Scrivere storia, raccogliere memorie, fare militanza

“Scrivere storia, raccogliere memorie, fare militanza”

Elena/ Scateniamotempeste

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Nella primavera del 2003, proprio qualche tempo dopo l’uccisione di Dax a Milano, mi ritrovavo a prendere una scelta sull’argomento della mia tesi di laurea in storia. Da militante antifascista, mi aveva sfiorato più volte l’idea di scrivere qualcosa sui movimenti antagonisti a Milano ma la consapevolezza di sentirmi troppo all’interno di quel meccanismo, non tanto per una questione di imparzialità rispetto all’argomento, quanto per l’eccessivo carico emotivo che una tale scelta comportava, mi fece abbandonare l’idea sul nascere. L’aggressione a Dax è stato uno degli episodi che più mi hanno colpito in tutto il mio percorso politico e personale di militante, anche perché si percepiva in quel periodo che i fascisti stavano rialzando la testa e le loro idee, assieme a quelle dei razzisti della Lega e del peggior capitalismo colonialista, si erano rafforzate, mentre il movimento, da Genova in poi, per molteplici cause, aveva sempre più perso il suo smalto. A conferma di ciò, proprio in quei giorni, a due passi da casa mia, la giunta di un comune dell’hinterland milanese, che aveva ospitato la salma di Mussolini prima che fosse trasportato a Predappio, si impegnava nella beatificazione del duce e in una serie di incontri revisionisti, motivo per cui alcuni compagni del mio collettivo avevano frequenti contatti con gli antifascisti e le antifasciste dell’Orso, il collettivo di Dax, che era il collettivo milanese più vicino all’antifascismo militante.

Io, nel frattempo, ero affaccendata a trovare un relatore per la mia tesi di laurea in storia e impegnatissima con gli ultimi esami e, se da un lato, cercavo di seguire la questione della salma del duce come potevo, dall’altra tentavo anche di concludere il mio faticoso percorso universitario, pieno di dubbi.

L’uccisione di Dax a pochi passi dai luoghi che frequentavo abitualmente mi lasciò senza parole, rappresentò una doccia gelata allo spirito guerriero e idealista che avevamo, fu un duro colpo per tutti gli antifascisti milanesi, senza parlare poi di chi lo conosceva: per giorni, fra noi non si parlò di altro. La rabbia e il senso di impotenza erano i sentimenti prevalenti, soprattutto dopo il pestaggio da parte della polizia dei compagni e delle compagne accorsi in ospedale appena saputa la notizia e in seguito accusati del tentato trafugamento della salma di Dax.

L’episodio mi fece anche pensare a lungo alla scelta da prendere per la scrittura della mia tesi di laurea: occuparmi dei movimenti e di antifascismo, che era ciò che facevo anche nella mia vita privata, o evitare di fare ricerca su temi che mi coinvolgevano così tanto e rivolgermi ad altro? Quando devo fare una scelta, divido a metà un foglio e, da un lato scrivo i pro di quella scelta e dall’altro i contro. Il “pro” principale era ovviamente la possibilità di trovare un argomento affine ai miei interessi, cosa molto allettante, ma ciò faceva coincidere in un certo senso la mia ricerca con la mia vita. Dopo un’attenta valutazione, dunque, decisi di occuparmi di altro, scrivendo qualcosa che riflettesse le mie idee più riguardo al metodo che alla vicinanza emotiva agli argomenti. Questa decisione escludeva anche qualsiasi cosa riguardasse il movimento femminista, a cui mi ero avvicinata da poco con letture e grazie una serie di incontri che avvennero in quegli anni, alcuni casuali e fortunati, altri voluti. Ero una femminista “dell’ultima ora”, però: nel mio collettivo erano quasi tutti maschi, la questione dei rapporti di genere si poneva in modo abbastanza superficiale, leggevo molto ma non avevo modo di confrontarmi con altre.

Sempre in quegli anni, nelle Università, sotto la spinta della Riforma Moratti, ma anche per la necessità di un rinnovamento, si cominciava a dare un certo impulso, da un lato, alle ricerche sugli anni Sessanta e Settanta e, dall’altro, alla ricerca sulle donne con una disciplina che veniva chiamata “storia delle donne e dell’identità di genere”. Diverse amiche stavano tentando il percorso dottorale, proprio approfondendo tematiche quali la “storia delle donne”, con biografie di donne illustri, di movimenti operai, delle antifasciste, eccetera.

Credo che, con un po’ di tenacia, nulla mi avrebbe impedito di lavorare su quel filone contemporaneo e di “storia delle donne”, ma anche in quel caso avevo delle riserve e troppe domande aperte sull’argomento, prima di affrontare qualsiasi tema, che potevano apparire, agli occhi delle docenti e dei docenti, non solo conservatori ma anche socialdemocratici, delle vere e proprie provocazioni: ad esempio, il termine stesso di “donna” mi sembrava qualcosa da dover definire nuovamente (non che non ci fosse stato dibattito storiografico in merito, ma io stessa non sapevo come pormi rispetto a quel termine); la questione del “genere”, anche mi appariva sfumata; le biografie, che erano tutto sommato una scelta di comodo, perché più facili da scrivere, mi annoiavano terribilmente e spesso divenivano delle vere e proprie agiografie di personaggi illustri. Inoltre, se proprio avessi voluto fare una scelta simile, mi sarebbe piaciuto lavorare sui femminismi degli anni Settanta o sulle donne che avevano partecipato alla lotta armata, ma il primo era un terreno troppo vasto e avrei dovuto restringere il tiro, in un periodo in cui ancora non esistevano ricerche più globali sull’argomento, il secondo era un terreno minato, se non affrontato con un approccio politically correct (che io non credevo di poter avere).

Avevo anche delle obiezioni di altro tipo: ad esempio, mi infastidiva il fatto che venisse creata una “storia delle donne” come disciplina, mentre la “Grande Storia” restava una cosa da maschi, con battaglie di maschi, eroi maschi, maschio pensiero politico, economia dei maschi, banchieri, artigiani, imprenditori… Avvertivo questa disciplina come una sorta di riserva per gli indiani d’America, un contentino delle Pari Opportunità, per dire che non vi era sessismo nelle università e che le “questioni femminili” erano trattate al pari di tutti gli altri argomenti di studio. Si rendeva visibile per ghettizzare.

In realtà la storia di genere veniva da molto lontano e i pochi docenti e le poche docenti che se ne erano occupati con grande serietà avevano aborrito l’idea di una cattedra di “Storia delle donne”, continuando, dove possibile, a gestire il loro lavoro e a parlare di rapporti di genere nei vari periodi in corsi di Storia economica, di Storia sociale, di Storia politica, ecc., come era sempre avvenuto dagli anni Sessanta in poi.

Io scelsi di stare lontano dalla cattedra di Storia delle donne e dell’identità di genere e di evitare tutto ciò che fosse vicino nel tempo e mi andai a specializzare in un filone poco studiato in Italia, che riguarda i rapporti di genere e classe nell’Europa moderna. Mi sentivo salva ma non assolta, perché una domanda mi si poneva: “se tutti i compagni e le compagne facessero come me, chi la scriverebbe la nostra storia? I nuovi Pansa? A chi lasciamo in mano inoltre, le nostre memorie? A chi le può usare, decostruire e magari ricostruire violentandole?”. È ovvio che gli storici e le storiche non la pensano tutte alla stessa maniera ma è anche vero che quella che sento come storia mia vorrei scrivermela un po’ anch’io.

In ogni caso e senza scendere nel dettaglio, in questi anni, sono stati scritti innumerevoli testi che hanno come tema i rapporti di genere in prospettiva storica e anche testi concernenti la storia dei movimenti femministi. Il quadro oggi è molto variegato ma ciò non è sempre sinonimo di qualità o di onestà intellettuale. Come per la questione del fascismo/antifascismo, anche per ciò che riguarda i movimenti femministi del passato, e in particolare dello sfaccettato movimento degli anni Settanta, ci si imbatte in ricostruzioni parziali o piatte, anche perché è più facile recuperare documenti e fonti presso le associazioni che hanno mantenuto e organizzato un archivio e che hanno una sede stabile -e spesso sono quelle che hanno patteggiato o si sono allineate a scelte politiche moderate-, mentre viene azzerato e dimenticato il pensiero di quei gruppi e collettivi che hanno lasciato poche tracce di sé. Come per fascismo/antifascismo, ci si imbatte anche in un vero e proprio revisionismo che parla di un unico movimento femminista interclassista, al di là di poche e violente estremiste. Si usano parole come “violenza” e “estremismo” senza definirle, come concetti assoluti e chiari, quando non lo sono per niente. Si usano parole, come “legalità”, del tutto estranee al dibattito dei collettivi anni Sessanta e Settanta, mentre non ci si sofferma sulla questione della “violenza di stato”, al contrario tema molto caro a chi in quegli anni faceva militanza antifascista e anche nei movimenti femministi. Ad esempio la questione che concerne le donne e la violenza politica è abusato fra chi si occupa della materia, ma se non viene definito il concetto di violenza, passa l’idea dominante che le donne che lanciavano i sanpietrini nei cortei erano violente ed eversive, mentre quelle che si chiudevano nei circoli intellettuali a raccontare la “superiorità morale delle donne” erano le degne rappresentanti del movimento. E quindi, di conseguenza, vicende come quelle di Giorgiana Masi vengono rilette come fatti normali in un clima globale di tensione e violenza.

E ciò che oggi avviene per il passato, avverrà domani per il futuro. Tra qualche anno, probabilmente alcune storiche e alcuni storici del femminismo, ci diranno che i movimenti femministi del 2000  sono stati “Se non ora quando” e simili, perché tale movimento è riuscito a riunire le masse in piazza e produce numerosi documenti che hanno larga visibilità attraverso la stampa, le televisioni, le radio e internet. Mentre, magari, si dimenticheranno, volutamente e in modo revisionista (o per risparmiare tempo nelle ricerche) di tutte le realtà altre che sono presenti anche oggi qui, e che hanno certamente posizioni più scomode nei confronti del potere e della cultura dominante, perché si pongono al di fuori del sistema, dato che pongono la questione di genere non appoggiando le idee meritocratiche e carrieriste che vanno per la maggiore ma legano le rivendicazioni femministe alla lotta di classe e perché sul tema della violenza si pongono in maniera dialettica e critica, ponendosi la domanda “chi è davvero violento?”.

Vorrei concludere da dove sono partita. Tempo fa mi trovavo a una presentazione del libro di Alex Alesi “Interminabili disordini”, testo in cui Alex racconta autobiograficamente la sua appartenenza al movimento Sharp e il movimento stesso fra la fine degli anni Novanata del secolo scorso e il 2003, e che si conclude appunto con l’omicidio di Dax, di cui era amico. Nella discussione finale sul libro è emersa appunto l’esigenza di produrre memoria, di non lasciare che si occupi dei movimenti a cui apparteniamo, solo coloro che non ci conoscono e che, se va bene, non capiscono le motivazioni da cui partono le nostre rivendicazioni, se va male manipolano le nostre azioni e le nostre idee. Non possiamo evitare che esistano persone così ma possiamo difenderci. Allora resta a noi, più che scrivere libri di storia, che non è semplice e non è per tutti/e, raccogliere e produrre memoria, che non sia fine a se stessa, ma frutto delle nostre rivendicazioni. Ad esempio resta a noi raccontare le proteste contro i Cie, contro il sistema capitalista, le manifestazioni di piazza, le rivendicazioni per migliorare la 194, il fatto che il femminismo non possa mai essere asservito al potere e che quei circoli che si proclamano interclassisti, andando a braccetto con i ministri e le neofasciste in quanto donne non ci rappresentano per nulla.

Possiamo infatti evitare che la memoria sia solo quella di altre esperienze e che chi si occupi di raccogliere le memorie e scrivere la storia e le storie sia sempre dall’altra parte della barricata rispetto alla nostra. Possiamo essere un ponte importante fra il passato, di cui raccogliere testimonianza, senza idealizzare o appiattire ciò che fu; e, d’altro canto, dobbiamo anche raccogliere le nostre di memorie, dobbiamo raccontarci e raccontare, di noi che ancora siamo femministe oggi, di ciò che siamo, per non darci in pasto ai revisionisti e alle revisioniste di domani. In fondo noi siamo un anello di raccordo fra passato e futuro: conserviamo la nostra storia e, nel frattempo, contribuiamo a scriverne una nuova pagina.

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