La Parentesi di Elisabetta del 3/2/2016

“Stato sociale”

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Lo stato sociale si è presentato, a partire dagli anni ’30 e, poi, soprattutto dalla seconda metà del XX secolo, come tentativo da parte del capitale di contenere la lotta di classe e magari di regolamentarla dentro le sue esigenze di sviluppo  cioè della valorizzazione capitalistica della forza lavoro. Le politiche dello stato sociale hanno rappresentato la risposta alla paura determinata dalla rottura dell’ordine capitalistico provocata dalla rivoluzione d’ottobre. L’affermazione, l’espansione dello stato sociale è stata, da subito e da sempre, condizionata dallo spessore e dalla qualità della lotta di classe dell’offensiva operaia durante i vari cicli che hanno percorso il XX secolo.

Ha contato anche la necessità da parte del capitale di creare una recettività all’altissima offerta di prodotti industriali, ma lo stato sociale ha rappresentato soprattutto il tentativo di devitalizzare le ondate di lotta della classe operaia.

La formula capitalista della stagione d’oro dello stato sociale, cioè dopo la fine della seconda guerra mondiale, è la dimostrazione dello spessore a cui erano arrivate le lotte operaie. In quella stagione il capitale ha stretto alleanze con i sindacati e con la socialdemocrazia al fine di legittimare “democraticamente” il proprio potere coniugando questa legittimazione con gli interessi volti a sollecitare una domanda interna per garantire i processi di valorizzazione del plusvalore.

Questa impostazione, continuamente investita da successive ondate di lotte operaie, è stata interrotta, in maniera drastica e per scelta di parte, dal grande capitale a guida statunitense quando ha optato per il neoliberismo. E’ stato un passaggio nodale. La rottura, la scelta neoliberista ha comportato una trasformazione dei soggetti in campo. Il neoliberismo mette tutta la società al lavoro e mette tutto il mondo sociale sotto il proprio comando.

Questa risposta del capitale di superare l’azione di classe smantellando lo stato sociale è quindi una scelta ed è avvenuta attraverso una serie di processi di privatizzazione, presentati come necessari e utili per la collettività e avallati come tali da sindacati e socialdemocrazia. Tutto ciò all’interno dei paesi dell’area capitalistica accompagnato da una spinta e da una accelerazione dei processi di globalizzazione economica che trovavano campo libero in seguito al crollo dell’Unione Sovietica che, a torto o a ragione, veniva identificata con il comunismo.

Margaret Thatcher e Ronald Reagan hanno aperto la breccia nello stato sociale, ma chi si è prestato ad ucciderlo è stato Tony Blair e i suoi epigoni socialdemocratici.

Se consideriamo lo stato sociale per quello che è sempre stato, cioè non come concezione statale, ma come prodotto delle lotte operaie, cioè manifestazione tangibile della lotta di classe, allora comprendiamo che la battaglia per lo stato sociale è ancora viva perché è la manifestazione della capacità del movimento di classe di incidere su tutti i nodi del processo sociale.

Ma questo non può essere attuato cercando mediazione e contrattazione, che sono state chiuse in maniera unilaterale e a tutto campo, dal capitale, bensì soltanto recuperando l’offensiva di classe degli strati sociali attaccati dal neoliberismo, platea sociale che proprio il neoliberismo ha reso più vasta e variegata. Solo così sarà possibile, a ricaduta, riottenere quello che è stato tolto e rispondere alle nuove esigenze dettate dalla sensibilità della nostra stagione. La centralità è la lotta politica ed è inutile inseguire i discorsi fuorvianti e parziali sulla crisi o sulla sostenibilità. Lo stato sociale è il sottoprodotto di una lotta politica che ha mire ideali molto più alte e che si pone il problema dell’uscita dalla società del capitale.  Una nuova stagione di lotte non deve lasciare al capitale né alla sua manifestazione organizzata, lo Stato, né ai suoi surrogati, il comando e il monopolio di gestire quello che è nostro.

Gli aspetti dello sfruttamento sono molteplici, pertanto, molte modalità possono e devono prodursi per costruire un nuovo programma politico incentrato su desideri e spinte rivoluzionarie perché solo così nel presente, a ricaduta, lo stato sociale verrà proposto dalla controparte come possibile mediazione.

Lo stato sociale non ha soltanto rappresentato un’esperienza storica, ma è stato anche un’esigenza, un’aspettativa che, per molti versi, si è realizzata.

Bisogna ricostruire le modalità, le occasioni, la scansione per cui si è affermato, tenendo conto dei nuovi soggetti che sono presenti oggi nella stagione neoliberista.

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