Non una di meno…alle loro condizioni!

Non una di meno…alle loro condizioni!

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Dolorosamente perché a me, il femminismo, ha salvato la vita. Mi ha aperto gli occhi, mi ha insegnato a decostruire “naturalità” artificiali, mi ha reso autodeterminata, combattiva, consapevole. Mi ha fatto conoscere compagn@ di vita e di lotta che sono al mio fianco da anni. E l’intersezionalità – teoria nata in seno al femminismo che è diventata anche pratica politica trasversale di lotta al potere – mi ha donato una nuova prospettiva, più ampia e complessa, sulla presa inarrestabile che stritola vite e corpi marginali, resi tali dal potere stesso per estrarre plusvalore da chi è reso vulnerabile e pertanto spendibile.

Eppure in Italia qualcosa è andato storto. Sebbene negli ultimi anni la parola intersezionalità sia diventata come cacio sui maccheroni di qualsiasi discorso politico, il senso di questa parola – ma soprattutto le sue implicazioni pratiche – è ben lungi dall’essere compreso. Il femminismo storico, che qui in Italia ha un passato importante, non è stato in grado di accogliere in sé gli stimoli eccentrici provenienti da femminismi altri, che hanno spinto la propria analisi – da molto tempo ormai – oltre ai binarismi e alla narrazione della differenza.

Mai come in questo caso stiamo pagando lo scotto di tali nobili  – quanto ingombranti  -natali, con l’arroccarsi di gran parte del movimento femminista storico in posizioni essenzialiste e soprattutto autoritarie: solo le donne possono esprimersi su determinati argomenti, e “le donne” rappresentano una categoria continuamente ridefinita e sempre meno accogliente… le uniche ad avere voce in capitolo sono bio-donne, dichiaratamente femministe, possibilmente bianche (in ogni caso caratterizzate da un certo accesso a cultura e risorse economiche), che hanno un’idea della donna ben chiara, in quanto essere da proteggere e tutelare, persino da se stessa (ma loro no, loro sono fortissime e autodeterminate), a cui mostrare la via dell’empowerment ma soprattutto insegnare un’idea sacralizzante di alcune parti del corpo – quando è in gioco il sesso a pagamento o la maternità per altri – ma allo stesso tempo desacralizzata – quando si parla di aborto e di sessualità relazionale. Oltre a rilevare la postura paternalista di queste posizioni, mi paiono decisamente schizofreniche.

Il posizionamento di classe emerge chiaramente, ed è inscindibile da quello politico: sacerdotesse della differenza sessuale, per alcune di loro il femminismo – diciamolo pure fuori dai denti – è passato dall’essere (almeno spero) antica passione politica, a mestiere ben remunerato. Resistono con veemenza alle nuove istanze con tutta l’arroganza del vecchio che non cede il passo al nuovo, e si rendono colpevoli – ebbene sì, colpevoli – di continuare a propagandare e tenere vive idee vecchie di decenni, a restare chiuse alle contaminazioni di pensieri e pratiche altre, convinte di aver scoperto una verità che con gli anni è diventata una Fede, cieca e violenta come solo la Fede sa essere.

Sono incapaci di costruire alleanze nel rispetto delle differenze, anzi le differenze – di cui tanto si riempiono la bocca – fanno loro orrore. E non sono capaci nemmeno di ascolto e di dialogo, ma soltanto di monologhi conditi da accuse continue, volti ad abbattere bersagli politici svariati: ieri la femminista tizia e caia che non è “fedele alla linea”, oggi l’attivista queer che smaschera la loro incapacità di costruire alleanze e la violenza ontologica verso chi non la pensa ESATTAMENTE come loro, domani gli uomini tutti, relegati con soddisfazione alla coda del corteo, perché, sebbene alleati, non dimentichino mai di essere geneticamente violenti e dunque colpevoli.

Questa ostilità verso l’Altro, anzi, la riduzione dell’altro al medesimo è evidente nell’incapacità di accogliere e interrogarsi di fronte a nuove istanze politiche, nate in seno al femminismo o provenienti da altri percorsi: la risposta alle questioni e riflessioni proposte da ciò che non viene riconosciuto come identico è un laconico “è una lotta (argomento/ idea/ teoria) che non seguo/non mi interessa/ non mi riguarda.”

Da tempo ho compreso che questo femminismo non mi rappresenta, e mi sono avvicinata alle teorie – e pratiche – transfemministe e queer, nelle quali ho invece trovato maggiore apertura nei confronti dell’alterità e l’antidogmatismo tipico di un movimento ancora vitale. Per questo domani non sarò a Roma, felicemente: non mi interessa far parte di una marea indistinta che non mi rappresenta, e ingrossare le fila di una manifestazione “capitanata” da femministe dell'(in)differenza e del privilegio, che sbattono i mostri in fondo al corteo… preferisco i percorsi tortuosi e i rigagnoli transfemministi e queer, nei quali la politica (e la vita) scorrono ancora impetuosi.

Questa voce è stata pubblicata in 25 novembre, Violenza di genere e contrassegnata con , . Contrassegna il permalink.