Sulle mobilitazioni contro il lasciapassare. Primi appunti.

Lavc58.54.100
È piuttosto evidente che la questione di cosa dire e fare contro il “green pass”, di come rapportarsi con la gente che sta scendendo in strada contro questa misura di discriminazione, di controllo e di ricatto, non è separabile da cosa si pensa – e da cosa si è fatto a proposito – dell’Emergenza Covid-19 in generale. Le vere e proprie perle di allineamento servile e di imbecillità che si stanno regalando a sinistra e all’estrema sinistra non arrivano inaspettate. Così come solo coloro che non si sono accorti che un mondo gli è passato a fianco si chiedono improvvisamente chi è, da dove esce e che cosa vuole tutta questa gente. Si strilla alle “piazze reazionarie” senza nemmeno un minimo di imbarazzo nel trovarsi nello stesso coro di banchieri, industriali, generali della Nato, giornalisti di regime, ministri degli Interni, scienziati di Sua Maestà… Il pericolo del “fascismo” (tranquilli: la democrazia basta e avanza), non lo si vede nell’azione dello Stato e di una classe dominante che colpisce compatta, ma nelle presenze di estrema destra ad alcune manifestazioni contro il lasciapassare. Come se i passi avanti della potenza coercitiva dello Stato in nome della “salute collettiva” fossero “neutri” rispetto al conflitto di classe nel suo insieme; come se il silenzio-assenso sulla discriminazione sociale e lavorativa di chi non vuole vaccinarsi non oliasse la stessa macchina che attacca i lavoratori che resistono ai licenziamenti, i rivoluzionari, e tutte le lotte.
Un fatto sociale totale
Riprendendo un concetto di Marcel Mauss, potremmo definire l’Emergenza da Covid-19 un fatto sociale totale. Essa ha fatto venire a galla – nella società come nei “movimenti” – quello che già c’era, ma che non si vedeva. Aver affrontato, di quel fatto sociale totale, solo alcuni pezzi o scampoli, battendo le strade teoriche e pratiche più sicure e meno problematiche, ha avuto – e ancor più avrà – delle conseguenze disastrose. L’Emergenza ha spostato il conflitto sociale su terreni inediti, “politicizzando” i gesti più intimi, le scelte più quotidiane, quelle dimensioni apparentemente “private” e “soggiacenti” rispetto ai posizionamenti ideali (i corpi, il senso di sicurezza, la paura di morire, il rischio di ammalarsi e di ammalare). Decenni di foucaultismi più o meno d’accatto si sono infranti nell’urto con una gestione statale e tecnocratica che ha applicato fino in fondo, e per davvero, un programma “biopolitico”. Improvvisamente, per lanciare delle iniziative di lotta – e persino per discutere collettivamente –, bisognava rompere anche sul piano epistemologico. Decidere non più solo su piani in qualche modo “esteriori” – lo sfruttamento, i padroni, lo Stato –, ma anche su virus, corpi, sistema immunitario, mascherine, tamponi, gel, distanziamento ecc. Con rare eccezioni, negli ambiti “antagonisti” si è separato ciò che sarebbe “neutro” – le evidenze scientifiche, il bollettino su “positivi”, malati e morti, le misure di tracciamento e di contenimento del virus ecc., insomma il regno della necessità – da ciò che è “conflittuale” – le cause dell’epidemia, le contraddizioni tra misure sanitarie e logica del profitto, il rischio di ammalarsi differenziato tra le classi e tra i generi, le ricadute economiche del lockdown ecc., cioè il regno della possibilità. Passato il disorientamento iniziale, è cominciata la rimozione. Così anche la vaccinazione di massa è stata ricondotta in fretta e furia al regno neutro della necessità, riservando il conflitto alla questione dei brevetti, delle disparità tra Nord e Sud del mondo ecc. Quelli un po’ più lucidi e preparati hanno fatto notare che la vaccinazione è uno strumento comunque insufficiente, e che questi vaccini – basati sull’ingegneria genetica, con tecnologia a m-RNA o a DNA ricombinante – riservano non poche incognite. Anche sull’obbligo vaccinale per il personale sanitario si è preferito nicchiare (oppure si è parlato di un rifiuto emotivo, dettato dalla paura e dalle palesi contraddizioni della “comunicazione scientifica” ufficiale). Ora, di fronte all’introduzione, ampiamente prevedibile e anche prevista, del lasciapassare sanitario, i meno rintronati si pongono il problema di non lasciare le piazze all’estrema destra (un pericolo, questo, che qualcuno aveva sottolineato con largo anticipo) e di condurre… un’inchiesta sulla loro composizione. Fuori tempo, ci pare. Non perché la partita non sia tutt’ora aperta (anzi, il conflitto più duro deve ancora arrivare), ma perché l’“inchiesta” andrebbe condotta innanzitutto al proprio interno. E in extremis. Benché siano piazze – in Italia come nel resto del mondo – assai eterogenee, ci sono almeno tre punti che accomunano decine di migliaia di persone: l’opposizione all’obbligo vaccinale, senza se e senza ma; il rifiuto della discriminazione di chi non si vaccina; la questione delle cure domiciliari negate. Concentrarsi solo sul “green pass” è riduttivo e fuorviante come terreno di un possibile incontro con una parte di chi scende in strada. Si accetta o meno l’obbligo vaccinale (oggi per i sanitari, domani per il personale scolastico e persino per gli studenti, dopodomani per gli operai)? Sì o no? Questo va affermato a chiare lettere. Se la risposta è “no”, allora essa va inserita con convinzione tra i punti delle proprie mobilitazioni anche su altri obiettivi (il fatto che il “comunicato unitario” del sindacalismo di base per lo sciopero generale del 18 ottobre prossimo, ad esempio, non vi accenni nemmeno, significa tre cose: quell’obbligo non è poi così sbagliato; si tratta di un argomento “divisivo”; la battaglia delle lavoratrici e dei lavoratori che non vogliono questi vaccini è indegna di far parte della lotta di classe). Continua a leggere















