Un passo avanti: dalla parte delle donne che reagiscono alla violenza

 UN PASSO AVANTI: DALLA PARTE DELLE DONNE CHE REAGISCONO ALLA VIOLENZA

Nicoletta Poidimani

Sono una femminista separatista e, come tale, ritengo fondamentale dare valore alle strategie che le donne hanno elaborato insieme, negli anni, per affrontare, in totale autonomia, una questione che ci riguarda tutte, in prima persona. E ritengo, al contempo, necessario rompere una volta per tutte con due mistificazioni che fanno il gioco dei nostri nemici: i discorsi perbenisti sulla non violenza -dietro cui si cela la criminalizzazione della rabbia – e i meccanismi di delega istituzionale. Ancora c’è, infatti, chi insiste sulla necessità di denunciare penalmente la violenza patriarcale contro le donne, illudendosi che la delega ai tribunali dello Stato possa essere uno strumento efficace contro questo tipo di violenza. Negli anni più recenti, il prevalere dell’ideologia securitaria ha alimentato un proliferare di discorsi ed approcci riduzionisti sul tema della violenza. In questo clima culturale, non si nomina più il fatto che la violenza sia monopolio dello Stato e dei suoi apparati e, d’altra parte, ogni forma di ribellione antiautoritaria viene bollata col marchio della violenza. Dalla sua nascita, lo ripeto, lo Stato moderno detiene il monopolio legale della violenza. Questo monopolio ha come corollari la stigmatizzazione e la criminalizzazione della rabbia. La stigmatizzazione della rabbia ha una funzione preventiva, di controllo; la criminalizzazione ha, invece, funzione repressiva.

Oggi, per mantenere contemporaneamente il controllo sulla popolazione e il monopolio della violenza – mascherato dietro termini persuasivi quali “ordine” o “sicurezza” – gli apparati statali neoliberisti inducono le popolazioni a sentirsi potenziali vittime e a delegare, di conseguenza, la propria incolumità ad un’entità superiore che stabilisca anche che cosa è bene per loro. Lo Stato diventa, così, molto prossimo ad uno Stato etico, cioè arbitro assoluto del bene e del male. Il monopolio dell’etica è, dunque, il presupposto necessario del monopolio della violenza. Nemmeno la peggior tirannia o la più sanguinaria dittatura hanno mai rinunciato a giustificare questi monopoli in nome di un valore più alto, fosse esso l’ordine divino o il bene comune.

Una delle strategie per far digerire questo duplice monopolio statale è di alimentare la paura in modo da indurre nella popolazione un bisogno di sicurezza della quale lo Stato si fa garante – l’unico garante! – come sta accadendo da oltre un decennio in Italia. Si tratta di una strategia di tipo paternalistico: ti nego la libertà per il bene tuo e dell’intera comunità. Là dove non funziona questa persuasione, lo Stato si impone con metodi apertamente autoritari, come si è visto con la gestione securitaria dell’emergenza all’Aquila dopo il terremoto del 2009. In nome della “sicurezza”, la militarizzazione del territorio aquilano è andata di pari passo con l’infantilizzazione delle popolazioni colpite dal sisma e il divieto di qualunque forma di autorganizzazione.

Allo stesso modo, le leggi che ci infantilizzano e vittimizzano, in quanto donne, in nome della nostra “sicurezza” sono il prodotto di una cultura sessista e, a loro volta, la alimentano. Considerare le donne come “deboli” e dunque bisognose di protezione, di qualcuno che ne tuteli la “sicurezza”, oltre ad essere un dispositivo ideologico che ci infantilizza non dà forza alle donne ma a chi incarna questa protezione. Le donne vengono indebolite da questa rappresentazione, soprattutto nel momento in cui la interiorizzano. Non dimentichiamoci, poi, che l’uso ideologico delle categorie di violenza e non violenza è funzionale al rafforzamento di questo dispositivo. La non violenza, infatti, viene riduzionisticamente fatta coincidere con l’obbedienza alle leggi – il mantra della “legalità”, tanto ricorrente! Tante femministe “per bene” ancora cadono in questa trappola…

Ma noi sappiamo che la radicalità delle lotte contro le nocività in Italia (Tav, centrali nucleari, termovalorizzatori, ecc.), poiché si tratta di lotte contro qualcosa di estremamente dannoso per la salute della collettività, non ne oscura ma, anzi, ne accentua la valenza etica. Come si possono definire violente lotte come quella in Valsusa o quella dei contadini indiani del Kanataka che, nel 1998, estirparono e incendiarono le coltivazioni transgeniche imposte con l’inganno nelle loro terre, cantando “Cremate Monsanto” e “Stop genetic engineering”? In tutti questi casi, vi è un abisso tra la percezione soggettiva e la rappresentazione dominante della violenza. Per gli Stati e le loro leggi si tratta senza dubbio di azioni violente, passibili di condanna penale, ma per le autrici e gli autori di questi gesti si tratta, invece, di autodifesa. Le donne che si autorganizzano – da sole o con altre – contro la violenza maschile, senza delegare la propria difesa allo Stato e alle sue leggi, stanno autodeterminando la propria sicurezza. Cos. come le popolazioni della Valsusa in lotta e i contadini del Karnataka che, “cremando” le coltivazioni ogm, hanno difeso se stessi dalla dipendenza forzata dalle multinazionali dei semi e, contemporaneamente, le biodiversità delle proprie terre.

In tutti questi casi si tratta, a mio parere, di autodifesa e di autodeterminazione. L’apparato giuridico, si sa, non è neutro, ma espressione della classe dominante, del genere dominante e del gruppo etnico dominante e, in quanto tale, ne tutela il potere, gli interessi e i profitti. E’ allora chiaro che autodeterminazione e autodifesa sono incompatibili tanto con l’apparato giuridico quanto con i processi di delega istituzionale, essendo le istituzioni espressione del dominio capitalistico e patriarcale. Questo nodo si complessifica se all’elemento autodifesa aggiungiamo la rabbia: tanto la rabbia reattiva delle donne di fronte a soprusi e violenze, quanto la rabbia di chi non intende sacrificare il proprio rapporto con la terra e la vita agli interessi e ai profitti del capitale e delle sue multinazionali. La rabbia è, dunque, una reazione opposta alla vittimizzazione di sé. Potremmo dire che è una reazione post-vittimista. Essa, infatti, rompe la logica implosiva e passivizzante del percepirsi come vittima e, come ci insegna Vandana Shiva, articola le categorie di sfida elaborate dai soggetti vittimizzati – le donne in primo luogo.

Questo rovesciamento di prospettiva non solo porta ad una riappropriazione dell’etica, ma mostra anche come la rabbia espressa dai movimenti sociali, cos. come dalle donne e dai/dalle migranti possa rappresentare una risorsa contro lo Stato-Leviatano, in quanto spinta alla trasformazione, oltre che all’autodeterminazione, in direzione di collettività aperte, in divenire e antiautoritarie. Sarebbe, quindi, ora che certe femministe “per bene” la finissero di blaterare di nonviolenza e cominciassero, invece, ad interrogarsi seriamente su quanto il loro posizionamento si riveli essere, in fondo, complice dell’autoritarismo e del monopolio statale e patriarcale della violenza e dell’etica. Faccio riferimento alla mia esperienza personale per avvicinarmi al cuore della questione. Anni fa sono stata chiamata da un amico, insegnante in una scuola superiore, per intervenire sul caso di una classe in cui le ragazze a turno erano letteralmente vessate da un compagno, con gravi disagi familiari, particolarmente aggressivo e molesto nei loro confronti. Sono stati sufficienti due incontri perché queste ragazze elaborassero degli strumenti per risolvere la questione. Dapprima abbiamo ragionato molto sull’idea di libertà e di privazione della libertà che ciascuna di loro aveva, evitando di focalizzarci sul singolo caso del compagno molesto ma ampliando l’analisi alla famiglia, alla scuola, alla cerchia di amici e amiche e, soprattutto, alla loro libertà di movimento. Nell’intervallo tra i due incontri le ragazze hanno poi preparato dei disegni in cui rappresentavano se stesse libere. Li abbiamo commentati tutte insieme, cercando di cogliere quali strumenti ciascuna di loro avesse utilizzato per rappresentare la propria libertà – ad esempio, le ali – e come si potessero tradurre in strumenti quotidiani a loro disposizione. Si è poi ragionato su cosa sia concretamente la costruzione sociale della debolezza – dunque della non-libertà – femminile, come ad esempio un certo uso della voce o una certa postura, e su cosa, per contro, veicoli l’idea di forza delle donne. Per concludere ho fatto una dimostrazione di alcune facili tecniche di autodifesa per liberarsi dalle prese, invitando tutte a provarle insieme per poi riflettere sulla loro efficacia, anche psicologica.

L’esito di questo percorso è stato che le ragazze hanno creato fra di loro un legame solidale che prima non esisteva e che le ha portate a reagire collettivamente nel momento in cui il compagno ha di nuovo provato ad assumere un atteggiamento di sopraffazione. Da quel momento non si sono più manifestati episodi simili e lo stesso studente ha completamente cambiato il proprio atteggiamento in classe. Senza entrare ulteriormente nei particolari di questo intervento, vorrei però rilevare alcuni aspetti.

Un caso come questo viene, generalmente, etichettato come “bullismo”, termine assai vago e generico che porta ad agire – spesso con autoritarismo e repressione – sull’individuo accusato di essere “il bullo”, anziché sull’intero contesto in cui si manifestano i suoi comportamenti. La mia scelta è stata, invece, quella di sollecitare, attraverso l’idea di libertà, queste giovani donne a valorizzare se stesse e le proprie compagne, a rompere con la percezione indotta della propria debolezza – che è l’altra faccia della forza del “bullo” – e, soprattutto, a non delegare all’istituzione scolastica né ad altri/e adulti/e la risoluzione del loro problema, scegliendo, invece, di cercare insieme gli strumenti per affrontarlo e gestirlo collettivamente tra pari.

Il mio intervento partiva dall’assunto che la sicurezza delle donne stia in un cambiamento culturale che rompa con il paternalismo e alimenti la solidarietà e l’autonomia femminili, ne valorizzi le capacità creative e reattive. Un cambiamento che non pu. che partire dalle donne stesse. Si era dovuto, però, presentare alla scuola questo mio intervento come un breve ciclo di incontri sul genere, mascherandone il reale obbiettivo. Con l’amico insegnante eravamo infatti consapevoli che, se fossero state rese note le ragioni reali della mia presenza in aula, io non sarei stata accettata dall’istituzione – che avrebbe sicuramente preferito rivolgersi ad assistenti sociali o psicologi – e lo studente “bullo” sarebbe diventato un “caso” da affrontare in maniera disciplinare, tanto più in quanto immigrato, acuendo la sua condizione di disagio. Quando per affrontare questo genere di situazioni la scuola prende provvedimenti autoritari, nella gran parte dei casi ottiene l’effetto opposto. Da una parte incancrenisce la situazione, esasperandola, e al contempo non alimenta in alcun modo il senso di autonomia e autodeterminazione delle/degli studenti nell’affrontare le difficoltà quotidiane.

Fatte queste premesse, vengo finalmente al cuore della questione, per poi arrivare ad una proposta. Come possiamo definire la reazione di una donna alla violenza domestica o sessuale, o ad entrambe da parte di un familiare, un conoscente, il datore di lavoro o uno sconosciuto? In sostanza, è violenza il gesto di ribellione di una donna di fronte all’ennesimo tentativo di sopraffazione maschile? In Italia ne siamo ancora lontane, come dimostrano i dati sulle violenze contro le donne e i femminicidi, ormai di pubblico dominio anche in sede Onu. La casa e la famiglia sono il luogo meno sicuro ma, ciononostante, rimane dominante la falsa convinzione che il pericolo per le donne sia al di fuori delle mura domestiche e, soprattutto, al di fuori del contesto “etnico” di appartenenza. Tale menzogna è funzionale tanto al controllo delle “proprie” donne da parte della famiglia e dell’etnia di origine, quanto alla criminalizzazione dell’altro, lo straniero. È significativo che la violenza contro le donne venga rappresentata come “tipica” di altre culture, mentre quando un uomo italiano uccide una donna i giornali parlano immancabilmente di “raptus”. Inoltre, quando una donna uccide il marito che la massacra da anni non le viene fornita alcuna giustificazione. Anzi: la si punisce per non aver delegato allo Stato la propria difesa e la si condanna come assassina. Collocare “altrove” le culture femminicide serve solo a rafforzare il suprematismo e il razzismo e, al contempo, ad occultare il denominatore comune delle repubbliche occidentali e di quelle islamiche: il dominio maschile. Non è superfluo ricordare che, in Italia, fino al 1981 vigeva il delitto d’onore quale attenuante in caso di omicidio di una familiare e che fino al 1996 la violenza sessuale non era considerata un delitto contro la persona ma “contro la moralità pubblica e il buon costume”. Nonostante il cambiamento sul piano legislativo, ancora oggi i processi per stupro diventano spesso processi contro chi la violenza l’ha subita più che contro chi l’ha agita. Quasi come se si trattasse di una punizione per non essere stata alle regole del gioco di una società che, sotto sotto, ancora vorrebbe le donne “tutte casa e famiglia”. Questa realtà diventa particolarmente lampante quando lo stupratore è un uomo in divisa, quindi un uomo dello Stato – sia esso militare, poliziotto, guardia carceraria, ecc.

Rammento due casi in quanto particolarmente emblematici. Nel 2006 un militare statunitense che si trovava presso la base Ederle a Vicenza di ritorno dall’Iraq violentò una donna nigeriana, lasciandola poi ammanettata e nuda sul ciglio della strada. In sede processuale gli vennero riconosciute, quali attenuanti, lo stress psicologico prolungato e la ridotta importanza data alla vita umana conseguenti all’anno trascorso sul fronte di guerra. In sostanza, la guerra stessa è diventata un’attenuante. Non ho bisogno di stare a ricordare, invece, il caso di Joy. Basti dire che quel processo si è concluso con l’assoluzione piena dell’ispettore capo di polizia accusato di violenza sessuale. Conosciamo tutte la storia, ma vorrei richiamare rapidamente le motivazioni della sentenza, esemplari in quanto specchio dell’intersezione istituzionale di sessismo e razzismo. Per motivare l’assoluzione dell’ispettore di polizia, infatti, ai togati è bastato dare più credibilità alle parole dell’accusato e confermare, in sostanza, che l’attendibilità dei testimoni si fonda su un dispositivo gerarchico di genere, razza e classe.

Nelle motivazioni Joy è stata ritenuta “soggettivamente inattendibile” proprio in quanto immigrata, nera e partecipe della rivolta nel lager di via Corelli a Milano. Come ulteriore prova della sua inattendibilità venne perfino citato un altro ispettore capo del Cie – per altro condannato alcuni mesi prima a sette anni di reclusione per violenza sessuale, concussione e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. In una annotazione di servizio costui aveva segnalato come, durante le proteste nella sezione femminile del Centro di identificazione, proprio le nigeriane, e in particolare Joy, avessero avuto un ruolo attivo. Eppure non c’è nulla di più coerente di una donna che si ribella alla violenza maschile così come alla violenza della detenzione in un lager, cioè alla violenza – razzista –dello Stato. E’ significativo, invece, che recentemente anche il secondo ispettore sia stato assolto in Cassazione in base a motivazioni molto simili e cioè l’interesse che avrebbero le persone rinchiuse in un Cie nell’impedire in tutti i modi la propria espulsione. L’esito di questo processo rende evidenti le connivenze tra apparati istituzionali nel coprire le violenze che avvengono in tali universi concentrazionari, soprattutto quando a compierle sono uomini col mandato di “tutelare la sicurezza”. Inoltre delegittima e criminalizza la rabbia di chi vi è rinchiusa/o per mesi perché sprovvista/o di un permesso di soggiorno, e conferma le gerarchie razziali e di genere. Ma c’è dell’altro. Non si pu., infatti, ignorare la strumentalizzazione della violenza contro le donne, che anche in questo caso ha trovato conferma. Basti pensare che il prolungamento della detenzione nel Cie da due a sei mesi era una delle norme inserite nel “pacchetto sicurezza” che nel 2007 gli apparati statali avevano cercato di promulgare in seguito allo stupro e all’omicidio di Giovanna Reggiani per mano di un cittadino straniero. Significativamente, nessuna di quelle norme contemplava la diminuzione delle pene per le donne che reagiscono con forza a un tentativo di violenza sessuale, sia esso ad opera di un familiare/conoscente – che è il caso più frequente – o di uno sconosciuto. Quando poi, quasi due anni più tardi, nell’agosto 2009, è entrato in vigore questo prolungamento della detenzione nei Cie e si sono moltiplicate le rivolte, l’averne preso parte ha reso inattendibile, agli occhi dei giudici, una donna che aveva denunciato una violenza sessuale. Di fronte a tutto questo risultano ancora più ipocrite e menzognere le parole di Francesca Koch – presidente della Casa internazionale delle donne di Roma – che, commentando in un video: (http://www.youtube.com/watch?v=Q4wrNy9goGo) il Rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattenimento per migranti in Italia della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato, è arrivata a parlare di “una felice congiuntura tra la mobilitazione delle giovani dei movimenti e la presa in carico delle istituzioni, per cui si è arrivati alla condanna del poliziotto” (testuale!!!). Non solo si tratta di una falsificazione gravissima, ma chi, come noi, ha partecipato davvero a questa lotta, sa perfettamente quanto le donne istituzionali abbiano volutamente ignorato questa vicenda (al punto, come dimostra Koch, di non sapere nemmeno come sia andata a finite…) e quanto, d’altra parte, le istituzioni si siano mobilitate esclusivamente in senso repressivo contro chi l’ha sostenuta.

Detto ciò, credo che come compagne sia importante cominciare a prendere una posizione netta e pubblica al fianco delle donne che reagiscono alla violenza maschile, anche quando arrivano ad ammazzare perché non ne possono più. Tutte le donne che hanno reagito si sono, finora, ritrovate incarcerate e isolate. Penso che, di fronte ad una donna che reagisce con forza contro il suo persecutore, la prima cosa da fare sia cercare di metterci in contatto con lei (ovviamente con la dovuta delicatezza, senza invadenza alcuna), offrirle tutto il nostro sostegno, presenziare alle udienze che la vedono come imputata, ecc. Ma, tutto questo ha poco senso se, al contempo, non cominciamo ad urlare con tutta la voce che abbiamo, che tutte le donne hanno diritto di reagire quando si tratta della propria vita e della propria incolumità, che non esiste un “eccesso” di difesa quando si tratta di autodifesa, che condannare come violente ed omicide queste donne è uno degli strumenti dello Stato patriarcale per tenerci tutte buone, obbedienti e sottomesse. Credo che oggi si debba partire da qui per fare un passo avanti nella lotta contro la violenza sulle donne.

Questo bel testo di Nicoletta Poidimani è contenuto all’interno degli Atti dell’Incontro Nazionale Separato “Il personale è politico, il sociale è il privato/Contro la violenza maschile sulle donne” Giugno 2012 ,organizzato dalla Coordinamenta femminista e lesbica insieme a tante altre compagne.

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