Antimaterna

Antimaterna

Scomodi pensieri si annidano da tempo nella mente, giocando a nascondino tra le circonvoluzioni cerebrali. Scoppiettano come legna da ardere resinosa al minimo contatto con la sostanza infiammabile. Madre, materna, maternità. Sento il liquido amniotico dell’umanità occludere senza pietà le mie vie aeree. Retorica di un evento biologico, iniettata di anabolizzanti conformisti e resa mostruosa, un progetto Akira che si ripete all’infinito.

Necessità sociale, quella di riprodursi, più che naturale. E peggio, di riprodurre un desiderio, di creare e ricreare incessantemente un discorso che ruota senza posa intorno al pianeta unico e irripetibile che siamo, alla stregua di un invadente satellite artificiale blaterante pseudo-verità come fossero evidenze divine.

Se sei donna la maternità ti appartiene, che tu lo voglia o no. Devi pensarci, devi considerarla, non puoi esimerti dal dare un senso a quel rilascio mensile di ovuli. Come se avere le gambe implicasse per forza diventare calciatori. Come se essere calciatori fosse un destino ineluttabile, e non realizzare tale sorte fosse equiparabile ad una blasfemia. Rivendico la serenità del mio utero silenzioso, al riparo dalla retorica che lo vuole strumento di magnifiche sorti e umanità a venire.

Sarà perché umanità è un termine oscuro e ambiguo, che si esalta per schiacciare. Sarà perché in un mondo del genere, troppo umano e di conseguenza violento, cinico e crudele io un’altra creatura non ce la vorrei traghettare. Sarà perché non riconosco maggior valore al mio utero rispetto a quello di una vacca, di una cavalla o di una scrofa, eppure troppo poche ancora alzano la voce per quelle maternità inflitte e poi distrutte, quelle che stanno dietro ai cartoni del latte, alle creme agli estrogeni per l’atrofia vaginale e ai panini al prosciutto.

Sarà perché madre è un termine ancora più spaventoso, Maman: ragno enorme dalle esili zampe proterve e l’opistosoma sempre gonfio, che avvolge nella sua invisibile ma soffocante tela qualunque essere vivente che osi attraversare la sua orbita.

Rivendico il mio essere mosca, il desiderio di sfuggire da quell’abbraccio mortifero. Il voler volare oltre i confini di genere, in un cielo sgombro da test di gravidanza, forcipi ed episiotomie, ossessioni peso/altezza, medaglie di merda e rigurgiti, e l’idiota senso di trionfo per l’evento, assieme alla morte, più comune che esista su questo pianeta.


Le estasi orgasmiche si possono ottenere anche scevre da dolori lancinanti e soprattutto libere da responsabilità decennali. O anche no, che nemmeno il piacere, clitorideo o vaginale, è un destino obbligato.

E no, non mi sento egoista per questo. Non mi sento vuota, anzi mi sento stracolma, anche se non sempre di ciò che vorrei. Delle retoriche ad esempio, ne farei volentieri a meno. Delle aspettative. Dell’idea che in quanto donna, io possa/voglia/debba dire la mia su tutto quanto riguarda ogni utero dotato di corpo che attraversi la mia strada. Che in quanto donna e femminista, debba sicuramente pensare qualcosa di forte, intenso, insopprimibile per tutto ciò che concerne l’apparato riproduttivo. Per lo più di quello. Perché lì risiederebbe la mia oppressione. Ah.

Non so perché ma ho come l’impressione che il discorso sia più complesso di così,  e sinceramente di questo utero – che si è rivelato come la cucina portatile in cui rinchiudere ogni donna – mi sono stufata. E’ un luogo opprimente nel quale non voglio stare. Ma “le madri, le madri”.

La retorica della madre mi sorprende nei luoghi più inaspettati. In una sera di novembre mentre parlo di cagne, uno di questi uteri corpo-dotati mi riporta al Tema, unico degno di nota, della potenza materna, della potenza creatrice, quella che ti fa e ti disfa, quella che dovrebbe ordinare il mondo, ripararne i torti, proteggerne le vulnerabilità e aprire vasti e inesplorati orizzonti di pace, amore ed empatia universale.

E nemmeno il minimo dubbio rispetto alla banale evidenza che numeri infiniti di nascite condite da urla, pianti, risate salate di lacrime e picchi di ormoni capaci di sconvolgere ogni senso critico ci abbiano condotto, in tutta la loro gloriosa magnificenza, al mattatoio animale e sociale nel quale più o meno spensieratamente viviamo?

La potenza del legame supremo che ottenebra la mente, non la vuoi provare? Forse no.

Non ti vuoi beare di piedini unici, come miliardi di piedini unici che hanno già calcato questo pianeta, e faccette buffe ma buffe in un modo che nessun’altra mai, e sguardi complici perché sono cose che solo le madri possono capire… E finché non lo sei non lo saprai mai, e finché non lo sarai non scoprirai quello che ti perdi, e se poi scoprissi che forse in realtà ad esserlo ti sei persa qualcosa di importante – e ora è fatta, perché la maternità è una strada senza ritorno – a quel punto tutto quello che senti, quell’ansia o quella depressione o quell’insofferenza per quei piedini che scopri essere meno speciali di quanto ti avessero detto,  o di quanto pensassi anche tu senza nemmeno sapere perché, ecco cosa ne farai di quella madre infelice di cui nessuno parla mai?

Di quella madre che a forza di rimirare piedini, anzi meglio, a forza di anelare piedini ha eretto il martirio a valore supremo, l’oblio di sé a somma abilità, e ha smesso di desiderare ogni altra cosa, la libertà di essere chi già era, la possibilità di realizzare appieno se stessa in qualunque modo che non passi attraverso un altro individuo, la capacità di generare altre vite, altri futuri che non per forza passino attraverso i lombi, ma che nati dai desideri e dai pensieri come novelle Minerva siano capaci di dare forma a mondi assai più accoglienti di questo. Anche – ma non solo – per i piedini che verranno.

Come l’aliena che sono, ritorno a guardare il mondo da un oblò. Lascio un messaggio a vagare sperduto nell’etere, come un codice tra mille, che raggiunga chi ne ha bisogno, chi lo stava aspettando e lo sente necessario… So che mi state ascoltando, tirate un sospiro di sollievo: c’è vita oltre la sala parto.

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