Materialità negata, materialità normata

Materialità negata, materialità normata

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Col secondo incontro di Uteroghiamoci, abbiamo approfondito delle tematiche emerse la volta precedente, in particolare: la percezione che abbiamo (o non abbiamo) del nostro utero; come esperiamo (o non esperiamo) la materialità del nostro corpo, e in particolare del nostro utero; le pratiche di cura versus quelle di medicalizzazione, e come queste vengono vissute.

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La percezione dell’utero

Già durante il primo incontro era emerso il tema della “percezione” del nostro utero: com’è il nostro utero? Forte o debole, grande o piccolo, duro o molle? Prestiamo attenzione a come cambia a seconda del momento del ciclo mestruale, o delle fasi della vita?
In generale, molte, provando a pensarci, immaginano l’utero molto più grande di quello che è realmente, soprattutto durante le mestruazioni e i giorni ad esse precedenti.

L’utero, comunque, viene percepito in maniera differente da ognuna di noi. C’è chi se lo immagina gigantesco, e chi piccolissimo. La percezione cambia anche in base al periodo del mese: l’utero arriva a “espandersi” a tutto il basso ventre, e in alcuni casi è difficile visualizzarlo come una parte del corpo, diventa un sentire di tutta “la pancia”.

A volte le informazioni e la conoscenza scientifica che abbiamo sull’utero sono abbastanza approfondite e corrette, ma è difficile ridefinirle seguendo un vissuto personale.

Utero e materialità: quali pratiche, saperi ed esperienze stiamo perdendo?

In passato la pratica dell’autovisita collettiva portava molte donne ad una maggiore consapevolezza dell’utero, e in generale del corpo. Oggigiorno abbiamo perso – o quantomeno accantonato – non solo la pratica dell’autovisita, ma anche pratiche e saperi che non coinvolgevano necessariamente la vista. Ad esempio il tatto, “esterno” (ad esempio, come si tende la pancia quando si avvicina un nuovo ciclo) e “interno” (come la vagina e il collo dell’utero cambiano a seconda del momento del ciclo, o della fase di vita), ma un discorso analogo può essere fatto anche per l’olfatto (il nostro odore cambia durante il ciclo, col passare degli anni, in caso di infiammazioni o infezioni, e così via).

Negli ultimi anni, persino l’approccio femminista ha spesso riportato l’utero più come un concetto astratto che come un organo dotato di materialità. In generale, la percezione del nostro corpo risulta a volte difficile, perché la sua materialità spaventa. Ma perché siamo così spaventate dalla materialità?

Una delle possibili risposte risiede nella reificazione compiuta dalla “cultura biomedica”, che si basa sulla vista, su un’osservazione che per essere oggettiva deve essere compiuta dall’alto o dall’esterno. Questo non esclude automaticamente gli altri sensi, ma di certo li relega a un’importanza minore nella scoperta del corpo. In questo contesto, la materialità diviene qualcosa da sentire con diffidenza, anche perché si basa su un esperire corporeo e non su un sapere oggettivato. La materialità spaventa anche perché la “viviamo” sempre meno, nel senso che finisce per uscire dal nostro immaginario, la riconosciamo sempre meno come una nostra esperienza.

L’incontro con la biomedicina: trattamento del dolore e possibilità di scelta

Data l’estrema medicalizzazione e oggettivazione dell’utero, le pratiche mediche sono spesso coatte e lasciano pochissima possibilità di scelta alle donne. La scarsa informazione peggiora la situazione e a questo si somma il valore simbolico rivestito dall’utero come organo produttivo e performante per eccellenza.

L’epidurale è un esempio calzante. Spesso le donne arrivano al parto senza sapere a cosa vanno incontro, e l’epidurale a volte viene praticata con leggerezza e a volte negata nonostante sia richiesta esplicitamente dalle donne; inoltre, c’è pochissima informazione sui possibili rischi e sugli effetti collaterali che può avere sull’andamento del parto. Allo stesso tempo, il dolore associato al parto non viene valutato come qualcosa che si possa evitare per motivi ideologici: il dolore del parto è “naturale”. Al contrario, in altri frangenti si tende a risolvere il minimo fastidio con pesanti antidolorifici. C’è sempre un rapporto ambivalente con il dolore.

La possibilità di scelta sull’utero è molto limitata. Non si comunica e non si lascia spazio di discussione alle donne su quali siano i pro e i contro dei vari metodi, negando così il diritto a scegliere il metodo, o la cura, che ritengono più opportuno. Questo avviene anche perché la ricerca scientifica è orientata sempre in modo da favorire lo sguardo medico capitalista e produttivista tradizionale, e non quello della cura e di una visione più “olistica” dell’organismo.

La scarsa attenzione alla patologia dell’endometriosi è una dimostrazione di questo approccio. Il dolore non viene mai trattato univocamente: viene normalizzato, o completamente patologizzato.

Possiamo chiederci: quando al nostro utero viene richiesto di essere “performante”? E quando viene silenziato, nella pretesa che risponda a una norma definita?

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