I Nomi delle Cose, lo spazio di riflessione della Coordinamenta femminista e lesbica/Anno 2016/2017-Nuova Stagione
Puntata del 09/11/2016
“Riflessioni femministe sullo sciopero delle donne in America Latina, in Polonia, in Francia/retroterra e valenze/ quando genere e classe non si intrecciano”
“Da una sovrastruttura all’altra: ovvero come girare in tondo senza cambiare di posto” Christine Delphy < Un féminisme materialiste est possible> Agosto 1982
clicca qui
inoltre potete leggere qui di seguito un contributo che ci ha inviato Fabiana dal Messico in relazione alla Marcia de las Catrinas che si è svolta questo mese di novembre e vedere il reportage fotografico in attesa del resoconto che ci farà sul “Congreso Feminista de Chiapas dal 21 al 25 novembre 2016 !”
Fotoreportaje: En día de muertas, una caminata por la vida
Desde el sur este mexicano – San Cristobal de Las Casas – Chiapas
Il grido delle sopravvissute che sfida la geografia capitalista
Quando una piccolo borghese bianca, europea, si trasferisce in un paese del centro/sud America, è facile che si senta privilegiata, come donna. E lo è.
Ma guardando alla condizione della donna in questa parte del mondo, attraverso la lente paternalista di cui l’hanno dotata, la condizione femminile nella “sua” Europa le può apparire “migliore”.
La realtà è che non esiste un solo luogo sulla faccia della terra dove quest’aggettivo possa descrivere la condizione di essere donna; cambiano i termini, i modi, le etichette, le parole, le leggi, anche i costumi, ma non muta l’odio che ci accomuna tutte e tutti e che porta alla morte del nostro genere.
Eppure, bisogna fare attenzione alle differenze per comprendere come si organizza questa mattanza sistemica universale che, con il flusso del suo rosso fiume, attraversa ogni geografia…
“Il maestro di una bambina di 10 anni abusa sessualmente di lei. Di fronte a questo caso, la scuola protegge lo stupratore e, con l’aiuto delle autorità, ostacola i processi legali che porterebbero all’interruzione di gravidanza in maniera sicura”.
“Lei esce dal lavoro e due tipi si avvicinano, la violano e la lasciano, credendola morta, nel mezzo di un campo di mais. In realtà è ancora viva, con danni celebrali. Decide di abortire in una clinica clandestina, dove paga 150 pesos messicani per farsi distruggere l’utero”.
“A 37 anni, malata di trombosi e diabete, rimane incinta e sa di non poterlo tenere. I medici si rifiutano di interrompere la gravidanza e, alla terza settimana di gestazione, la donna muore”.
“Una ragazza che frequenta le scuole medie, rimane incinta del suo ragazzo di 30 anni. Allontanata dai suoi amici, nella disperazione più totale, decide di abortire ricorrendo all’uso un gancio metallico. Si distrugge l’utero, causandosi danni irreversibili”.
“A 15 anni e 3 mesi di gravidanza, decide di abortire ricorrendo a pastiglie e a un medicamento liquido inniettato per via vaginale. Perde sangue per i successivi 3 mesi. Quasi in punto di morte, viene portata davanti alle autorità mediche e di sicurezza pubblica, le quali le recriminano l’illegalità dell’aborto dicendole che possono aiutarla in cambio di 50 mila pesos messicani”.
“Una adolescente di 16 anni viene stuprata dal suo ex fidanzato. Venendone a conoscenza, lui la minaccia. Lei cerca di risolvere il problema e di abortire ricorrendo a un fertilizzante, causandosi una emorragia che la porterà alla morte”.
Una madre sola di 19 anni, che aveva deciso di non avere più figli, viene stuprata all’uscita dal suo lavoro, ma non dice niente alla sua famiglia per non generare preoccupazioni. Un giorno, lavorando con quantità di peso eccessive, avverte un forte dolore e inizia a perdere sangue. Portata a un centro di salute, la accusano e denunciano davanti alle autorità per procurato aborto”.
Dal 2007 l’aborto è consentito nella sola Città del Messico durante i primi tre mesi, ma resta vietato nel resto del Paese. Tra il 1999 e il 2013, sono stati più di più di mille i casi, conosciuti, di donne e bambine morte in seguito ad aborti illegali o effettuati in cattive condizioni sanitarie. E si tratta, quasi sempre, di donne INDIGENE, ossia persone povere: povere nel senso che non godono di nessun privilegio, nessun accesso a mezzi e servizi. Persone tra le più vulnurabili de los de abajo, quelle che vengono violentate, stuprate, en la cara de la gente, quelle che non possiedono nulla di più che una cuerpa e una cultura, fatti per i quali possono essere e sono uccise.
E allora ci ritroviamo ancora, le donne di ogni paese, latitudine e calendario, a dover alzare la voce per difendere quel diritto basico a decidere della, sulla e per la nostra cuerpa. Il solito diritto di sempre, rivendicato da anni, da intere generazioni di donne, in posti apparentemente lontani tra loro…
Ma l’aborto non è la sola causa della morte di una donna…: “Nos matan por linda, nos matan por fea. Nos matan por hablar, nos matan por callarnos. Nos matan por coger, nos matan por no coger..”
In Mar de Plata, Argentina, lo scorso 8 ottobre, la sedicenne Lucía Perez è stata sequestrata, drogata, stuprata, fino a morire di una morte aberrante.
In meno di una settimana, il paro nacional convocato in 80 città argentine, si è propagato al resto del continente, con manifestazioni in 25 località cilene, 7 boliviane, 5 messicane, 2 uruguaiane, 2 honduregne, e nelle capitali di Paraguay, Ecuador, Costa Rica, Nicaragua, El Salvador y Guatemala.
“Si tocan a una, respondemos todas”.
Sull’onda del miercoles negro, che ha attraversato i mortiferi confini della geografia patriarcal-capitalista, alcuni collettivi femministi messicani hanno deciso di indire uno sciopero nazionale in 7 differenti città.
La data: il primo Novembre, il giorno in cui in Messico si celebra la morte, la si fa entrare negli spazi dei vivi: nella preparazione dei cibi nelle cucine, negli ornamenti degli altari, nelle preghiere collettive, nelle luci delle candele, negli odori dei fiori e degli incensi, nei gesti di comunità che non smettono di pensare ai propri defunti come a esseri che ancora esistono, che meritano e nesessitano di memoria.
In questo caso, nelle 7 marchas de las Catrinas, si celebravano e si ricordavano lE mortE. E non solo. Assieme al grido di vendetta per tutte quelle vite negate per il semplice fatto di essere natE, per tutte le senza nome, per tutte le senza cuerpa, il grido che si elevava dalle strade era rivolto anche a tutte le persone che decidono di disinteressarsi, di fare il gioco minimizzante del sistema, di credersi differenti, agendo da indifferenti…
“Señor, señora, no sea indiferente, se matan las mujeres en la cara de la gente!”.
Marciare nelle strade, per riprendersi uno dei tantissimi luoghi teatro di violenze e abusi, per rivendicare il diritto a camminare senza essere vittima delle molestie né della maledetta paura; la stessa strada, la stessa casa, lo stesso parco, dove puoi morire per portare gli abiti sbagliati, guardare nel modo sbagliato, pensare nel mondo sbagliato, parlare nel modo sbagliato…
“No fue un crimen pasional, fue un macho patriarcal!”.
Marce di visibilazzazione e sensibilizzazione per denunciare la cultura machista – che dall’altra parte dell’oceano viene chiamata con termini di natura politicamente corretta – nata da quel sistema patriarcal-capitalista che uccide anche quando non toglie la vita, che si insinua nei pensieri delle donne senza strumenti per difendersi, mangiandole e trasformandole dall’interno. Quella cultura che ci fa sentire sempre sbagliate, sempre in difetto; che non ci fa smettere mai di giudicarci –noi stesse e tra di noi – esattamente come ci giudica il macho patriarcal; quella cultura disegnata appositamente per farci provare colpa e vergogna per qualsiasi cosa, per farci sentire, sempre, responsabili di tutto; quella cultura che ci violenta privandoci del diritto a immaginare un mondo in cui non esistono generi, ma solo esseri umani; quella cultura che costruisce la sua retorica eleggendo donne che non fanno parte della lucha, ma che dettano le regole del buon senso e del giusto scandalo; quella cultura che ci fa sentire donne emancipate per avere un lavoro, ma non ci fa vedere quanto non sia degno né degnamente retribuito; quella cultura che normativizza la vita della coppia eterosessuale, elevando sentimenti violenti come gelosia, possessività, isolamento, esclusività a valori sani e accettabili. Quella cultura, che, in definitiva, ci priva del diritto a scegliere, inventare, creare la nostra personale forma di amare, imponendoci un significato univoco, errato, malsano, della parola “amore”.
L’amore differente, la sororidad – l’amore tra hermanas –, è un scelta cosciente: quella che ci fa scendere per le strade a urlare come locas, come putas inferocite, come lupe, come le fiere streghe che siamo.
L’odio, la rabbia, il desiderio di vendetta, è l’aliento che ci fa muovere i passi.
Passi delle sopravvissute che fanno tremare la terra fino a ripercuotersi nel mondo dei morti, così come in quello dei vivi, nelle terre vicine e nei continenti lontani…
“Alerta, alerta, alerta que camina: la luchas feminista por America Latina! Que tiemblen, que tiemblen, que tiemblen los machista: que el mundo intero sea todo feminista!”.
Desde el sur este mexicano – San Cristobal de Las Casas – Chiapas