Sogni…disincanto…fessure/ la coordinamenta verso il 25 novembre

Sogni…disincanto…fessure.

di Elisabetta Teghil

Gli anni del femminismo sono stati gli anni del desiderio. Di fronte alla “miseria” offerta dal trascinamento dal femminista al femminile, l’accento sul femminismo e sulla nostra liberazione si presenta come altro, come una scommessa, un impegno oltre il presente. Momento attuale che pretende di annullare il conflitto e la ribellione e di piegare tutte/i rassegnate/i al dominio della merce.

E, a questo progetto, rinnovato ma sempre uguale, di oppressione su di noi, a questa dissipazione della libertà e dell’esistenza, le complici tendono a negare le loro responsabilità.

Anzi, chiamandosene fuori, se ne rendono, proprio in questo modo, attive e partecipi anche e, soprattutto, nel banale dispiegamento della vita quotidiana.

In prima fila ci sono le emancipazioniste, indifferentemente socialdemocratiche, riformiste o di destra, spietate neoliberiste,  le ortopediche del “politicamente corretto”, psicologhe, assistenti sociali, psichiatre, poliziotte “buone”…direttore di carceri… e le loro appendici e similari e annesse e connesse… che nella loro non bella moltitudine, nella forza che viene loro dai media e dalle Istituzioni, si mostrano e sono particolarmente disponibili alla cultura mortifera che ammorba il presente: vittimismo, quote rosa, comitati per le pari opportunità….sono note di una stessa partitura, sono la favola delle vecchie idee con lieto fine che si ripromette di sottomettere le esistenze concrete dei soggetti reali al rinnovato dominio del capitale e del patriarcato.

L’aspetto più evidente è l’assenza del soggetto, della donna, dell’oppressa. La declinazione delle proprie responsabilità è compresa entro lo scenario della moderna autopromozione.

Il femminismo della falsa coscienza appare oggi al suo culmine e si coniuga con la cultura del rifiuto dell’ideologia, del superamento del separatismo, della negazione della lotta di classe, con l’affermazione ottusamente ottimistica che, in fondo, qui, in questa società, si potrebbe essere felici, un’aggiustatina qua una là, un’attenzione alla forma, un po’ di soldi in più.

Tutto questo nasconde la presa di distanza opportunistica da ogni responsabilità e salva la faccia mobilitandosi per gli avvenimenti del passato o di altri paesi.

In questo contesto ci si trasforma in cantori dell’esistente e delle sue ragioni, si condanna la guerra, una guerra teorica, ma si sostiene quella reale, si fa volutamente confusione tra aggressori e aggrediti, non si nomina mai la Nato e si esaltano gli Stati Uniti.  Se pure storia c’è stata, anch’essa non c’è più e si sfocia, come conseguenza naturale, nel darwinismo sociale, nella condanna delle/dei più deboli, di chi non ce l’ha fatta.

Le oppresse/i e le sconfitte/i sono l’altro, il disordine, generano la paura e quest’ultima si traduce in una sorta di ossessiva coazione all’ordine.

L’unica via indicata da sempre dai teorici reazionari si coniuga con il mantra ossessivo della sinistra riformista. Bisogna tenere a bada le oppresse e gli oppressi, rinchiuderli nel recinto del dominio: è questo il territorio della politica neoliberista, quello che definisce e impone le regole del gioco della vita.

Siamo rinchiuse in una gabbia di segni ideologici e culturali della società patriarcale e borghese, una gabbia che hanno costruito per noi e l’hanno chiamata “normalità”.

La nostra “normalità” è così l’esecuzione automatica, inconscia, della programmazione che il capitale, in cui attualmente il patriarcato si esprime, ha costruito per noi.

All’ingiunzione di regole di comportamento dettate dall’ideologia vincente si accompagnano sempre precisi divieti, stigma e punizione.

Per questo il divieto e la paura di infrangerlo e relative conseguenze soffocano il nostro presente e il nostro futuro.

E non soltanto la nostra vita, ma anche le nostre lotte vorrebbero che fossero rinchiuse nella gabbia preparata per noi. Vorrebbero farci correre sulla ruota come i criceti, con l’illusione di arrivare da qualche parte, con l’illusione di cambiare qualcosa e vorrebbero farci girare sempre in tondo. Vorrebbero farci fare processioni per chiedere qualche grazia che una volta elargita sarebbe comunque un atto di potere e come tale, con lo stesso atto, potrebbe essere tolta.

Questa gabbia si può spezzare solo ponendo le nostre pratiche sociali e politiche in rapporto antagonistico con l’intera società borghese patriarcale che per attuare le strategie di controllo sociale usa strumenti diversi e tra questi strumenti, in questo momento neoliberista, hanno un’importanza fondamentale la socialdemocrazia e il riformismo, comprese le componenti femminili, che nelle reti della comunicazione quotidiana fanno la guerra alla memoria e all’identità del movimento femminista, manipolandone la storia, strumentalizzando l’oppressione di genere, di razza, i diritti umani….falsificando la lettura della società e tentando di farne dimenticare la struttura e la divisione in classi.

Creando, così, una società che fa dell’antirazzismo-razzista, dell’antisessismo-sessista e della strumentalizzazione dei diritti il grimaldello per addomesticare le coscienze.

Per questo esclude dal circuito della vita politica, se non dalla vita stessa, tutte/i quelle/i che non si rassegnano a quelle regole. Si produce così una ideologia che non si presenta come tale, ma tale è, cioè quella della fine dell’ideologia. Quest’ultima si rappresenta e si racconta come democrazia moderna, come cultura dell’integrazione, del progresso di cui si tessono generosamente le lodi.

Tutto questo si accompagna al venir meno della speranza di una vita migliore che valga la pena di essere vissuta, che invece per i cantori di questa società sarebbe nel serrare i ranghi nell’esaltazione del bene della <comunità> e/o della <nazione> contro il nemico interno ed esterno, che siano i no vax o gli anarchici, gli immigrati o i <putiniani> e chi non se ne accorge e non ne gode è responsabile e se si ribella rientra nel campo del penale e del patologico.

E’ demonizzato ogni tentativo passato o presente di cambiamento che prenda le mosse da un’idea di soggetto che voleva e vuole sottrarsi alla mercificazione della vita portata a sviluppo nella sua totalità con il neoliberismo, forma compiuta e attuale dell’autoespansione del capitale.

Impostazione che relega ogni forma di opposizione e di alterità nel campo del nulla e dell’inutilità.

Si teorizza la fine di ogni possibilità di lotta, di liberazione o di invenzione.

In questo contesto il separatismo femminista ha una rilevanza vitale perché, come pratica di sottrazione rispetto al maschile dominante, svela la natura strutturale dell’oppressione di genere, ribadendo l’origine socio-economica dei ruoli e di quelli sessuati, smascherando il tentativo di riduzione della lotta delle donne ad una generica conflittualità tra i sessi che dovrebbe essere risolta secondo la visione riformista/neoliberista attraverso un collaborativo confronto fra maschile e femminile con l’annullamento delle differenze politiche, dei ruoli nella società, della storia e della memoria della conflittualità, non solo di genere, e della divisione in classi della società.

La scomparsa o il tentativo di rimuovere il desiderio di lottare si accompagna al venir meno della speranza di una vita migliore, cammina con la sussunzione reale della vita al neoliberismo.

Per questo assume un’importanza fondamentale il recupero della storia e della memoria del movimento femminista, storia e memoria che vengono stravolte, manipolate, falsificate riducendo la trasgressione femminista ad un percorso di emancipazione dai tratti deterministici dove il miglioramento della nostra condizione sarebbe graduale e ineluttabile in una società che progredisce nell’attenzione alle diversità e ai diritti.

In questa società il soggetto tende a rimpicciolirsi mimetizzandosi nelle pieghe dell’esistente a cui pare non possa più opporre niente e tanto meno inventare qualcosa d’altro.

Sarebbe la fine di ogni possibilità di liberazione.

Tutto passa attraverso le Istituzioni e dentro le Istituzioni, nella partecipazione a queste ultime. Il collaborazionismo, cioè la partecipazione attiva alle sorti di questa società, è l’unica strada lasciata aperta dal potere.

Ma, proprio da questa situazione nasce la necessità, anche solo reattiva, di dire no all’angoscia mortifera che accompagna la vita.

E’ necessario spezzare la “normalità” in cui ci vogliono imbrigliare cercando, trovando, creando fessure, crepe, spiragli, squarci che si aprono ogniqualvolta c’è, della normalità, una sospensione.

Nei momenti in cui si rompe il meccanismo di assuefazione, per motivi che possono essere occasionali o provocati…. che possono avvenire nella vita quotidiana o nelle lotte, si aprono scenari e immaginari oltre la ragionevolezza, oltre la possibilità.

Tanto più si cantano peana a questa società come migliore dei mondi possibili e orizzonte insormontabile, si sbandierano sulla stessa giudizi positivi che presuppongono tutt’al più qualche miglioramento, che magari coincide con quello personale o di categoria, tanto più è necessario l’impegnarsi che è addirittura di sopravvivenza e il sottolineare la differenza e l’alterità che nascono dalla consapevolezza del dolore, delle lacerazioni, delle sofferenze in cui sono gettati gli oppressi tutti e le donne in particolare.

E’ necessario recuperare la voglia di esprimere il desiderio e lo sforzo di realizzarlo.

Raccontata la presunta realizzazione delle nostre aspettative, siamo precipitate nello smarrimento e nello spaesamento e, nella sua impudenza, il sistema non solo pretende che si debba accettare la realtà, ma che si debba prendere parte attiva alla rappresentazione teatrale.

Agli oppressi/e è negato anche ogni virtuoso impegno per il cambiamento che non passi per la cooptazione individuale, armi e bagagli, nelle file degli oppressori in un ruolo di servizio.

L’iper borghesia o borghesia imperialista si ripropone come nuova aristocrazia, riducendo alla disperazione, nel suo processo di autovalorizzazione, non solo le classi tradizionalmente sottomesse, ma anche le restanti frazioni della borghesia.

E’ stata spazzata via la vecchia rappresentazione del potere e delle gerarchie sociali nate dalla rivoluzione borghese.

Da qui la necessità di individuare le fessure, i momenti di rottura, i punti di fuga e di imparare ad esistere e resistere in questa società contemporaneamente feudale, aristocratica e nazista.

Abbiamo permesso ai conquistatori di questa società di distruggere tutte le forme di resistenza e, addirittura i segni e i segnali. Non ci sono più, o almeno così vorrebbero, cartelli segnaletici.

Ma noi pensiamo e dobbiamo oltrepassare la miseria morale, politica, economica di questa vita che è il nostro tempo.

Proprio nella stagione del disincanto dobbiamo trovare i motivi per recuperare e, magari, vivere, il desiderio e l’esigenza del paradiso perduto.

Dobbiamo ritrovare la dimensione del femminismo materialista, della lotta di classe attraverso pratiche politiche diffuse, critiche e creative, di cui è parte imprescindibile la denuncia delle forme date dal potere patriarcale e neoliberista, e produrre soggettività e solidarietà.

In questa società, mai così classista, razzista e patriarcale, dobbiamo porci i problemi decisivi della libertà, dell’esistenza e della vita dei/delle più. Problemi che non vogliamo e non possiamo eludere.

Praticare e diffondere la ricerca di altro e la critica all’insostenibilità di questa società.

Come femministe materialiste, senza illusioni ma senza remissione, diciamo ancora no e affidiamo la nostra vita alla nostra capacità di inventarla insieme con le altre.

Nulla è scontato. Nulla è dato una volta per tutte. Dentro l’attacco terroristico del dominio si svela la violenza delle Istituzioni che produce solitudine e disperazione, ma si riscopre anche il desiderio gioioso di negazione.

E’ sempre lo stesso vento che si leva a spingerci verso lo stesso obiettivo, la liberazione nostra e degli oppressi tutti.

La strada non è senza asperità e intralci, ma è l’unica che vale la pena di percorrere.

Se questa esistenza ha un senso è disconoscere che la sua esistenza sia giustificata e giustificabile.

Ci deve essere e c’è il senso dell’altro e, prima ancora, della possibilità.

Ogni cosa che è potrebbe anche essere diversa.

Il senso della possibilità è la capacità di pensare tutto quello che potrebbe essere, è sconfessare quello che è, è costruire quello che non è.

Tutto ciò disvela quanto falso sia tutto quello che le socialdemocratiche e le riformiste ammirano e quanto sia necessario ricomporre la ricerca di segni e tracce del possibile.

Questo passa attraverso la composizione di desiderio e passione, voglia e obiettivi. E’ l’unione tra il soggettivo e il senso del reale, la pratica di vita e la nostra immaginazione.

E’ negare le identità spacciate per presupposte e definitive e pensare ai nostri sogni, alle nostre differenze.

Il vivere non è statico, non è “moderno”, ma ne è l’attraversamento, il passaggio tra le fessure che permettono di individuare la possibilità di oltrepassare gli involucri del paesaggio stesso.

Questo dà il senso al femminismo materialista di superare l’orizzonte ostruito dalla siepe dell’emancipazionismo, una politica asservita alla conservazione dell’esistente e utilizzata come pratica di autopromozione.

Questo è un modo di impegnarci in cui vita e politica non siano separate, che si dipana nella trasformazione del possibile, che fa i conti con la pesantezza del momento, ma mette in pratica l’idea che un’altra società sia possibile.

E’ il rifiuto, senza compromessi dell’arroganza e intolleranza di questa società neoliberista che gattopardescamente tutto cambia per non cambiare niente e che ripropone il principio da rifiutare, il principio di sempre, del normativamente costituito, che rinnova il consenso e recupera la legittimazione di questa società razzista e patriarcale spostando sempre l’attenzione al passato e ad altri paesi, così da mascherare quelli che sono i suoi veri intenti.

E tutto si risolve nel correre a tamponare la crisi di legittimazione che questa società e il suo dominio hanno.

Un’impostazione che perpetua la dicotomia governanti/governati e si traduce, quando si ottiene qualche cosa, in una concessione da parte del potere.

Si perpetua, in un meccanismo che si riproduce, il rapporto Stato che detiene il potere e “altro” che sono i cittadini/e e, questi ultimi/e, diventano soggetto solo in quanto sono assoggettati. Si omette che lo Stato possiede il monopolio della forza che pretende legittima, e la esercita in maniera tale da essere, sì, legale, perché legalmente convalidata, ma illegittima per la rottura del contratto sociale.

Per cui lo Stato reprime i popoli, le classi, i generi che disubbidiscono e si ribellano, ma non si limita a sottometterli e a punirli, pretende dagli oppressi il pentimento ed il riconoscimento della legittimità del dominio e, a questo scopo, servono i perbenisti, le componenti riformiste del femminismo, le prefiche della non violenza, le vestali della legalità, le ong, le onlus, i media, le reti della comunicazione.

La ri-legittimazione del dominio si presenta come la necessità prioritaria del capitale e si dispiega attraverso il neocolonialismo nei paesi del terzo mondo e nel disciplinamento e nella colonizzazione del quotidiano e dei territori nelle società occidentali.

L’adesione a questa offensiva a tutto campo di riaffermazione del dominio si presenta e vuole essere avallata come fondamento di ogni virtù.

Da qui la necessità di riaffermare la soggettività dei popoli, delle donne, degli oppressi tutte/i, la loro autonomia e la loro libertà per loro stessi/e e per gli altri/e.

Si tratta del diritto alla vita dei popoli e delle singole/i di fronte all’omologazione delle nuove forme di oppressione che qui e ora si manifestano e che producono sofferenza, chiusura dello spazio sociale, annullamento di ogni dissenso.

In pratica è necessario smascherare quella che è l’essenza dello Stato autoritario, la richiesta di ordine, di legalità che è divenuta debordante e che nega, all’origine, la partecipazione delle singole/i alla vita pubblica, se mai questa fosse possibile.

Uno Stato che reprime il diritto di ribellione, che pretende il riconoscimento del monopolio del dominio e della violenza e una legittimazione anticipata e concessa una volta per tutte alle sue scelte.

Per questo il femminismo materialista ha una funzione importante per indagare le forme attuali dei sistemi liberali e per venire così all’individuazione e ottenere i requisiti necessari all’affrancamento da questa società e alla costruzione di un’altra attraverso una radicale modificazione nei processi di socializzazione e nella stessa costruzione dei soggetti.

La storia ha le sue leggi e i suoi soggetti, e noi siamo parte del soggetto.

Il femminismo o è liberatorio o non è.

Mai c’è stato bisogno del femminismo materialista e del separatismo come in questa stagione buia della vittoria della società del capitale e del patriarcato attuata attraverso i socialdemocratici/che e i riformisti/e.

Viviamo nella negazione appassionata del presente e del desiderio felice nel presente per il futuro e lungo questo cammino troveremo anche le anticipazioni del nuovo, nella pratica sovversiva comune.

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