Respiro/ Una bella recensione di Silvia De Bernardinis sull’ultimo libro di Barbara Balzerani

Una bella recensione di Silvia De Bernardinis sull’ultimo libro di Barbara Balzerani

Respiro

Silvia De Bernardinis

“Respiro, ultimo libro di Barbara Balzerani, è un monologo che attraversa questi ultimi tre anni vissuti tra pandemia, guerra e un corpo, quello dell’autrice, che si ammala attaccato dal proprio sistema immunitario. Un racconto lucido e impietoso, con il tono dell’invettiva che muove contro l’”angustia della sopravvivenza” e la rinuncia all’esercizio del pensiero critico, tacitato e messo al bando nell’epoca dell’emergenza pandemica e della sua gestione tecnocratica e militare e della propaganda di guerra. Esiti devastanti di un sistema sociale moribondo, della distanza tra le parole e le cose, tra linguaggio e realtà e del salato conto che quest’ultima ci presenta. La ricerca di una pratica possibile di sovvertimento della non vita, di “irriducibilità alla sopravvivenza quale che sia”, questo limbo dove galleggiamo che non ha la dignità e la naturalità dell’umano, è il senso di queste pagine. Un racconto della casa che brucia, della “morte ovunque nel prospero Occidente” che si intreccia con il racconto di un corpo in sofferenza, che sente su di sé l’incompatibilità con “un vivere malato che non sembra più trovare le parole per uscire dalla gabbia dell’adeguamento all’esistente”, in città trasformate in territori ostili all’umano, alla vita, devastate da un sistema produttivo predatorio che ne ha cancellato il loro cuore pulsante, la memoria, le pratiche sociali, che ne esibisce la patina luccicante mentre ne mercifica l’anima. È il racconto di un corpo che si rivolta contro se stesso, “potente allegoria di uno stato di belligeranza impotente e senza vie di fuga contro gli orrori del tempo presente”, che esperisce su di sé la scienza medica più avanzata e i suoi metodi, la cura del sintomo su corpi concepiti sempre più come “insieme di pezzi aggiustabili da mani specialistiche. Macchine che respirano”, e pazienza se la riparazione di un pezzo ne danneggia altri. Anche questa allegoria della dissoluzione di un corpo sociale fatto a pezzi. E questo è uno dei fili conduttori del libro, che parte da una critica tanto spietata quanto mai necessaria del periodo pandemico, periodo in cui si è sperimentato a livello di massa il senso della nuda vita, l’assenza della malattia, di un’unica malattia, come “unico scopo a cui sacrificare ogni altra traccia distintiva del nostro essere umani”. Isolamento e poi vaccino e tessera lasciapassare per essere cittadini, per continuare ad alimentare il ciclo produci-consuma-crepa, per essere parte del consesso civile, e soprattutto nessun dubbio, nessuna diserzione perché si è in guerra contro il virus, con il corollario di militarizzazione, invito alla delazione, controllo sociale, con la scienza infine senza il velo della sua supposta neutralità, e che rinnegando se stessa in una torsione oscurantista si è fatta religione, con il soffocamento sul nascere di ogni voce critica. Senza respiro. Come sudditi obbedienti allevati su paure indotte che hanno ceduto tutta la loro autonomia e l’hanno consegnata ad una genia di tecnocrati, di specialisti sacerdoti dei governi delle emergenze che poi si normalizzano al prezzo di erosioni costanti di libertà collettive e individuali, di cedimenti alla delega, di repressione dispiegata in tempo di pace sociale. Per il bene di tutti. Anche se la realtà si incarica di mostrare che non è così. E sì che lo scenario riporta alla mente quel deriso stato imperialista delle multinazionali. Con un potere che si opacizza, che governa dosando terrore e propaganda. La perdita di “uno spazio di autonomia di pensiero e di azione è forse il contagio più grave e più difficile da riparare”, la perdita di un’occasione per rimettere in discussione un modo di vivere e un modello di società impigliati nel nodo irriducibile della contraddizione tra capitale e ambiente, tra capitale e vita, la perdita di compagni di lotta che hanno invocato la galera verso chi ha sollevato dubbi sulla bontà delle scelte governative, “da tale scadimento è impossibile un ritorno”. Terrore e propaganda si ripetono a ruota per la guerra della Nato su territorio ucraino contro il Male di turno, la Russia. In una semplificazione binaria bene/male la cui povertà di ragionamento e la distorsione dei fatti non ha eguali, vengono cancellati il contesto dell’invasione e occultate le reali ragioni della guerra, di nuovo tutti uniti e arruolati contro il nemico, e di nuovo ci si ritrova a “combattere contro l’emarginazione dal comune sentire della dispersa comunità politica di un tempo”, il No alla Nato è sepolto insieme alla memoria di passati conflitti. Azzerata “la funzione collettiva della memoria, ridotta a fatto individuale, residuale”, sostituita dall’”illusione della possibilità infinita di sapere e comunicare dentro il recinto tecnologico del Grande fratello”, senza passato e senza futuro, sepolti saperi e critiche pratiche accumulate nei tempi lunghi della storia, nella guerra contro il profitto, lo sfruttamento, il lavoro salariato, galleggiando in un presente dove non è previsto orizzonte, è gioco facile per il potere manipolare e rendere indistinguibile verità e menzogna, convincere i più “che sia possibile e urgente salvare il mondo mantenendo in salute il fallimentare sistema economico che attenta quotidianamente alla sua vita e alla nostra”. È facile la blindatura ideologica di un sistema che sotto la bandiera del progresso tecnologico, di una democrazia che sempre più manifestamente corrisponde a privilegio di pochi e a difesa della quale gli esclusi dal gioco vengono chiamati a guerreggiare, ci transita in un’era post-umana e in un sistema produttivo che sembra aver acquisito vita propria, per il quale la maggioranza degli abitanti del pianeta sono inutili. Non più massa di disoccupati, esercito di riserva ma inutili. Per questi inadatti al nuovo mondo droga e videogiochi fino all’estinzione secondo gli scenari e le ricette di Davos. Rimane ineliminabile però l’”interazione con la forza lavoro umana dispersa sull’intero pianeta in micro mansioni precarizzate”, a cominciare dalle insostituibili mani dei bambini che estraggono le materie prime necessarie alla più avanzata tecnologia nei continenti saccheggiati e devastati dal portatore di progresso e democrazia. Ancora il racconto si interseca tra malattia pandemia e guerra. Nella chiusura a riccio, come a difesa/estraneità dalla malattia c’è anche il chiudersi a difesa/estraneità rispetto alla “opacità in cui i più sembrano orientarsi”, verso “pezzi di vita che parlano un altro linguaggio. In un mondo asservito all’interesse privato di sempre più pochi, che ha fatto della ferocia la cifra della sua andatura”. Ma è proprio questa estraneità al sistema in cui si vive che può trasformarsi in arma di diserzione e sabotaggio, quell’estraneità che oggi si fa semeion dell’umano. Estraneità come rifiuto e resistenza attiva contro “l’asservimento alle regole disumane del capitalismo”, come uscita dalla non vita per vivere, per rompere “le gabbie della segregazione individualistica”. Estraneità col potere e riconnessione dei legami con una comunità che il capitale non riesce a uniformare, con gli inadatti, gli sbagliati, i cattivi esempi. Ancora una volta il tempo, perché non c’è cambiamento del mondo senza cambiamento di tempo, “Il tempo. Il campo di battaglia da attraversare. Nel suo spessore, verso l’origine fino a fare luce sull’opacità che impedisce di vedere e riconoscere. Rialzarsi e andargli incontro, in profondità, con occhi nuovi e nuovo perdersi. Fin dove è necessario per trovare il punto di oblio delle radici da cui ripartire. E dell’orizzonte. Lì dove lo scambio, la comunicazione, il dono non erano ancora commercio. Iniziare a scavare per ritrovare il nesso spezzato dalle trappole del capitalismo che ha mercificato persino il sentire”. Setacciare nella memoria dei vinti. Ritornare a praticare “l’antico gesto simbolico di sollevare il peso dalle spalle di chi non ce la fa riesca a risanare”. Un capitolo del libro è dedicato a Enrico Villimburgo, compagno comunista rivoluzionario, esule a Parigi, un irriducibile alla sopravvivenza quale che sia, che ha scelto di scegliere sulla propria vita e sulla propria morte. Distratti becchini di stato non si erano accorti della sua morte, e il suo era uno dei nomi inseriti nella lista presentata dallo stato italiano con l’intento vendicativo di arpionare le esistenze di combattenti di una guerra di oltre quaranta anni fa, che sempre meno simbolicamente riesce a dissimulare l’immagine riflessa di una menzognera narrazione di stato. Enrico conosciuto quel tanto che è bastato perché una notte di qualche anno fa al telefono mi dicesse di andare a dormire tranquilla, nonostante le sue precarie condizioni, si sarebbe occupato lui di rintracciare e occuparsi di un adolescente esuberante che si era messo nei guai, mio figlio, accolto e rifocillato a casa sua. Tra i compagni che hanno accompagnato pezzi importanti della mia vita, a quelli che vengono additati da una narrazione di stato, ma non solo, come i peggiori tra i cattivi esempi, a loro, che per le giravolte inaspettate della vita ho incrociato sul mio cammino, devo la mia crescita umana e politica, impossibile scindere le due cose, un confronto tra pari che non ho conosciuto altrove, cum panis con i quali ho sentito e toccato, prima ancora di razionalizzarlo, il significato di “irriducibilità alla sopravvivenza quale che sia”, forse il più evidente attestato di autenticità degli anni della sovversione, per chi vuol capirne l’essenza al di là delle migliaia di pagine conservate negli archivi. È un antidoto contro la semplificazione del pensiero questo libro, riattivazione del pensiero critico, una cassetta degli attrezzi che attinge alla storia, ai suoi spigoli, alle sue increspature, ai suoi improvvisi capovolgimenti di scenario. Dietro una scrittura che apparentemente è immediata c’è un’architettura complessa che intreccia filosofia, politica, storia, mai astratte ma come pratiche esperite, facendone un unico indissolubile corpo, ed è questo il tratto distintivo dell’intera opera di letteraria di Barbara Balzerani, prassi poetico-politica attraversata da una creatività visionaria eretica, o come scrive Filippo Kalomenìdis, opera come “forma inedita di libro assoluto”. Ma forse è solo una superflua forzatura nostra tentare di categorizzare in qualche modo una scrittura che coincide con una figura umana la cui vita e opera sfuggono alle categorie per accostarsi all’umano intero, che non ha mai rinunciato alla pratica di una parola che si ostina a dire l’inammissibile, come inammissibile al potere è lei stessa, la sua vita, la sua storia”.

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