei contenuti veicolati da questa “regina della trasgressione” (bigotti, tremate!), che ironizza tanto sulla carne insaccata quanto su quella femminile oggettificata per lo sguardo maschile. I suoi ammiccamenti verso Grandi Maestri come Salvador Dalì, Andy Warhol e Tinto Brass, di cui dice scherzosamente di essere stata la musa, sono un esempio della sua graffiante ironia. Se non si coglie il sagace umorismo, magari perché si è bigotte, o semplicemente femministe, ci sarà sempre qualcuno pronto a esclamare: “E fattela una risata!”
Il paradosso politico di un movimento che promuove la lotta contro la violenza maschile sulle donne accreditando Myss Keta come propria testimonial dovrebbe essere evidente ma, da quando l’antifemminismo ha stabilito che la linea vincente è travestirsi da femminismo, è facile confondere le acque. Qui ci limitiamo a rilevare, da feminist killjoys, alcune contraddizioni macroscopiche: 1) Myss Keta dichiara di avere “un forte legame” con Fabri Fibra (che lei “ama”), lo stesso rapper la cui violenta misoginia è stata denunciata sul blog nazionale di Non Una Di Meno nel dicembre 2018 (articolo di Wissal Houbabi) 2) Myss Keta si fa fotografare con mortadelle finte tra le cosce e mortadelle vere in mano, in salumeria: un “tavolo” di Nudm intenderebbe parlare anche di violenza su corpi di animali non umani e di disastro ecologico (quello causato per es. dagli allevamenti intensivi della carne) 3) una hit di Myss Keta si intitola “Burka di Gucci”; nel video di un altro suo pezzo compaiono ballerine che indossano burqa colorati; nella canzone “Pazzeska” ricorre una melodia orientaleggiante a effetto soft porno, e così via. Nudm ha sempre sostenuto di condannare l’immaginario razzista e colonialista: ma l’orientalismo bianco di Myss Keta, a quanto pare, va benissimo. La nuova testimonial di Nudm canta, avvolta nel suo burqa di Gucci: “me ne fotto della crisi / Il mio uomo è dentro all’Isis”. Ma Nudm non sosteneva le combattenti in Rojava, quelle che muoiono ammazzate dall’Isis?
Curioso che un movimento che non perde occasione per definirsi “intersezionale” e rinfacciare alle femministe la cecità ai molteplici assi di oppressione, si faccia rappresentare da un’icona pop che mette in scena la nostalgia per l’Avvocato Agnelli e trova motivi di buonumore, oltre che occasioni di profitto, nelle spiritosaggini sul burqa e sullo sfruttamento animale.
Myss Keta scherza sempre. Quando è seria, invece, alla domanda “quale insegnamento vuoi dare attraverso la tua musica?”, risponde: “Voglio insegnare a tutti… (rullo di tamburi) … ad accettare se stessi”. Quale sia il nesso con la lotta femminista alla violenza maschile resta un mistero. Al fenomeno della “mortadella femminista”, rigiocato dal movimento Nudm sul piano dell’immaginario, corrisponde un vuoto sul piano politico. Perché, infatti, dilungarsi in faticose discussioni all’interno del movimento, quando – come osserva saggiamente la nostra – “Io penso che lo slogan, il cliché, sia diventato il modo più naturale e diffuso di esprimersi ormai”. Chi meglio di lei può dirlo?

[Foto: dettaglio da “Chi è Myss Keta, l’artista pop super fashion” in “Luxgallery. Il portale del lusso”, agosto 2019; Immagine tratta dalla pagina fb di Myss Keta ]
https://nobordersard.wordpress.com/
La sorveglianza speciale è la più pesante fra le misure di prevenzione (le altre sono gli avvisi orali e i fogli di via), può essere data per un periodo che va da uno a quattro anni, tale misura non serve a individuare e reprimere la colpevolezza, ma bensì la presunta pericolosità degli individui. Non servono quindi prove o processi per condannare o scagionarsi, si gioca tutto in un’udienza dove il pm porta le informazioni a carico dell’imputato per dimostrarne la pericolosità. Queste informazioni non è richiesto
dal giudice che siano supportate da prove, anzi per la maggior parte sono il risultato delle indagini e delle successive profilazioni che la polizia fa dei compagni.
Viene quindi valutato lo “stile di vita”, che lavoro si svolge, dove si vive, con chi si vive, chi si frequenta e dove lo si fa. Viene rivoltata e giudicata l’intera vita presente e passata delle persone e non è importante che questa magari non sia delittuosa, anzi. Ciò su cui i pm insistono è l’ipotesi che le caratteristiche e le idee di determinate persone possano portare al compimento futuro di reati.
Cosa prevede la sorveglianza?
Innanzitutto non prevede appello, non trattandosi di un processo non vi sono secondi gradi o cassazione, si può tentare un sorta di riesame che ne chiede la revoca, che nei casi a noi vicini non è mai stata accolta.
Viene data da uno a quattro anni, ed è rinnovabile, tendenzialmente prevede il rientro notturno (con possibile verifica della presenza in casa a qualsiasi ora della notte), il divieto di partecipare a manifestazioni pubbliche e assemblee, il divieto di frequentare pregiudicati o portatori di altre misure di prevenzione, l’abbandono di lavori saltuari, il ritiro della patente (anche per i 4 anni successivi alla fine della sorveglianza), la limitazione negli spostamenti fuori dalla città di residenza (cioè ci si può spostare solo previa comunicazione alla polizia), vi sono casi in cui è stato dato l’obbligo o il divieto di
dimora o soggiorno, che in questo caso è la stessa cosa.
In caso di violazione di anche solo una di queste prescrizioni scatta un processino che può portare all’arresto del sorvegliato, se questo dovesse accadere, il sorvegliato riprenderà a scontare la sorveglianza speciale non appena uscirà dal carcere. Cioè le due misure non si sovrappongono.
Questo enorme ricatto crea le condizioni perché i sorvegliati speciali diventino carcerieri di loro stessi, in particolar modo quando sentono il fiato della DIGOS sul collo.
La misura della sorveglianza speciale è chiaramente uno strumento perfetto – e molto pericoloso – per far fuori i compagni dalle lotte, apparentemente più leggera del carcere per molti si è rivelata invece molto pesante da viversi, anche per la facilità con cui i giudici comminano un anno o due di misura.
La repressione non fermerà le lotte!

Libertà per Nicoletta, Stella, Dana, Francesca, Mattia, Luca, Giorgio, Mattia, Maurizio, Aurelio, Michele, Paolo, Massimo, Fabiola!
Avanti No Tav!
http://www.notav.info/post/nicoletta-dosio-contro-lingiustizia-del-potere-la-resistenza-e-un-dovere/

A questo principio si ispira ormai da trent’anni il movimento NO TAV e, da sempre, rispondono le lotte sociali e ambientali, in tante parti del paese e del mondo.
Contro tale resistenza, il sistema ha messo in campo leggi, eserciti, tribunali e carceri.
I territori, le persone, la natura sono più che mai materia bruta di sfruttamento da parte di un capitale che, nella sua arroganza dimentica di ogni limite, in nome del profitto infinito, accumula sulla propria strada morti e rovine, fino a mettere in discussione la sopravvivenza stessa del Pianeta. Anche in Valle di Susa l’opposizione popolare che, forte della memoria operaia e resistenziale, ha deciso di dire NO al TAV, grande, mala, inutile, costosissima opera, e al modello di vita che la produce, sta pagando tale resistenza ad un prezzo altissimo, a livello giudiziario, economico, esistenziale, con centinaia di condanne penali e civili, multe, fogli di via, revoche di permessi, militarizzazione del territorio. Il tutto con la complicità attiva dei governi passati e presenti, espressione istituzionale del partito trasversale degli affari, e con il supporto dei mass media di regime.
Per denunciare tutto questo e per ribadire la dignità di una lotta collettiva che non si piegherà, ho deciso di non chiedere sconti al potere invidioso e vendicativo che, con i tre gradi di giudizio dei suoi tribunali, ha condannato al carcere me e altri undici attivisti, per “ violenza privata e interruzione di pubblico servizio”. Continua a leggere
In Bolivia è stato messo in atto un colpo di Stato organizzato come al solito e per l’ennesima volta in America latina dalle oligarchie locali e dagli Stati Uniti che non intendono rinunciare a nessun titolo e in nessun caso alla predazione delle risorse del <cortile di casa>. Il tentativo di grande trasformazione cominciata a cavallo degli anni duemila in senso socialista di molti Stati del Sudamerica, in un contesto di povertà endemica e profonda e di colonizzazione atavica, aveva fatto sperare in una possibile autonomia dagli avvoltoi Usa e dalle multinazionali.
Ci vengono in mente diverse riflessioni, generali e nello specifico della nostra lotta di donne. La prima riguarda il fatto che il miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni autoctone che è stato tentato e in parte attuato in Venezuela, in Bolivia, in Argentina, in Brasile…ha portato anche alla nascita di una piccola borghesia che si è sentita più vicina al grande capitale che al tentativo socialista che l’aveva creata. In questo senso va letto il linciaggio nel 2016 di un viceministro del governo Morales fatto da quelli che la stampa ha definito minatori ma che in effetti erano padroncini che volevano vantaggi e garanzie. Quando, come Coordinamenta, abbiamo studiato e parlato delle lotte del Black Panther Party negli Usa, negli anni ’60 e ’70, è stato evidente che uno dei meccanismi che hanno portato alla sconfitta di quell’esperienza di liberazione è stata, da parte del governo statunitense, la divisione di una classe in lotta che fino a quel momento era stata omogenea con la creazione di una piccola borghesia nera i cui interessi erano diventati in questo modo divergenti da quelli della popolazione nera in generale che era costituita tutta da poveri, accomunati da un isolamento rispetto a qualsiasi possibilità di partecipazione alla società dei bianchi. Obama viene da qui. Ne deriva quindi la necessità di porre molta attenzione, nel percorso di attuazione di riforme e tentativi di uscire dai diktat della società capitalista e neoliberista, a quelle che sono le modificazioni sociali messe in atto e studiare delle contromisure. Questo vale chiaramente anche per la lotta di liberazione di noi donne che sta seguendo un percorso simile. L’emancipazionismo è stato usato dal neoliberismo come arma per dividere l’insieme delle donne, tutte asservite dal patriarcato, inglobando nelle sue file quelle che noi abbiamo definito patriarche, interessate, coinvolte e partecipi dei progetti del grande capitale. Non è un caso infatti che la presidente ad interim nominata dai golpisti in Bolivia, Jeanine Anez, sia una donna.
Ne deriva un’altra considerazione. Quando, per una serie di circostanze favorevoli, che tra l’altro raramente si presentano attraverso quelle che vengono chiamate “democratiche elezioni”, riescono ad andare al governo partiti, esperienze di sinistra, chiaramente degne di questo nome, che intendono porsi il problema di modificare lo stato delle cose, allora si devono assumere la responsabilità di andare fino in fondo, vale a dire di sostituire, cambiare radicalmente gli apparati che fino a quel momento hanno costituito l’ossatura del potere, dai vertici militari alla magistratura , agli apparati burocratici…pena il fallimento di ogni tentativo di modifica anche in senso solamente socialista della società.
E questo vale anche per la nostra lotta di liberazione: denunciare senza sosta l’uso che viene fatto attualmente della nostra oppressione da parte del neoliberismo, non stancarsi mai di denunciare il ruolo delle patriarche, rifiutare qualsiasi tipo di compromesso con il potere, rifiutare nel movimento femminista tutte quelle i cui interessi sono quelli della classe dominante.

“I dolori, le incazzature;
le snervanti attese, interminabili, a spezzare giornate di corse inutili;
la frustrazione di vivere l’ossimoro di una precarietà diventata più stabile della stabilità;
la malinconia di rapporti un tanto al minuto, evanescenti come l’utilità di quello che facciamo;
la fragilità di certi amori a cui è rimasto solo il nome, tutti con la data di scadenza sulla confezione;
la fatica nei gesti, diventati schiamazzi, esistenze che si sbracciano di fronte a platee sorde e cieche;
l’affanno di raggiungere orizzonti senza sapere perché, tutti fittizi e inventati, ma mai da noi;
questa genuflessione collettiva e patetica sull’altare di aspettative costruite a tavolino vendute quasi sempre a mezzo slogan;
l’incapacità di accettare che il dolore fa parte della vita, così come la gioia che dura un momento, così come la morte;
l’analfabetismo di ritorno nei sentimenti;
la medicalizzazione oscena di ogni atto umano, sia esso etico, sessuale, o alimentare;
l’ansia di dover controllare e definire tutto, di esteriorizzare e rendere intelligibile perfino il silenzio;
la follia di questo nostro progresso cieco, forte con le sciocchezze e molle di fronte alle domande che si ostinano ad accompagnarci, come un fastidioso, ostinato rumore di fondo;
l’inferno della convivenza forzata in un mondo che non capiamo più, che non sappiamo sentire più;
l’incapacità di scegliere i nostri compagni di viaggio, perché ci hanno insegnato che scegliere in fondo non serve, che possiamo avere tutto, rinnovare sempre tutto, riarredare l’esistenza come fosse un salotto radical chic, come se ci riguardasse la stessa eternità di una poltrona;
il ritrovarsi alla fine ineluttabilmente stanchi e soli, in mezzo a una folla di formiche ugualmente stanche e sole, invisibili a loro, invisibili a noi; accontentarsi, giunta la resa, di ciò che passa il convento, perché non sapevamo cosa volere, perché alla fine le cose hanno scelto noi;
il soffocamento a cui ci condanna una rete di doveri e condizionamenti di cui ci sfuggono le ragioni, persino il loro primo perché;
la sconfitta quotidiana di fronte alla forza delle cose, il prenderne atto a cadenza regolare e martellante;
questa vita in apnea, col naso e le orecchie tappati, per non sentire l’aria puzzolente di veleni, di rumori, di scemenze e cattiverie.
Di quanto sia cancerogeno e terribilmente triste tutto questo, l’OMS, una prova scientifica, non ce la darà mai.” Quattro passi,pp.88,89
La coordinamenta verso il 25 novembre 2019

L’appuntamento del 25 novembre contro la violenza maschile sulle donne deve necessariamente essere momento di riflessione e di sintesi e costituirsi in forme di lotta diverse dai rituali in cui ci trascina il potere e dai controrituali, diventati anch’essi rituali, che il potere ci permette facendoci credere che stiamo lottando. L’egemonia culturale del sistema si esprime anche in questo, nel coinvolgerci in obiettivi e modalità che non ci interessano, che non ci appartengono e sono spesso contro di noi, nel dettare tempi, ritmi, scadenze e appuntamenti e farci credere che siano nostri.
Per questo è necessario spezzare il percorso vizioso e viziato che il patriarcato e il neoliberismo ci propongono con sistematicità, sabotare le forme di finta alterità in cui vogliono inglobare e che ci vogliono costruire addosso.
Dobbiamo affrontare questi nodi e condurre la nostra lotta attraverso l’autodeterminazione, l’autorganizzazione, l’autodifesa militante femminista, ma perché queste non rimangano parole vuote, di cui lo stesso sistema si appropria, occorre riempirle di significati precisi che costituiscano momento costruttivo rispetto al percorso della nostra liberazione e, con noi degli oppressi tutti, e allo stesso tempo momento discriminante rispetto a tutte le organizzazioni falsamente alternative, comprese quelle che si dichiarano femministe, ma che in effetti supportano neoliberismo e patriarcato.
I concetti di legalità, di collaborazionismo, di convivenza civile, di non violenza, di delega, di meritocrazia, di “sicurezza” sono fondanti per il riconoscimento del nemico.
Rispetto allo sbandamento in atto all’interno degli strati sociali subalterni, alla perdita del denominatore comune che permetta il riconoscimento della propria collocazione sociale, le donne si riconoscono ancora, si guardano e si leggono in un comune sfruttamento e questa è una grande forza che non possiamo, non vogliamo e non dobbiamo disperdere. Mai come oggi è importante il femminismo come pratica storica, cosciente, organizzata, di liberazione, come conquista di una vita mai vissuta.
Dal punto di vista tattico il piccolo gruppo come struttura di base dell’autodifesa femminista e della pratica di costruzione politica può essere una risposta effettiva e fattiva.
Che cos’è il piccolo gruppo?
E’ un patto tra donne che si conoscono e si fidano reciprocamente e costruiscono sapere in autonomia. I gruppi fanno rete, le reti fanno produzione politica. Non serve una preparazione specifica, né una presa di coscienza particolare se non la consapevolezza e la necessità del reciproco sostegno. Noi non crediamo nella delega, negli esperti e nelle esperte, crediamo nella condivisione dei saperi e nella loro moltiplicazione, crediamo nella crescita politica e nella presa di coscienza della collocazione di genere e di classe che il rifiuto della delega e la consapevolezza delle proprie possibilità organizzative creano e incentivano, crediamo nella presa in carico dei propri desideri, crediamo che la volontà di realizzarli e la consapevolezza che solo noi possiamo essere in grado di farlo può portare le donne a cercare strumenti di uscita da questa società. Ogni gruppo creerà i propri strumenti, ogni gruppo si industrierà per smontare i cardini del neoliberismo, ogni gruppo non lotterà solo per sé ma lottando per destituire i momenti fondanti di questa società si costituirà come parte di un progetto generale. Il rapporto di reciproca fiducia, proprio perché ci si è scelte è più importante del freddo sciorinare di comportamenti standard. Le uniche maestre di se stesse possono essere solo le donne. Non esistono metodi precostituiti, esiste il bagaglio esperienziale messo in comune. L’immediatezza del soccorso, la garanzia del gruppo, la presenza effettiva è un deterrente per qualsiasi maschio che voglia produrre violenza molto più dell’asettica e lontana presenza di un ufficio aperto a ore stabilite, con prestabiliti meccanismi di intervento. Oltre tutto la vigilanza fra donne permette una presa di coscienza delle situazioni potenzialmente violente con molto ma molto anticipo. Questa organizzazione capillare non è sostitutiva dello Stato sociale ma avere servizi, facilità di accesso all’indipendenza economica, facilità di accesso alla casa per tutte e tutti, è frutto di un rapporto di forza e non di richieste e tanto meno di collaborazione con le istituzioni. E per ottenere questo non è la lotta categoriale che deve essere messa in campo bensì quella strategica dello smontaggio dei cardini del neoliberismo. I due momenti tattica e strategia sono inscindibili e l’uno rimanda all’altro. E’ impossibile costruire una lotta intrecciata di genere e di classe se non si costruisce l’autonomia delle donne contemporaneamente sia sul piano del reciproco supporto che su quello organizzativo generale perché l’abitudine alla delega annienta le possibilità di difendersi autonomamente e fa dimenticare la possibilità dell’autorganizzazione, infantilizza i soggetti che non sanno più scegliere da soli, ma si aspettano la salvezza da qualcun altro. Questo assunto riguarda non solo le donne ma gli oppressi tutti e la nostra lotta potrebbe costituire un valido esempio.
Coordinamenta femminista e lesbica