Sulla nave dei folli

Sulla nave dei folli

<Quando, come scrisse Ingeborg Bachmann in una sua splendida poesia, «l’inaudito è divenuto quotidiano / e l’ombra d’eterno riarmo ricopre il cielo», non è più possibile né scansarsi né transigere. Bisogna scegliere.>

ilrovescio.info

Mai come in questo periodo ci sentiamo come il mozzo di cui parlava Theodore Kaczynski nel suo racconto La nave dei folli. La storia è nota. La nave – metafora della società tecno-industriale – sta procedendo verso degli iceberg su cui è destinata a frantumarsi. Il mozzo lancia l’allarme ai suoi compagni di viaggio, cercando di far capire loro che cambiare rotta è l’unica scelta che contiene tutte le altre (dove approdare e come cambiare i rapporti tra l’equipaggio; insomma quelle questioni di libertà, uguaglianza e solidarietà che si pongono agli umani fin da quando esistono il dominio, la gerarchia, lo sfruttamento). Il resto dell’equipaggio elenca i problemi a suo avviso ben più gravi e urgenti da risolvere: le differenze di salario, il razzismo, il sessismo, l’omofobia e la brutalità verso gli animali. Insistendo sul fatto che per cambiare la vita sulla nave è necessario che una nave ancora esista – e cioè che la priorità di cambiare rotta fa diventare secondarie tutte le altre giuste rivendicazioni – il mozzo diventa l’oggetto degli strali incrociati da parte dell’equipaggio: reazionario, specista, omofobo, sessista! Gli insulti risuonano ancora mentre la nave si frantuma contro gli iceberg e si inabissa.

Come nel precedente La società industriale e il suo avvenire (il cosiddetto manifesto di Unabomber, la cui paternità, a onor del vero, Kaczynski non ha né smentito né rivendicato) e nei successivi Colpisci dove più nuoce e Anti-tech revolution, la parte presa di mira è soprattutto la sinistra, rappresentata fino al parossismo dall’equipaggio della nave. Data la sua natura “sovra-socializzata”, riformista e progressista, la sinistra è condizionata secondo Kaczynski a diventare la principale stampella del tecno-capitalismo, il quale nasconde i propri programmi di disumanizzazione attraverso le sue seducenti promesse di superamento di ogni limite e di espansione dell’Io. Dire che ci siamo in pieno è oggi persino banale.

L’attuale naufragio intellettuale, etico e pratico della sinistra e dell’estrema sinistra di fronte all’Emergenza – un sistema di governo che funziona da vero e proprio acceleratore dei programmi tecnocratici – ha radici lontane. Aver considerato a lungo lo sviluppo delle tecno-scienze come una variabile secondaria dello scontro di classe – quando non addirittura un apparato di conoscenze e di mezzi riorientabile in senso emancipatorio – non permette ora di cogliere i prodotti concreti dietro l’etichetta con cui vengono venduti. Visto che sull’etichetta c’è scritto “vaccini”, si continua a pensare ciò che già si pensava dei vaccini contro il vaiolo o la poliomielite. Il fatto che quelli a m-RNA siano piattaforme biotecnologiche (software of life, nel linguaggio dei genetisti) che introducono nei corpi informazioni genetiche – e non virus disattivato o attenuato – appare del tutto irrilevante. La critica della Scienza non è forse un’attitudine reazionaria? Ci hanno detto che il “green pass” serve a contenere i contagi da Covid-19, e dentro quella cornice si dibatte pro o contro. Che i progetti di passaporti tecno-sanitari – e più in generale la creazione di un’identità digitale da affibbiare a ciascun umano – precedano sia l’epidemia da Sars-Cov-2 sia la vaccinazione di massa sono “dettagli” che non entrano nel dibattito. Lo stesso si può dire delle analisi dedicate al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Vi si legge la continuazione delle solite politiche neoliberali, dentro le quali si assorbe senza difficoltà la digitalizzazione dell’industria, dell’agricoltura, della pubblica amministrazione e della Sanità. Eppure basterebbe poco per capire che oggi l’Intelligenza Artificiale e i suoi algoritmi sono il motore della finanza, della produzione, della comunicazione, della logistica, della ricerca medica e dell’agribusiness. Ecco qualche esempio.

«Più del 40% dell’attività online è già gestita da automi. L’Internet delle cose naturalmente accelera l’attività non umana: nel 2023, le connessioni fra macchine (si parla anche di M2M, “machine to machine”), in particolare nelle case iper-connesse e sulle automobili intelligenti, dovrebbero rappresentare la metà delle connessioni sul Web».

«Nel settore finanziario, la speculazione automatizzata rappresenta il 70% delle transazioni globali e fino al 40% del valore dei titoli scambiati. Stiamo passando da una rete usata da e per gli esseri umani a un Internet gestito da, e magari per, le macchine [corollario ecologico: «il fatto è che i fondi guidati dalle macchine distruggono l’ambiente più di quelli guidati dagli umani»]».

«Nel 2017, un fondo di Hong Kong, Deep Knowledge Ventures, ha annunciato la nomina di un robot, chiamato Vital, nel suo consiglio di amministrazione. Nessuna decisione sarà più presa senza un confronto con la sua analisi».

(Le citazioni sono tratte da L’Enfer numérique. Voyage au bout d’un like di Guillaume Pitron).

L’iceberg verso cui sta andando a schiantarsi la nave non è solo il collasso ecologico, dunque, ma l’espulsione degli umani dalle scelte e dai conflitti della vita. Anzi, il primo è accelerato dalla seconda, mentre la seconda occulta il primo con un manto green.

La favola di Kaczynski, benché abbia un finale tragico, dà una rappresentazione insieme caricaturale e rassicurante del conflitto sociale. I protagonisti del racconto sono tre: la dismisura tecno-industriale, la lucidità del mozzo e la litigiosa miopia del campo progressista. Sulla nave dei folli reale, tuttavia, le cose stanno in maniera ben diversa, come mostrano in modo particolarmente lampante questi ultimi mesi in Italia e nel mondo. C’è una parte dell’equipaggio che non insulta il mozzo, ma lo incoraggia con parole oscene: «Hai ragione, cambiamo rotta! Sottraiamo la nave ai destini imposti dall’élite globalista e facciamo tornare l’equipaggio – capitani, cuochi e lustraponti – un’autentica Nazione!». Mentre qualcun altro, rivolto ai marinai che si lamentano, rincara: «Sono le vostre idee sul genere e contro la famiglia tradizionale che ci stanno portando dritti contro l’iceberg!». Ben più difficile, insomma, indossare i panni dell’eroe (per quanto tragico) nel mondo reale dei conflitti. La semplificazione operata da Kaczynski non è una dimenticanza, ma una scelta ben precisa. Nei suoi vari scritti, infatti, ciò che egli rimprovera alla destra è di non essere realmente contro il progresso tecno-industriale, ma solo contro alcune delle sue manifestazioni. Ora, Kaczynski non è anarchico, come dimostrano gli esempi storici a cui secondo lui si dovrebbe ispirare una rivoluzione anti-tecnologica: i modelli politici e organizzativi dei giacobini e dei bolscevichi. Insomma, stabilito il fine (l’abbattimento del sistema tecnologico), il percorso verso l’obiettivo è improntato a un unico criterio: l’efficacia, senza alcuna considerazione sul rapporto di coerenza etico-pratica tra i mezzi e i fini. Il che non solo riproduce in pieno il machiavellismo tipico dei rivoluzionari autoritari, ma accetta inconsapevolmente uno dei fondamenti dello stesso apparato delle tecno-scienze, cioè l’efficacia dei risultati come valore in sé. È ben curioso che questa contraddizione sia stata poco sottolineata dagli editori dei suoi scritti (fossero o siano essi dei surrealisti, l’Encyclopédie des Nuisances, dei primitivisti anarchici o degli anarchici tout court). È senz’altro vero che il centro dell’analisi di Kaczynski riguarda quell’insieme di problemi che nessuno che aspira alla trasformazione radicale della società può ignorare. Ma il problema del come e del con chi attuare quel cambiamento non è certo da meno. Visto che tanti sinistri hanno letteralmente mandato in lockdown i loro cervelli, accettiamo per questo collaborazioni con i reazionari? E chi sono, oggi, i reazionari?

La critica radicale della tecno-industria precisa e attualizza la critica anarchica storica dello Stato, delle classi, della gerarchia. Ma non la sostituisce.

Oggi il contesto è quanto mai melmoso. Se da un lato persino parti del movimento libertario scivolano sul terreno del transumanesimo (ci sono addirittura dei tecno-mentecatti che hanno redatto un vero e proprio Manifesto anarco-transumanista…), dall’altro non mancano i rosso-bruni – più o meno mascherati – che ci strizzano l’occhio. Questa melma è profondamente storica (prodotto di una certa fase del capitalismo e di un attacco senza precedenti a tutte le facoltà umane: alle percezioni, ai sentimenti, al pensiero, ai corpi, alla capacità di associarsi…) e non la si scalza semplicemente con gli anatemi o con qualche cautelativa lista di anti-(fascista, sessista, razzista ecc.). Tanto meno con i riflessi pavloviani: se di certi temi si occupano anche i reazionari, allora noi parliamo d’altro.

La mobilitazione contro il lasciapassare “sanitario” è, da questo punto di vista, un buon indicatore (sia degli iceberg che si avvicinano, sia degli umori che serpeggiano tra l’equipaggio della nave).

I termini del conflitto (l’intreccio tra sperimentazione biomedica ed estensione del controllo digitale), la sua natura “mostruosa”, così come il fatto che i posizionamenti di tanta estrema sinistra stiano favorendo il gioco di fascisti, rosso-bruni e reazionari vari: tutto questo era facilmente prevedibile. Non grazie a chissà quale sagacia della teoria rivoluzionaria, ma in base a due elementi ricavabili osservando le dinamiche invece di sprofondare nei dettagli. Il primo elemento è che il comando tecnocratico, una volta inserito il “pilota automatico”, dichiara come “ipotesi da non escludere” ciò che sta già realizzando, rendendo in tal modo le sue mosse anticipabili. Il secondo è semplicemente il rovescio del primo: se non si fa saltare l’intero “cronoprogramma” (prima il confinamento con le fabbriche aperte, poi il coprifuoco, poi la nomina di un generale Nato quale Commissario straordinario per l’Emergenza…), per una singolare coerenza al ribasso si accetta anche il lasciapassare, l’ultima – per ora – mossa del quadrante dei comandi.

Ecco qualche spunto:

«Poco importa se il parlamento europeo ha acconsentito ad usare vaccini e trattamenti anti-Covid a base OGM: dopo decenni di lotte per bloccare l’entrata degli OGM nell’agricoltura e nei piatti, adesso, per via della grandissima minaccia coronavirus, con tanta naturalezza – pure con il plauso generale! – verranno iniettati direttamente nei nostro corpi, con conseguenze imprevedibili. Poco importa se tutto ciò significa una restrizione delle, non certo larghe, libertà che abbiamo; perché al di là delle chiacchiere sull’obbligatorietà o meno, siamo sicuri che non ci saranno penalizzazioni di alcun tipo (se non proprio pecuniarie, di limitazione negli spostamenti, ecc.)?» (“L’impazienza”, n. 4, ottobre 2020).

«Il messaggio è chiaro: se non lo accettate di buon grado per “spirito di responsabilità”, ve lo faremo accettare per forza. Magari non con un obbligo diretto, ma con la coercizione indiretta: il governatore della Campania ha già predisposto un nuovo tesserino sanitario che permetterà ai soli vaccinati di avere accesso a certi luoghi o servizi. Insomma, il sistema cinese del “credito sociale” si avvicina» (Note urgenti contro la campagna militar-vaccinale, ilrovescio, gennaio 2021).

«I fatti di Capitol Hill aumenteranno la forza di richiamo “anti-sistema” del trumpismo anche in settori meno (o per nulla) borghesi. […] Il modo in cui si risponderà alle misure governative sul Covid-19 (a partire dalla campagna “militar-vaccinale”) deciderà non poco in che direzione andrà lo scontro. Pensiamoci. Davvero» (Sui fatti di Capitol Hill, ilrovescio, gennaio 2021).

«Niente meno che un rampollo dei Kennedy ha arringato la folla [a Berlino] contro la “dittatura sanitaria” chiamando nei fatti ad appoggiare i campioni della libertà di stanza a Washington. Il che, ovviamente, non esaurisce le ragioni e, soprattutto, l’eterogeneità della composizione sociale della protesta, che dovrebbe rivitalizzarsi a seguito di una campagna vaccinale mRna che sempre più sembra assumere i connotati di una sperimentazione biopolitica su scala di massa» (da una nota contenuta nel Dopo Trump di Raffaele Sciortino, gennaio 2021).

«Poniamo allora che un infermiere e un’insegnante iscritti a quel sindacato [USB] decidessero di rifiutare di farsi somministrare il vaccino mRNA e per questo venissero minacciati di sanzioni o di licenziamento: come verrebbero difesi da chi li considera dei tarati mentali che capiscono solo “con un po’ di spavento”? Se costui o costei non ha una specchiata “coscienza politica”, ma non si fida della scienza di Stato, si rivolgerà magari a qualche gruppo che si dichiara contro la “dittatura sanitaria”. E poi ci si meraviglia dei successi del trumpismo anche in campo proletario…» (La posta in gioco, ilrovescio, febbraio 2021).

«Rispedire al mittente l’obbligatorietà [della vaccinazione per il personale sanitario] è importante per tutti: altrimenti, tra un po’ di tempo, senza pass vaccinale non si andrà nemmeno al ristorante…» (Fermiamo la Vaccelerazione, Collettivo salute e libertà, aprile 2021).

Prima di soffermarci sulle “piazze no green pass” come prisma di questa fase storica, facciamo qualche passo indietro e cerchiamo di riannodare un po’ di fili.

Negli anni scorsi abbiamo dedicato alcune analisi a quella che chiamavamo mobilitazione reazionaria. Non ci riferivamo a un presunto rischio di ritorno a modalità fasciste di governo – l’involucro democratico resta la forma più adatta per la dittatura dei capitalisti, dei tecnocrati e dei militari –, bensì ai sentimenti che si agitano nella società e alle espressioni che assumono le proteste. Ora, quei sentimenti e quelle espressioni non si distinguono nettamente dalle più generali illusioni riformiste e legalitarie, ma hanno alcune specificità, le quali attualizzano determinati “miti” storicamente fascisti e allo stesso tempo riflettono gli scontri in atto tra le diverse fazioni del capitale e del potere. Pensiamo al concetto mussoliniano di “produttore” contrapposto a quello di “speculatore”. Il “produttore” in senso fascista – versione nazionalizzata del discorso proudhoniano e soreliano – comprende sia il salariato sia il capitalista in quanto figure complementari e necessarie alla ricchezza nazionale. Il “sindacalismo nazionale” è allora quella forma di contrattazione con cui si realizza la sintesi tra gli interessi dei lavoratori e quelli dei capitani d’industria. La speculazione finanziaria è, al contrario, l’impresa apolide i cui profitti depredano invece di arricchire le nazioni. Si tratta appunto di “miti”, perché nel mondo reale del profitto non c’è alcuna separazione tra il capitalismo industriale e il capitalismo finanziario. Di questi “miti” esiste anche una versione di sinistra, che non è solo quella togliattiana, ma anche gramsciana: la classe operaia come soggetto storico che può realizzare compiutamente gli interessi della nazione, contro una borghesia che frena, per le proprie esigenze di profitto, lo sviluppo della produzione e dell’industria nazionali. Il fatto che l’attuale “sovranismo” sia un Giano bifronte – con una faccia di destra e una di sinistra – non deve sorprendere. L’illusione di poter contrapporre gli interessi nazionali – e in quel quadro tornare a disporre di un maggiore potere contrattuale nei confronti del proprio padronato – alla “dittatura” del capitalismo finanziario “mondiale”, la cui ferocia è direttamente proporzionale all’intelligenza delle macchine che incorpora, non è campata per aria: è il riflesso delle difficoltà proletarie a lottare sul piano internazionale e dei proletari a concepirsi e a battersi in quanto umani.

Il processo storico incrociato di digitalizzazione della società e di ingegnerizzazione dei corpi attacca le facoltà della specie umana nella misura in cui affonda il proprio tallone di ferro classista. Sono dei corpi poveri e di colore che devono sfinirsi nelle miniere di coltan, nei campi OGM o nei magazzini della logistica affinché il capitale totale possa alienare l’intera umanità. È per il ruolo che svolgono nella società – non certo per le loro pretese virtù intrinseche – che gli sfruttati possono liberare se stessi solo liberando l’umanità – e viceversa.

Facciamo a questo punto una rapida incursione nella protesta contro il “green pass”.

Perché dentro una mobilitazione interclassista in cerca di “contro-poteri” uno più illusorio dell’altro (la Costituzione, la magistratura, i poliziotti buoni, Norimberga…) si è formato un vero e proprio “mito” dei portuali? Non certo per l’ideologia di questo o quel lavoratore del porto, ma perché i portuali possono far male all’economia e quindi al governo; perché possono far male a partire dal proprio luogo di lavoro; perché la loro azione può essere efficace senza essere “violenta” (il tabù della “violenza” accompagna da decenni ogni protesta di massa, almeno qui in Italia). Ma non basta di per sé la discesa in campo di un settore di classe e di un elemento di forza per dissipare le illusioni “sovraniste”. Ed è ridicolo separare in modo manicheo lavoratori da un lato e forze reazionarie o fasciste dall’altro; non solo perché, banalmente, anche i fascisti possono essere dei salariati, così come degli sfruttati possono avere delle idee reazionarie, ma anche perché è proprio sul rapporto tra individui, classe e umanità che agiscono sia la mobilitazione reazionaria in atto da tempo sia l’ideologia democratica. Senza un allargamento del conflitto – e stendiamo qui un velo pietoso su quei settori del sindacalismo di base che hanno deliberatamente scelto di non ingaggiare sul proprio terreno la battaglia sociale contro il lasciapassare, preferendo la vertenza sindacale sui tamponi gratuiti pagati dalle aziende –, il lavoratore (anche quando si muove per un giusto e lodevole senso di solidarietà) è circondato dai vampiri: sia quelli che ne fanno un alfiere della Costituzione sia quelli che ne fanno un “eroe della Nazione” contro le “élite globaliste” (anzi, è proprio in mezzo ai primi che i secondi riescono abilmente a nascondersi). Il vampirismo si fa largo offrendo appoggio materiale, ad esempio fornendo quella copertura per gli scioperi che né i sindacati di base né, tanto meno, quelli di Stato hanno voluto garantire. È il caso della FISI (Federazione Italiana dei Sindacati Intercategoriali), nata dalla convergenza tra fascisti dichiarati e alcuni elementi provenienti dal “sovranismo di sinistra”. Aggiungiamoci il lavoro sistematico dei media per “perimetrare” la protesta contro il lasciapassare stamburando di continuo le equazioni no green pass=no vax=complottisti=estrema destra1, condito con la più grottesca e menzognera allerta “antifascista” (a difesa, tanto per cambiare, della Costituzione, che tradotto in concreto significa: dell’unità nazionale) e la nebbia si fa ancora più fitta.

Benché non manchino, in Italia come a livello internazionale, dei veri e propri think tank cospirazionisti (e la loro influenza si può riconoscere facilmente dai discorsi che circolano nelle piazze), il cosiddetto “complottismo” – parola che è ormai un vero e proprio ordigno concettuale nella guerra psicologica condotta dalla macchina politico-militare-mediatica contro ogni forma di resistenza – è anche l’espressione di un bisogno sociale: quello di spiegarsi gli eventi storici in modo semplificato. Il motivo non è misterioso. La conclusione per cui solo una rottura rivoluzionaria può preservare il Pianeta e insieme la nostra comune umanità non solo è poco di moda, ma è difficile da declinare nella solitudine delle personali battaglie quotidiane contro il capitale totale. È certo più rassicurante attribuire la perdita vertiginosa di ogni potere sulla propria vita e sui propri corpi a Bill Gates o ai transumanisti di Google che alle dinamiche strutturali di un intero sistema sociale. Ma questo non vale solo per le piazze “no green pass”. Vale anche per gli operai che attribuiscono il proprio licenziamento alla particolare rapacità speculativa della multinazionale che chiude uno stabilimento in piena produttività, chiedendo al governo di intervenire contro un tale “scandalo”.

Più ci si allontana dal conflitto economicistico-sindacale e si procede verso terreni di scontro che necessitano di un giudizio etico-sociale sul mondo in cui viviamo, e più saltano gli schemi. Ai progetti transumanisti (che corrispondono sì a determinate fazioni del capitale, ma che tracciano la via per tutto il dominio capitalistico2) non si può contrapporre il negoziato sindacale più o meno radicale nelle sue forme, bensì una visione dell’umano, della natura e della storia. Ed è lì che il progressismo di sinistra mostra i propri elementi comuni con ciò che la tecno-industria afferma di perseguire (un dirigente di Google può tranquillamente aborrire le discriminazioni di genere, perché per lui gli esseri umani sono tutti uguali: macchine). Ma è anche lì che la critica rivoluzionaria delle tecno-scienze condivide suo malgrado dei “no” con l’estrema destra e con l’integralismo cattolico (sulla manipolazione genetica, ad esempio). Ed è sempre lì che le proteste contro il cambiamento climatico incrociano le esigenze di un certo capitalismo di investire in nuove tecnologie (i tecnocrati non fanno per nulla “bla, bla, bla”, bensì trasformano ogni emergenza in una fuga in avanti verso la conquista di nuovi terreni di profitto e di dominio). Ecco allora che un primo ministro atlantista può permettersi addirittura di ringraziare gli attivisti contro il cambiamento climatico (perché “indicano la rotta”), il che permette ai bruni e ai “rossi” per cui l’alternativa è Putin di presentare quegli stessi attivisti come pedine dell’élite globalista…

Ora, certe pretese “convergenze” non sono una novità storica in senso assoluto. E nemmeno il loro sfruttamento da parte delle diverse fazioni capitalistiche in guerra. Di fronte all’insurrezione ungherese del 1956, gli anarchici e i marxisti rivoluzionari, che la difesero in quanto proletaria, anti-burocratica e anti-capitalista, dovettero sfidare i tiri incrociati e le trappole di tutte le ideologie. Gli stalinisti presentavano infatti i ribelli magiari come fascisti, gli atlantisti come democratici e i fascisti come nazionalisti e anti-comunisti. Non che mancassero, a Budapest come nelle altre città d’Ungheria, i richiami alla democrazia o le bandiere nazionali (e nemmeno i “bianchi”, i monarchici ecc.), ma l’elemento che faceva paura tanto ai padroni dell’Est come dell’Ovest era ben altro: una rivolta di operai armati e decisi a “far da sé”.

Oggi, di fronte al feroce attacco sferrato alle condizioni dei salariati e alle facoltà degli umani in quanto tali, i tiri incrociati e le trappole si fanno ancora più subdoli. Così, mentre si applica agli umani una versione attenuata del trattamento che si infligge da tempo agli animali negli allevamenti industriali (se ai secondi – come ha notato con acume qualcuno – si inseriscono direttamente dei microchip tramite vaccinazione per poterli tracciare con gli scanner, ai primi si impone di esibire di continuo un QR code per poter verificare tramite una app dello smartphone se si sono vaccinati), migliaia di “scappati di casa” denunciano che l’obiettivo è il controllo delle popolazioni, derisi da certi intellettuali e militanti di sinistra per i quali il lasciapassare tecno-sanitario non sarebbe niente di diverso dalla patente di guida…

Cosa ci suggerisce il fatto che le proteste contro il “green pass” siano forse le più criminalizzate, mistificate, distorte e derise degli ultimi decenni? La paura che si sviluppi, tra lo sporco di alcune sue forme immediate, una diffusa resistenza al mondo-macchina (nel quale gli ordini digitali non si discutono: si eseguono). Che tale resistenza si nutra di “miti” democratici, reazionari o egualitari, di Costituzione, di San Michele Arcangelo o di Ned Ludd, per i tecnocrati è secondario (quando mai hanno avuto dei princìpi, loro). Il crimine di un tale resistenza è semplicemente quello di esistere.

L’Emergenza sta rafforzando in ogni ambito il paradigma cibernetico. La cibernetica – che è, come suggerisce l’etimologia, l’arte di pilotare – nasce storicamente dalla fusione di diversi settori: il complesso militare, l’organizzazione scientifica della produzione e la psicologia comportamentistica, decisa a diventare una vera e propria fisica sociale. Si tratta dell’“utopia capitale” di ricavare dei dati sempre più “esatti” dai comportamenti umani al fine di organizzare in modo scientifico e razionale l’intero sistema sociale. In altre parole, di fare della società un laboratorio permanente la cui gestione va affidata agli esperti. L’intento dichiarato è quello di farla finita con la “politica” – i cui dissidi derivano dalla molteplicità delle opinioni e dei giudizi di valore, nonché dalla distribuzione troppo casuale dei ruoli di comando e di esecuzione. A un tale caos umano, troppo umano, la macchina cibernetica oppone criteri “oggettivi” – cioè non discutibili – di organizzazione. Per realizzare tale “utopia” – un laboratorio che funzioni senza ostacoli – è necessario superare due barriere culturali: il “mito” dell’individualità e quello della natura. Con quel che ne consegue: scomposti nei fasci di reazione che caratterizzano la loro vita, gli esseri umani possono essere educati ed organizzati da un preciso sistema di stimoli e di disincentivi; non è possibile assegnare in anticipo dei limiti etici e sociali (cioè “soggettivi”) agli esperimenti scientifici. Si procede e si vede strada facendo. L’invenzione del DNA ha fornito a questo programma di scomposizione dell’unicità degli individui una sorta di esattezza molecolare: il genoma con le sue leggi. Per smontare ogni idea di “natura” (quel “tessuto di necessità” su cui gli umani possono sì intervenire, ma che non possono né abolire né fabbricare), invece, la cibernetica ha messo al proprio servizio i contributi della filosofia post-strutturalista. Lo sviluppo delle tecnologie digitali e dell’ingegneria genetica – con la presenza discreta dei militari – è riuscito poi a ridurre l’intera realtà a un flusso di informazioni. E per chi oppone dei princìpi (religiosi, umanistici o rivoluzionari), gli anatemi sono già pronti: “essenzialista” e reazionario. Per chi non ha princìpi, invece, non esistono limiti, ma solo il calcolo di costi e benefici.

Come aveva lucidamente intuìto Simone Weil, se scivoliamo dai «doveri verso l’essere umano» – quei princìpi per lei sovrannaturali e per noi interamente terrestri – al negoziato dei “diritti” sulla base di ciò che è tecnicamente realizzabile, siamo già entrati inconsapevolmente nel Laboratorio.

Il paradigma cibernetico avanza sempre in nome di un bene superiore. D’altronde, come faceva notare qualche anno fa lo scrittore afroamericano Ta-Nehisi, «non è mai esistita un’età dell’oro in cui i malvagi facevano il loro mestiere sbandierandolo ai quattro venti come tale». Per questo alla domanda del padrone se deve prevalere il diritto individuale alla libertà o quello collettivo alla salute, è necessario rifiutarsi risolutamente di rispondere. Il nostro classismo non contesta semplicemente questa o quella misura governativa, ma il fatto stesso che lo Stato si presenti come garante del “bene comune”; il nostro umanesimo si basa su un’idea altra sia di libertà sia di salute.

Dal momento che il capitalismo non può – pena l’abolizione di se stesso – rimuovere le cause strutturali delle epidemie (deforestazione, concentrazioni urbane sempre più smisurate, allevamenti intesivi, cibo adulterato, costante aggressione chimica al sistema immunitario ecc.), ne tampona unicamente gli effetti. Nel farlo, ovviamente, impone dei provvedimenti che seguono delle direttrici di classe – e di genere – ben precise, chiedendo nel frattempo alla tecno-scienza di approntare qualche rimedio per andare avanti. I rimedi che la tecno-industria mette a disposizione non riflettono solo gli interessi e la concorrenza ineliminabili nel sistema capitalistico, bensì incorporano sempre una certa visione dell’umano, dei corpi e della natura. (Come abbiamo visto sopra, questa visione è da tempo interna al paradigma cibernetico, nel quale tutto – dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo – è considerato un flusso di informazioni3). Ma tra l’obiettivo di preservare il sistema e i mezzi tecno-scientifici impiegati per realizzare tale obiettivo avviene anche altro. La tecno-scienza non si limita a mettere a disposizione le proprie innovazioni per risolvere una qualsiasi “crisi”, ma fa della “crisi” un’occasione irrinunciabile per “sdoganare” quelle innovazioni che a quote più normali non sarebbe riuscita ad imporre. Proprio perché “l’utopia capitale” si spinge fino a fabbricare la materia vivente stessa (corpi compresi), c’è bisogno di un nuovo umanesimo per resistere contro quella bufera che nelle Emergenze soffia con ancora più ferocia.

I mesi che stiamo vivendo sono davvero «una cronaca che odora di storia» (Stefania Consigliere). La logica cibernetica del problem solving non è solo il punto verso cui converge il tecno-capitalismo, ma anche la “scatola nera dei dati” che permette ai governanti di giustificare ogni misura classista e anti-umana in nome dell’“oggettività” e della “dura necessità”. Avendo tra le mani uno strumento che può azzerare ogni dissenso (queste non sono opinioni, sono numeri!), perché mai capitalisti e tecnocrati dovrebbero rinunciarvi senza che il conflitto sociale li costringa a farlo? Non siamo forse già entrati in “emergenza climatica”? Non vorranno mica, gli anticapitalisti, essere confusi con i “negazionisti” del riscaldamento globale? In questo gioco truccato delle parti, non è previsto alcuno spazio per chi afferma, con il poeta: «mi rifiuto di mettere ordine in un porcile».

La “scatola nera dei dati” – che non possiamo smentire perché non siamo in grado di controllare – è oggi al governo della nave. Di cosa possiamo essere sicuri, noi poveri mozzi, se non dell’esperienza che facciamo insieme lottando per cambiare rotta?

La buona notizia è che le idee – dopo decenni in cui si poteva opinare più o meno a buon mercato su tutto – sono costrette a incorporarsi nei gesti quotidiani, a prender forma in ben riconoscibili minima moralia (non rispettare il coprifuoco, non rinunciare agli abbracci, non scaricare il lasciapassare…).

Quando, come scrisse Ingeborg Bachmann in una sua splendida poesia, «l’inaudito è divenuto quotidiano / e l’ombra d’eterno riarmo ricopre il cielo», non è più possibile né scansarsi né transigere. Bisogna scegliere.

 

 

 

1) Tra gli innumerevoli esempi possibili, ne scegliamo uno locale. Il 10 ottobre scorso, a Trento come in tante altre città, si è svolto un presidio di solidarietà davanti alla Cgil in risposta ai fatti di Roma. In quell’occasione, un gruppo di anarchici e anarchiche si è presentato con uno striscione inequivocabile: «No fascismo / No green pass / Landini servo». I media, nel riportare l’accaduto, non hanno usato le categorie impiegate abitualmente per episodi simili: se non proprio “anarchici”, comunque “antagonisti” (magari “facinorosi”, “violenti” e finanche “terroristi”, ma di quella parte lì). Nella “nuova normalità”, invece, non si può proprio far sapere che è quella parte lì a schierarsi contro i fascisti, contro Landini e contro il lasciapassare. Chi è stato allora? Presto detto: «un gruppetto di no vax, no mask, no green pass». Non potendo dire “fascisti”, si deve alludere comunque a gente ambigua e torbida, mica come gli anarchici!

2) Per non trovarci noi per primi a prendere in parola le promesse totalitarie della tecno-industria, è necessario tener ben presente che questa “via” si scontra sia con le determinanti ecologiche (l’apparato digitale si fonda su di un estrattivismo sempre più feroce e abbisogna di una quantità crescente di elettricità) sia con quelle sociali-capitalistiche. La penuria di microchip e le rotture nelle catene globali della logistica just in time – così come lo sciopero non dichiarato di milioni di proletari che negli USA si rifiutano di lavorare a certe condizioni – sono lì a dimostrare che la macchinizzazione del mondo e degli umani è un processo tutt’altro che lineare e privo di ostacoli.

3) Viviamo da tempo nell’epoca delle paure, in quell’intreccio di angoscia e di fascinazione che rende così appetibili le serie o i film di genere distopico (guardando i quali ci schieriamo sempre, ovviamente, dalla parte dei ribelli). Come è stato notato (https://www.piecesetmaindoeuvre.com/spip.php?page=resume&id_article=1576), il timore che attraverso i vaccini OGM si stiano inserendo dei microchip nei corpi è indubbiamente paranoico, ma chi può escludere che si tratti di una paranoia in anticipo sui tempi? In Svezia, sono diecimila le persone che si sono fatte volontariamente impiantare dei microchip sotto pelle. Quanto al “contesto culturale”, si potrebbe scommettere che non pochi considererebbero già ora più pratico entrare in un bar mostrando il braccio invece di dover estrarre il proprio smartphone con il relativo QR code.

È davvero più “razionale” considerare del tutto innocua la sperimentazione su scala di massa delle tecnologie genetiche che esagerarne in modo paranoico gli obiettivi? Quali sono, poi, le conseguenze prese in considerazione nel famoso computo dei rischi e dei benefici? Non meriterebbe forse il nome di “scienza” un’indagine che si occupi degli effetti sociali complessivi? Tra questi si può già comprendere il fatto che gli OGM sono stati subito estesi – benché in silenzio – anche in agricoltura; che sono stati eseguìti i primi trapianti sull’uomo di organi animali geneticamente modificati per evitare le reazioni di rigetto; ecc. Ma è soprattutto l’idea cibernetica del vivente che guadagna terreno, come dimostra l’accelerazione sia nelle terapie digitali sia nella telemedicina.

Due parole, infine, su scienza e democrazia. Il Paese ideale per gli scienziati non è affatto quello “più democratico”, bensì quello che concede loro la più ampia “libertà di sperimentazione”. I genetisti o microbiologi americani ed europei invidiano i loro colleghi cinesi perché questi possono da tempo clonare gli embrioni umani o perché nelle loro ricerche sull’«aumento di funzione» dei virus (come quelle condotte nel laboratorio di Wuhan) non hanno nemmeno l’incomodo di aggirare qualche burocratica commissione di “bioetica”. Come la storia illustra generosamente, il Laboratorio ha una morale autosufficiente. I pretesi valori umanistici rimangono negli spogliatoi, assieme agli abiti borghesi.

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