Il problema del linguaggio ricorre spesso nelle analisi e nelle riflessioni sulle questioni di genere. Vi proponiamo due articoli di qualche tempo fa che sono di grande attualità.
SUL SESSISMO INCLUSIVO
https://nobordersard.wordpress.com/
Annick Stevens
Si diffonde sempre più l’idea secondo cui, per lottare contro il sessismo e il dominio maschile, occorra introdurre ovunque la scrittura inclusiva, ovvero scrivere nomi ed aggettivi al plurale coi segni grammaticali congiunti maschili e femminili. Vorrei che si riflettesse senza pregiudizi sulla fondatezza di questa pratica e dei suoi effetti.
A prima vista sembra ovvio che menzionando sistematicamente i due generi grammaticali si evita di escludere o discriminare uno dei due sessi. Tuttavia, rispetto alla pratica ereditata che consiste nel designare con un solo termine al plurale tutte le persone a cui si fa riferimento, la scrittura inclusiva introduce una dicotomia persino nei gruppi misti in cui la differenza sessuale non è rilevante. Considerata da questo punto di vista, è la pratica ereditata ad essere inclusiva e la contrapposizione binaria a risultare esclusiva.
L’effetto reale della scrittura cosiddetta inclusiva e di altre dichiarazioni dicotomiche è che in ogni momento si divide in due l’umanità sulla sola base del sesso biologico. Quando si scrive «i/le lettori-trici», «i/le lavoratori-trici» o «gli/le amici-che», così come quando diciamo «lettori e lettrici», «lavoratori e lavoratrici», «amici e amiche», non si fa che ricordare incessantemente a ciascuno che, qualunque cosa faccia e chiunque sia, è la sua categoria sessuale a costituirne il segno. Di più, si lascia intendere che le attività di leggere, di lavorare o di amare non siano le stesse se attuate da un uomo o da una donna. Si carica sessualmente il linguaggio per parlare di cose che non sono sessuate ma che sono comuni all’umanità, e così facendo si introduce nell’umanità una divisione fondamentale, onnipresente, ineluttabile. Il procedimento ottiene allora un risultato opposto alle intenzioni: rafforza l’idea reazionaria secondo cui un individuo sia determinato in primo luogo dal proprio sesso, ripercuotendosi la differenza sessuale su tutte le capacità, comportamenti e realizzazioni degli individui.
Il problema linguistico
Fino a poco tempo fa non c’era nessun problema nell’indicare un gruppo con un plurale grammaticalmente maschile, perché notoriamente per convenzione quel plurale è misto (e non neutro, ovvero né l’uno né l’altro) e, qualora si voglia indicare un gruppo esclusivamente maschile, allora si dovrebbe aggiungere una precisazione. Ora, diffondendo la pratica degli enunciati dicotomici, si genera un dubbio e un bisogno di precisazione in testi che finora si comprendevano subito come inclusivi, per consuetudine. Stiamo creando l’impossibilità di parlare dell’umanità come una sola.
Alcuni invertono il procedimento, utilizzando il femminile grammaticale per esprimere il plurale misto e contando sull’effetto sorpresa per «rendere visibile» un predominio che sarebbe nascosto. Ma qual è l’interesse di esprimere il misto attraverso un genere grammaticale piuttosto che con l’altro? Se il linguaggio avesse davvero un effetto di dominanza, a cosa servirebbe rovesciare quest’ultima?
Non è impossibile che, storicamente, l’introduzione del maschile come plurale misto fosse legata al predominio maschile nelle società dell’epoca. Tuttavia occorrerebbe uno studio linguistico approfondito che esaminasse tutta la varietà di espressioni del plurale misto nelle migliaia di lingue nel mondo e stabilisse una chiara relazione tra il sessismo nel linguaggio e il sessismo nella società. Di sicuro non è cosa immediata. Ma si può già osservare, se si considerano le lingue più antiche che conosciamo nel gruppo indoeuropeo, che il rapporto tra l’evidente predominio maschile in queste società e la prevalenza del genere grammaticale non è diretto ed univoco. In questi linguaggi a declinazione, alcuni casi hanno un’unica forma di plurale, comune per il maschile, il femminile e il misto, e in questi casi la precisazione sessuale, se necessaria, è data dal contesto o da un termine aggiuntivo. Nel corso della scomparsa delle declinazioni, i casi morfologicamente sessuati sono stati selezionati, comportando la generalizzazione del maschile come plurale misto; tuttavia, questa evoluzione non riflette un’intensificazione del sessismo in tali culture. D’altra parte, i Greci del V secolo già s’interrogavano con perplessità prima della nostra èra sull’origine dei tre generi grammaticali (maschile, femminile e neutro), che per la maggior parte delle parole non hanno alcuna giustificazione. Perché quindi ritenere che il linguaggio rifletta fedelmente lo stato mentale di una cultura, dato che non è un’istituzione stabilita da decisioni consapevoli e volontarie, quanto un processo evolutivo di cui gli utilizzatori ignorano l’origine delle particolarità morfologiche?
Certo, nulla impedisce di intervenire volontariamente in questo processo per uno scopo specifico, come si fa d’altronde quando si stabilisce l’ortografia e se ne formalizza un buon uso. Se fosse assodato che gli usi linguistici hanno un effetto sulle strutture sociali, sarebbe perfettamente consigliabile orientarli nel senso che si ritiene giusto socialmente. Ma è questo il caso? E soprattutto, in quale misura rispetto ad altri fattori del dominio?
Il problema del dominio
A riprova del dominio attraverso la lingua, prendiamo la famosa regola «il maschile prevale in grammatica». Alcuni testimoniano di aver vissuto l’apprendimento di questa regola come un’oppressione. Io ne ho un ben altro ricordo. Ogni volta che veniva evocata questa regola, nella scuola elementare, insegnanti e studenti di entrambi i sessi dicevano: «il maschile prevale… in grammatica!», indugiando in particolare sulle ultime parole con sguardi complici ed ironici, e non era necessario che un bambino pretendesse di prevalere negli altri aspetti. Lungi dall’avere un effetto di dominanza, la regola era l’occasione per riaffermare che quanto era vero in grammatica non era vero in altri ambiti, e che non si sarebbe tollerata alcuna discriminazione, di qualunque genere.
Pur ammettendo che il plurale maschile possa avere un effetto incoraggiante sulla discriminazione sessista, quanto peso avrebbe questa regola grammaticale in relazione a ciò che resta del dominio maschile nelle nostre società? Si sosterrebbe seriamente che la grammatica è un elemento importante nel mantenimento del «soffitto di cristallo» [espressione utilizzata per indicare le difficoltà di accesso a incarichi superiori da parte delle donne o di altre persone “svantaggiate”], nella violenza contro le donne, nella tentazione sempre rinnovata di giustificare «scientificamente» alcune differenti attitudini tra i sessi? È assai più chiaro che l’esigenza di una scrittura inclusiva e l’esacerbazione del dibattito che essa suscita distolgono l’attenzione da fattori di sessismo ben più determinanti ed impediscono di riflettervi in modo più sereno, più intelligente, e di conseguenza più efficace.
Per tutte queste ragioni, penso che in questa battaglia il femminismo sbagli bersaglio e lasci i suoi veri nemici alquanto tranquilli. Peggio ancora, si ritorce contro se stesso realizzando ciò che afferma di voler abolire, la divisione dell’umanità in due gruppi contrapposti.
Personalmente, rifiuto di essere inserita in una categoria dicotomica che si sovrapponga a tutte le altre anche quando la distinzione non abbia alcuna pertinenza con la questione. Sono molto felice di essere una donna, ma sono anche una miriade di altre cose indipendenti dall’essere una donna e non voglio che venga loro assegnato un segno femminile che le orienti quando non lo sono.
Irritata dalla velocità di diffusione della scrittura inclusiva negli ambienti «benpensanti», ho inteso far circolare alcuni argomenti che ne mostrino gli effetti perversi, per metterli a disposizione di tutte le persone che non osano più sottrarsi a questo procedimento per timore di essere considerate reazionarie, conservatrici, aggrappate al loro privilegio per gli uomini e alla loro sottomissione per le donne. Io rivendico il carattere convenzionale della lingua e insisto sull’urgenza di condurre una riflessione approfondita sulla lotta contro ogni dominio, cominciando ad identificarne le vere cause.
LA LINGUA COME ISTITUZIONE
Dumbles – feminis furlanis libertaris – Udine
Breve premessa:
Abbiamo recentemente ripreso a riflettere sulla lingua, ma lo abbiamo fatto da un altro punto di vista. Nei primi anni ‘90 le nostre considerazioni prendevano le mosse dalla nostra lingua-madre (il friulano), cancellata dalla lingua “nazionale” imposta, cioè dalla lingua di stato: l’italiano.
Qui un nostro scritto del 1993: http://www.ecologiasociale.org/pg/dum_li
Oggi, pur ritenendo quell’aspetto, (che allora configuravamo come “lingue tagliate”, minorizzate, cancellate, attraverso un inesorabile processo di colonizzazione), molto importante ed ancora degno di analisi; tentiamo invece un altro approccio, di certo non esaustivo, che ha come perno la discriminazione sessuale che è codificata nella lingua a danno soprattutto delle donne e che quindi si configura come prima violenza istituzionale, la più profonda e forse la più difficile da affrontare. Tenendo quello che sbrigativamente si usa definire “sessismo linguistico“, come obiettivo di analisi, non ci soffermiamo sulle differenze fra lingua, logos, parola, glossa, idioma, dialetto, linguaggio ecc; usiamo questi termini in modo generico e sicuramente, delle volte, forse anche improprio, ne siamo coscienti, ci teniamo ancora ad un livello poco raffinato proprio perché quanto tentiamo di fare è una prima identificazione del contesto nel quale collocare quel fastidioso segno discriminante. Questo è un work in progress che raffineremo nel corso del tempo con la riflessione nostra e con i contributi di donne che già ci hanno lavorato, per mestiere o per passione e con tutte quelle che con noi vorranno rifletterci su.
Intanto occorre tentare di definire, per quanto sia possibile che cos’è una lingua. Ci rimettiamo a Ferdiand De Saussure il quale dopo essersi posto la domanda: che cos’è la lingua? Risponde: “Per noi, essa non si confonde con il linguaggio; essa non ne è che una determinata parte, quantunque, è vero, essenziale. Essa è al tempo stesso un prodotto sociale della facoltà del linguaggio ed un insieme di convenzioni necessarie, adottate dal corpo sociale per consentire l’esercizio di questa facoltà negli individui (De Saussure Corso di linguistica generale, Bari Laterza 1979) E poi ancora: ….”la lingua è una convenzione … la lingua è un’istituzione sociale …” “La lingua esiste nella collettività sotto forma d’una somma di impronte depositate in ciascun cervello…” Perciò sintetizziamo brutalmente: la lingua è un’istituzione ed il cervello è la sua casa. E, potremmo dire, l’uno modifica l’altro e viceversa. “ Il cervello in generale è un sistema di super relazione. La complessità del sistema nervoso e la sua plasticità (cioè la possibilità indotta da un certo ambiente di modificarsi strutturalmente o apprendimento) indica una strategia evolutiva (unica rispetto agli altri “organi“) a bassa specializzazione con notevoli capacità di adattarsi e sopravvivere in diverse nicchie ecologiche” …. “la corteccia
del cervello umano è la struttura a più alta plasticità nel mondo animale conosciuto“… [da Lingue cervello ed entropia – Franc Fari 1985 (*)] Luria così sintetizza: “La lingua (e il discorso che la utilizza) serve non soltanto come mezzo di comunicazione, ma permette anche di conservare e di trasmettere l’esperienza delle generazioni. La lingua permette di astrarre i caratteri essenziali, di generalizzarli, formando un atteggiamento categoriale verso la realtà e determinando praticamente tutti gli aspetti dell’attività cosciente. Per l’influenza della lingua che serve come fondamentale secondo sistema di segnalazione, cambia radicalmente la percezione, si formano nuovi tipi di memoria, si creano nuove forme di pensiero che assicurano i più complessi sistemi di feed.back. Il linguaggio, dapprima esteriore e poi interiore, diventa uno dei principali fondamenti della regolazione del comportamento…(Lurija E.R.“Neuropsicologia e Neurolinguistica” Ediori Riuniti, 1974). Lepschy (http://w3.uniroma1.it/studieuropei/programmi/programmi2011/lingua-e-sessismo_Lepschy.pdf) è sinteticamente così conciso: “siamo noi ad essere parlati dalla nostra lingua, anziché essere noi a parlarla”. Ma quella che ci è più illuminante è Judith Butler: con lei capiamo ancora di più che cos’è l’essere “costruite nel linguaggio”, in una sintesi che evoca il linguaggio (la lingua, le parole) come disegnatore di soggetti sessuati. … Si “esiste” non solo grazie al riconoscimento che si ottiene, ma, in un senso che viene ancora prima di tutto ciò, nell’essere riconoscibili. I termini che facilitano il riconoscimento sono essi stessi convenzionali, sono gli effetti e gli strumenti di un rituale sociale che decidono, spesso attraverso l’esclusione e la violenza, le condizioni linguistiche dei soggetti che possono sopravvivere. Il linguaggio, se può sostenere il corpo, può anche minacciarne l’esistenza … (**) Non è qui il luogo per riportare gli studi e le ricerche circa l’organizzazione neurale della comprensione e della decodificazione di una lingua, dell’organizzazione degli emisferi destro e sinistro ecc., tutti argomenti appassionanti di quella infinita disputa che è il “cervello sessuato” o “neurosessismo” ecc. ma passiamo subito ad individuare almeno alcuni aspetti, quelli al momento “ufficialmente” riconosciuti della codificazione della discriminazione sessuale che oggi possiamo chiamare
sessismo nella lingua di stato. Prendiamo spunto dal citato lavoro di Lepschy. Intanto l’aspetto più evidente è l’uso del maschile universale, cioè parole che si riferiscono a maschi e che vengono usate come termini generali per denotare sia uomini che donne. Una forma maschile inclusiva che comprendendo anche il femminile senza nominarlo, di fatto lo cancella dal discorso. L’aspetto discriminatorio è evidente con la specifica di distinzioni circa lo stato civile che si usano per le donne (signora o signorina), ma non per gli uomini. Perciò l’individuazione della donna, prima di qualsiasi altro discorso, se sia o meno suscettibile di approccio sessuale socialmente consentito. L’uso dell’articolo “la” davanti al nome (la Fornero, per rimanere in ambito istituzionale) che per gli uomini non si usa (mai sentito il Monti), se non dentro un discorso di analisi storico-culturale (il Pascoli). Un ulteriore aspetto del maschile universale che non ha bisogno di essere definito perché socialmente riconosciuto.
I titoli professionali usati nella stessa forma maschile anche se praticati da donne. Questo è forse l’aspetto meno problematico, rispetto ad un genere grammaticale sempre accordato al maschile anche quando sono coinvolti entrambi i sessi.
Allora, se la lingua è quel sistema di organizzazione del pensiero e del comportamento che abbiamo detto, ci possiamo chiedere, che effetto ha sulla plasticità del cervello in termini di architettura delle connessioni tra neuroni. Un recente articolo a firma Maria Carnuccio apparso su Neuroscienze.net (http://www.neuroscienze.net/?p=2480) esplicita bene questa relazione: Gli stimoli (input) ambientali che arrivano al cervello vengono distinti in positivi e negativi. Gli input positivi esterni potenziano la trasmissione di informazioni (attraverso una maggiore attività elettrica dei circuiti nervosi), realizzando gli aspetti produttivi e di crescita della plasticità neuronale sopra descritte. Gli input negativi
determinano, invece, depressione o inibizione dell’attività elettrica che si traduce in modificazioni involutive della sostanza cerebrale. La lingua italiana che non riconosce la soggettività femminile, discrimina le donne determinando, a loro danno, situazioni di disparità e relazioni di subordinazione e realizzando comportamenti di prevaricazione e di dominio. Tali comportamenti si traducono, per il cervello delle donne, in input esterni negativi i quali deprimono l’attività elettrica dei circuiti nervosi, determinando modificazioni plastiche involutive della sostanza cerebrale. …. Il fenomeno della
plasticità acquista un’importanza ancora più rilevante nelle giovani menti dove la plasticità è elevata e l’esperienza agisce in modo determinante modificando attivamente la struttura e la funzione dei circuiti nervosi e quando l’architettura delle connessioni tra aree cerebrali e le mappe di proiezione alla corteccia cerebrale vengono stabilizzate (cosa che avviene ad un certo punto dello sviluppo) con definitive e permanenti trasformazioni neurobiologiche, il ruolo delle donne è definito, programmato nei circuiti nervosi del proprio (e altrui) cervello che le imprigiona nello stereotipo culturale che le vuole subalterne, meno capaci e spesso anche ridicolizzate. …. La lingua italiana, annullando il femminile, compromette anche il processo di formazione dell’identità di genere delle donne, il processo di formazione del sé (che si sviluppa principalmente attraverso il riconoscimento da parte degli altri), pregiudica l’autostima e inibisce lo sviluppo di una personalità autonoma. “Il cervello è più grande del cielo” scrisse Emily Dickinson e di sicuro ha saputo trovare le sue vie di fuga all’analisi così soffocante e dal sapore biologicamente determinista di Carnuccio; ciononostante, questo non significa che
quanto osservato non sia vero. E qui dovremmo inserire quelle riflessioni di Henri Laborit che riteniamo ancora utilissime, il quale ci indica il linguaggio come la veste e i drappeggi della gerarchia e del dominio depositati nelle strutture cerebrali più profonde, senza la cui conoscenza e comprensione è difficile trovare la propria via di fuga… (citiamo solamente, con la speranza di riprenderlo: H. Laborit “Elogio della fuga”, Mondadori 1982)
E cosa c’è di più profondo di quello che si deposita lasciando la sua impronta nella “plasticità neuronale”, con la lingua-madre? Ma qui la questione diventa
più delicata e più complessa. Se restiamo al dato che la lingua in generale è l’espressione della società, della nicchia ecologica nella quale quella cultura è cresciuta e si è sviluppata; che dovremmo dire dei ritratti di donna nella nostra lingua storica, nel suo dato antropologico, nell’ontologia delle sue parole? Per esempio, se cerchiamo la “donna” in lingua friulana, non la troviamo, né troviamo la “moglie”, troviamo solo la femmina: le fèmine. Ferme, inchiodate al puro dato biologico, bypassato lo stato civile, la “moglie” si coniuga con “le me femine”, la mia donna, un attributo di proprietà…
Si inserisce qui, molto interessante a proposito delle lingue storiche, la ricerca che Ivan Cavicchi ha fatto a proposito dei canti contadini (non sappiamo quali, né da che lingua… ma il suo scritto propone interessanti suggestioni) dove descrive i passaggi relativi alla definizione linguistica della donna.
Così dice Cavicchi: Studiando i canti contadini abbiamo compreso che la donna, un tempo, era considerata una specie quasi-umana costruita con un sistema di ideologie discriminanti, che definiscono specismo. Lo specismo è una forma di razzismo ontologico che fonda disuguaglianze, che non accetta il cos’è della donna ma che decide coercitivamente il “cosa deve essere” esaltando la superiorità del maschile. Per atti successivi e consequenziali di specificazione si costruisce il significato, in “logiche
che usano il linguaggio per determinare la specie imponendo delle ontologie discriminanti”.
Quanto fino a qui riportato, [e meriterebbe certo ulteriore approfondimento ….], ci catapultiamo in una prima approssimazione del che fare? La questione del sessismo nella lingua non è certo nuova.
Adriana Perrotta Rabissi, in un suo recente articolo (http://www.overleft.it/arch-con-marx/108-dicorpi-e-di- parole.html), ricorda in proposito gli studi di Alma Sabatini e Patrizia Violi della metà degli anni ottanta, quindi convegni, studi e raccomandazioni in proposito. Sicchè oggi, descrivere il sessismo nella lingua o parlare di linguaggio sessista, non è certo cosa nuova; quello che resta sempre difficile è come uscirne.
Se la lingua è quanto abbiamo accennato più sopra, è convenzione e istituzione, ma anche biologia ed evoluzione, ma anche ontologia ed identità…, davvero è sufficiente osservare le raccomandazioni che prescrivono aggiustamenti grammaticali che rendano giustizia
all’ignorato genere femminile? Oppure è questa una soluzione tipo “pari opportunità” , quella sorta di “leggi speciali” per donne, dove il doverle concepire significa che si continua ad agire a valle e non a monte … Cose che effettivamente cambiano assai poco, modificano l’apparenza ma non la sostanza. [Un’analogo della recente proposizione della revisione in chiave femminile della toponomastica, dalla quale le donne sono generalmente state escluse, salvo le sante e le madonne; anche la toponomastica è lo specchio della società che l’ha prodotta cioè del patriarcato; chiedere uno spazio di visibilità, che magari viene anche concesso, rimanendo poi peraltro sempre minorizzato, ha senso o ne ha di più sottolineare l’estraneità ad un ordine di nominazione e ripartizione del territorio riappropriandosi collettivamente di quello…? Ma lasciamo in sospeso anche questo…]
Quando, anni fa, avevamo iniziato a riflettere sulla lingua a partire dalla nostra madre-lingua, ci aveva pienamente convinte il testo di Nettle-Romaine “Voci del silenzio“, (Daniel Nettle, Suzanne Romaine “Voci del silenzio- sulle tracce delle lingue in via di estinzione, Carocci, 2000) secondo cui le lingue sono una sorta di organismi viventi spesso soffocate dal colonialismo linguistico ovvero la sovrapposizione d’autorità di una lingua di stato. Poi qui torna Butler quando parlando di Toni Morrison suggerisce che il linguaggio vive o muore come può vivere o morire una cosa viva, e che la questione della sopravvivenza è centrale per il problema del modo in cui il linguaggio viene usato.
Il linguaggio rimane vivo quando rifiuta di incapsulare o catturare gli eventi e le vite che descrive.
Ma quando cerca di rendere effettiva quella cattura, esso non solo perde la propria vitalità, ma acquisisce la propria forza violenta, quella che Morrison, in tutto il suo discorso associa alla violenza di stato e alla censura. Forse la sua riflessione è contestuale alle violente espressioni del razzismo, ma nondimeno interessante per porci la questione se vogliamo impegnare le nostre energie, i nostri sforzi nel rendere accettabile (a noi) un linguaggio, che ci ha già incapsulate come soggetto, attenuando e rendendo meno ripugnante la violenza intrinseca di una lingua per noi nata morta in quanto nemmeno espressione reale della sua nicchia ecologica ma costruzione artificiale della borghesia di stato che aveva bisogno della lingua unitaria per estendere il suo terreno di dominazione?
Sì e No. Questo interesse verso lingua e sessimo ci è tornato qualche tempo fa quando alcuni compagni e compagne di area libertaria hanno organizzato qui in regione un’iniziativa sull’antispecismo dal titolo: “Essere liberi, esseri liberi”. Antispecista ma non antisessista in quanto l’uso del maschile universale è palese. Abbiamo sottolineato il problema ma si è visto che proprio questi/e non avevano capito assolutamente i termini della questione, quindi questo ha riproposto un vero problema di (ancora!) incosciente sessismo nel movimento. Mettiamo che dopo la nostra osservazione il titolo fosse
stato cambiato in un più accettabile “Essere libere/i, esseri liberi”, sarebbe cambiato anche l’approccio? Probabilmente No. Però l’abitudine a pensare a due soggetti ed a nominarli, sicuramente aiuta, aiuta ma non risolve e, a nostro avviso, non dovrebbe essere il nostro obiettivo principale. Seguire le raccomandazioni per una lingua italiana depurata dal sessismo è soltanto richiedere l’uso di un codice corretto che sia giustamente rappresentativo della realtà in cui i soggetti sono due e non uno solo.
Punto. Far emergere il soggetto dalla lingua e nella lingua, farlo vivere nel linguaggio è altra cosa ma richiede un rimescolamento degli ingredienti e delle sensibilità. Qui abbiamo provato, senza pretese, a vagliarne alcuni che riteniamo di base; la ricetta si può implementare, correggere migliorare.
Questo è solo un assaggio di quello che, ci rendiamo conto, è ancora un gran minestrone, ma chissà che alla fine, con un lavoro sinergico e collettivo non ne venga fuori una ricetta appetitosa… Piacevole alla lingua… dopotutto i recettori del gusto sono lì e a noi non piace mangiare insipido…
Dumbles/Feminis furlanis libertaris
(*) “Lingue cervello ed entropia – Le lingue come tensione e realizzazione di diversità” di Franc Fari (Franco Fabbro) è un opuscolo non pubblicato, frutto delle discussioni con l’autore, neurofisiologo nostro amico di allora. Tempo e grafica permettendo, cercheremo di renderlo fruibile
sulla rete.
(**) Tutte le citazioni qui riportate sono tratte da: Judith Butler “Parole che provocano – per una politica del performativo” Raffaello Cortina
editore 2010. I brani citati sono tratti dall’introduzione che si intitola La vulnerabilità linguistica. Le parole di Toni Morrison sono quelle che
lei stessa ha pronunciato nel suo discorso di accettazione del premio nobel per la letteratura che le è stato assegnato nel 1993 per il romanzo
“Amatissima”. Il libro di Butler è stato tradotto e stampato in Italia nel 2010 ma si tratta di un lavoro del 1997.