Dalla stessa parte ci ritroverai!

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Dalla stessa parte ci ritroverai! Giorno della memoria, giorno del ricordo e 25 aprile nel calendario civile italiano

di Lidia Martin

«Chi non ha memoria non ha futuro» è lo slogan spesso usato in Italia per promuovere iniziative con lo scopo di non dimenticare, celebrare o festeggiare alcuni eventi/processi storici, e in cui, a volte, storici e storiche sono chiamati a impersonare lo scomodo ruolo di “esperti”. Sottotraccia a questo imperativo si potrebbe leggere una qualche reverenza nei confronti delle figure deputate a ricostruire, analizzare e divulgare la nostra storia. In realtà alcune spie di disagio1 che provengono dal vasto dibattito su uso o abuso pubblico del passato e, in alcuni casi, la rivendicazione di uno statuto disciplinare che riconosce solo a storici e storiche questo ruolo fanno emergere un contesto diverso. Un contesto in cui la presenza di altri attori «alla lunga interroga la capacità degli storici di fare il loro mestiere oppure no»2.

In queste coordinate e privilegiando una riflessione interna alla categoria che mettesse in comune strategie e strumenti per orientarsi nel complesso rapporto tra storia e memoria e tra storia e propaganda, Storie in movimento aveva promosso un dialogo sul calendario civile italiano durante il VI Simposio di storia della conflittualità sociale (Amelia, 15-18 luglio 2010)3. L’intento era aprire uno spazio di discussione che, a partire da noi, interrogasse direttamente forma e contenuto del lavoro storico in operazioni pubbliche di ricordo/memoria/commemorazione. La scelta di focalizzare lo sguardo attraverso la lente del calendario civile nasceva dalla riflessione che alcune ricorrenze imponessero di fatto, in date prefissate, i temi e le questioni del dibattito pubblico, culturale e politico a partire da dissonanti letture che venivano fatte o date del passato; ma anche perché non ci erano sfuggite le ricadute dell’introduzione – dall’alto e in anni recenti – nel calendario civile italiano di altre quattro giornate che in qualche modo volevano contribuire a ri-fondare l’identità italiana nella fase successiva agli anni novanta, letti da molti come il passaggio dalla prima alla seconda repubblica4. Per preparare il dialogo ad Amelia avevamo fatto un’ulteriore selezione, concentrandoci su giorno della memoria, giorno del ricordo e 25 aprile, perché in quell’occasione – parafrasando Ridolfi – ci interessava indagare il rapporto tra la storia del paese e la sua memoria pubblica non attraverso il ruolo assunto dalle istituzioni5, ma in relazione a quella domanda diffusa di storia che ci sembrava esprimersi nei tanti momenti di approfondimento che in queste ricorrenze vengono organizzati nelle biblioteche, nelle sedi di partiti o di associazioni, nei centri sociali, etc. e che coinvolgono una platea diversa da quella dei convegni e delle cerimonie ufficiali, e che non di rado si concludono con dibattiti sul tempo presente e sulle possibili prospettive future.
Uso pubblico della storia, identità nazionale, memoria condivisa, storia militante, rapporto con i testimoni i nodi emersi ad Amelia sono stati tanti, così come tanti sono stati i piani della discussione (storico, politico, didattico…), e non è mia intenzione darne conto ad anni di distanza. Vorrei però partire da quella che era stata la nostra intuizione, ovvero la funzione di alcune date del calendario civile italiano, e abbozzare una ricostruzione della loro genesi e delle forme di celebrazione, cercando di collocare questo lavoro nel solco che Hobsbawm aveva iniziato a tracciare per lo studio delle tradizioni inventate. Cioè considerando questi fenomeni come dei documenti che possono gettare «luce sul rapporto dell’uomo col passato, e dunque sull’oggetto e sul mestiere stesso dello storico» e tenendo presente che si realizzano in un processo in cui anche storici e storiche contribuiscono «in modo più o meno consapevole, a creare, demolire e ricostruire immagini del passato che non appartengono soltanto al mondo dell’indagine specialistica, ma anche alla sfera pubblica dell’uomo in quanto essere politico»6. Per questo approccio che vuole tenere insieme uno sguardo sul passato e uno sul presente, ho scelto di sviluppare l’analisi in base a come giorno della memoria, giorno del ricordo e 25 aprile si susseguono nel calendario solare, cioè a come si presentano all’uomo e allo storico di oggi, invece che alla storicizzazione della nascita delle diverse tradizioni.

Giorno della memoria

Il giorno della memoria è stato istituito in Italia con la legge n. 211 del 20 luglio 2000 a partire dal Ddl 4557 presentato dai deputati Furio Colombo (Democratici di sinistra-Ulivo), Elio Massimo Palmizio (Forza Italia) e Simone Gnaga (Alleanza nazionale), e assorbendo due precedenti proposte di Istituzione di una giornata nazionale dedicata a tutti i deportati nei campi di concentramento nel corso della guerra del 1939-19457 che, in linea con altri paesi europei, identificavano nel 27 gennaio 1945 – la scoperta delle truppe sovietiche del campo di concentramento di Auschwitz – la ricorrenza in cui commemorare le vittime del nazismo. Il testo approvato come legge è composto sostanzialmente dai due articoli della proposta Colombo-Palmizio-Gnaga8, a cui la commissione Affari costituzionali in sede di istruttoria aveva introdotto un emendamento per esplicitare la promozione di iniziative «in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado», con l’intento di sottolinearne la funzione pedagogica.
Dal punto di vista del cerimoniale istituzionale il 27 gennaio è una delle “giornate celebrative nazionali e internazionali”, cioè non un giorno festivo come il 25 aprile ma una occasione in cui gli organi pubblici sono invitati a dare luogo a eventi collegati alla circostanza che si intende celebrare. Per capire come officiarlo la questione si sposta su definire cosa si celebra di preciso il giorno della memoria. Lo stesso Colombo, primo firmatario della proposta di legge, si rende conto della difficoltà di costruire una cerimonia per «non un trionfo ma una tragedia […] non un giorno luminoso, ma un buco nero della storia» ed esce dall’impasse rilanciando il tributo ai giusti che si opposero alle leggi razziali9. Una pratica che finisce per andare ad alimentare l’immagine del bravo italiano, quell’«autoritratto collettivo rassicurante e autoassolutorio, comodamente accettato dall’intero Paese»10, e che rischia nuovamente di lasciare nell’ombra le complicità del regime fascista – termine che come è stato già notato non viene mai pronunciato durante il dibattito parlamentare – nella persecuzione del popolo ebraico, rimozione su cui si basava quel senso comune nazionale di responsabilità limitata che per Colotti è stato anche l’alibi del ritardo temporale e metodologico della storiografia prodotta in Italia su questi temi11.

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Italiani brava gente, anche verso gli ebrei: tra il 1938 e il 1943 li perseguitarono sì, ma pochino, tanto per tenere buono Mussolini. Lo scrive Michele Sarfatti nel numero di domani, che rimarrà in edicola per un mese, del settimanale «Diario», dedicato completamente alla «Shoah» e al tema della memoria (la cui giornata si festeggerà domani)12

annuncia un articolo, non firmato, del «Corriere della sera» negli stessi giorni in cui viene data la notizia che a Budapest sono iniziate le riprese del film su Giorgio Perlasca, lo Schindler italiano13.

Nel 2001 per il primo giorno della memoria a Milano viene organizzata una fiaccolata in cui «sfilano i cartelli con i nomi dei lager» e a cui segue il comizio in piazza Duomo di autorità e testimoni-sopravvissuti alla deportazione, lo stesso modello delle celebrazioni ufficiali del 25 aprile14. A distanza di più di dieci anni dall’introduzione della commemorazione possiamo invece registrare che il rituale ha abbandonato la piazza, per privilegiare quei «momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione» indicati dalla legge. Cosa succede il 27 gennaio di ogni anno? Come prova a ricapitolare Loewenthal a partire dalla propria esperienza di narratrice ed ex relatrice a molte iniziative pubbliche:

Le istituzioni nazionali e locali lo celebrano ufficialmente. I comuni prevedono una cerimonia, un discorso, l’intervento di un ospite. A margine della cerimonia, non mancano mai cicli di eventi: conferenze. Letture. Concerti. Voci di testimoni, se ancora se ne trovano. Film e filmati. Enti locali di natura diversa provvedono egualmente a organizzare qualche cosa. In sostanza il cittadino si trova di fronte a un ventaglio di occasioni, a una serie di proposte15.

O meglio a una ridondanza di eventi, data anche dallo sforzo di chi li organizza di «escogitare qualcosa di diverso da dire e fare, ogni anno che passa»16, cosa che finisce per impedire la nascita di una vera ricorrenza. E il 27 gennaio, che per legge è il giorno in cui si ricorda lo sterminio e le persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti, viene abitato anche dalle memorie di altre vittime: omosessuali (omocausto) e Rom e Sinti (porrajmos).

Poi ci sono le scuole: […] assemblee plenarie con interventi di qualche ospite […] Gite scolastiche ai campi di sterminio. Spedizioni con treni che rievocano quei terribili viaggi. Approfondimenti. La memoria è fra i temi più gettonati delle tesine di maturità, e quasi sempre per «memoria» si intende quella della Shoah17.

Obbligo di ricordare, rischio di banalizzazione, effetto consolatorio, retorica del mai più!… queste sono le spie di disagio che emergono dal dibattito pubblico sull’utilità del giorno della memoria che si riapre ogni 27 gennaio. E, per passare a un piano mainstream, l’attenzione che si produce rende quel giorno anche occasione per dare sfogo alla seppur residuale parte della società che è cresciuta con una verità diversamente vera. I muri di alcune città, Roma in particolare, e i manifesti delle iniziative istituzionali diventano la carta bianca su cui raccontarla: «Anna Frank è bugiarda», «olocausto menzogna mondiale», «i campi di sterminio? Sono falsi, no realtà», per fare solo alcuni esempi.

Corriere della Sera_26-01-2014

Giorno del ricordo

Manifesto di 10 febbraio: io non scordo (2012) quinta edizione della manifestazione virtuale organizzata da Casapound Italia e Radio bandiera nera in cui si invitano siti internet, blog e forum ad osservare «un’ora di silenzio nel rispetto dei connazionali caduti per mano degli assassini titini».

Più tortuoso è il percorso di istituzione del giorno del ricordo. Nella seduta del Senato in cui viene approvata la legge – n. 92 del 30 marzo 2004 – sono discussi congiuntamente tre disegni analoghi, uno dei quali, quello di Menia, già approvato dalla Camera nella precedente legislatura18. Il primo articolo del testo di legge ricalca l’istituzione del giorno della memoria («conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo» attraverso iniziative nelle «scuole di ogni ordine e grado» e favorendo «da parte di istituzioni ed enti, la realizzazione di studi, convegni, incontri e dibattiti»), mentre gli altri sono in riferimento ai finanziamenti ad enti di promozione della cultura istriano-fiumano-dalmata e ai riconoscimenti onorifici per i parenti di «soppressi e infoibati» e assimilabili, cioè «scomparsi e quanti, nello stesso periodo e nelle stesse zone sono stati soppressi mediante annegamento, fucilazione, massacro, attentato, in qualsiasi modo perpetrati»19, così come previsto dalla proposta di concessione di un riconoscimento che sempre Menia aveva avanzato nel 2001. Al contrario che per il giorno della memoria, il provvedimento non viene votato all’unanimità, e anche sulla scelta della data ci sono voci contrarie: il 10 febbraio 1947 (firma del trattato di Parigi che sancisce la restituzione alla Jugoslavia di Rijeka-Fiume, Zadar-Zara e altri territori occupati dal regime fascista) indicata in tutti i disegni di legge è quella proposta dalle associazioni dei profughi, mentre nel dibattito parlamentare alcuni esponenti del centrosinistra propongono il 20 marzo 1947 (ultimo viaggio del piroscafo Toscano da Pula-Pola all’Italia).

Il parallelismo con il giorno della memoria emerge diverse volte durante la discussione in aula, non nascondendo che il giorno del ricordo ha una impronta politica tesa a controbilanciare la riflessione sui crimini del nazismo che si crea il 27 gennaio, alla ricerca di una par condicio della storia nazionale e della storia del Novecento. Lo stesso Menia aveva già avuto modo di esplicitare questa forma di continuità-contrapposizione:

«Pavido e inetto, umiliarsi così davanti al console sloveno. Si tenga pure gli abbracci della signora Jadranka [il console Jadrranka Sturm Kocjan, ndr], dell’Arcigay e dell’Arcilesbiche. Ma chieda scusa. O la prima volta che incontrerà il parente di un infoibato si prenderà uno schiaffo». Il deputato assessore e leader di An a Trieste, Roberto Menia, parlava del «suo» sindaco forzista Roberto Dipiazza. Reo, agli occhi degli alleati di destra (e degli stessi forzisti), di aver fatto tradurre simultaneamente in sloveno il suo discorso pronunciato nella Giornata della Memoria alla Risiera di San Sabba, accogliendo la richiesta del console sloveno e delle sinistre; nonché di aver evidenziato la morte di «partigiani e ostaggi sloveni e croati, rastrellati nei villaggi del circondario» e di omosessuali e persone deboli, senza menzionare i morti delle foibe20.

Per il cerimoniale istituzionale il giorno del ricordo non è una festività né una giornata celebrativa, ma una delle “solennità civili italiane” per le quali è previsto l’imbandieramento degli edifici pubblici. Se la prima del giorno della memoria sembrava aver colto impreparate le istituzioni e le associazioni dei deportati che avevano come possibile riferimento solo le celebrazioni del 25 aprile, nel 2005 il primo giorno del ricordo può avvalersi di una “scuola” ormai consolidata di come si costruisce una “data da non dimenticare”. Sono così promosse iniziative con carattere unitario in più giorni, in più città e di diversa tipologia (messa solenne, minuto di silenzio, omaggio ai caduti, etc.). A Torino si svolge una giornata di studi organizzata dall’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea, in collaborazione con l’Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (Anvgd); a Roma Maurizio Gasparri (An) – allora ministro per le Comunicazioni – presenta l’emissione di un francobollo commemorativo dell’esodo, e durante la celebrazione ufficiale le istituzioni depongono una corona di alloro all’Altare della patria; a Trieste invece si sceglie una sfilata a cui segue un incontro mondiale degli esuli istriani, fiumani e dalmati, a cui partecipano Gianfranco Fini (An) – in qualità di vicepresidente del Consiglio – e Francesco Storace (An) – presidente della regione Lazio che per l’occasione porta a Bassovizza in viaggio-premio 130 studenti di scuole superiori di Roma, Frosinone, Sora, Latina, Rieti e Tarquinia21. Va sottolineato che la costante presenza e la visibilità degli esponenti di An durante le celebrazioni ufficiali ha un carattere revanscista, come afferma Storace il 10 febbraio 2005 «è stata una giornata radiosa per la destra italiana», soprattutto per la piazza di Trieste dove «abbiamo manifestato per anni, chiedevamo verità»22.

manifesto Noi ricordiamo tutto

Meno di un mese dopo il giorno della memoria al pubblico televisivo, ai lettori dei quotidiani e agli studenti di ogni ordine e grado viene ri-posta l’attenzione sulle vittime e sulla seconda guerra mondiale, attraverso iconografie e semantiche che richiamano la Shoah. Invece che sul mai più!, la retorica del giorno del ricordo si focalizza sul concetto di verità. Una verità nascosta/negata, venuta finalmente allo scoperto23, e soprattutto una verità presentata come bipartisan24. Sul piano pubblico il sedimentare della tradizione, invece, mette in luce che alle tante iniziative che i comitati locali dell’Anvgd organizzano in tutta Italia25 e ad alcune commemorazioni dell’estrema destra, spesso si oppongono manifestazioni di piazza o momenti di approfondimento per ricordare tutto, cioè quel contesto dell’occupazione fascista del confine orientale dimenticando il quale foibe ed esodo si possono ridurre ad una questione solo nazionale/di italianità. E per chiudere il cerchio, le iniziative per ricordare tutto vengono a loro volta contestate e tacciate di “revisionismo”, “riduzionismo” e “negazionismo”, termini ormai entrati nel vocabolario comune – con accezioni fortemente negative – a partire dalla stigmatizzazione di chi vorrebbe negare lo sterminio ebraico e la sua portata o riscrivere la storia della Resistenza. Meglio non sembra andare sul fronte delle celebrazioni ufficiali. Se il tono di alcuni discorsi pronunciati da Giorgio Napolitano il 10 febbraio hanno rischiato di innescare incidenti diplomatici con Slovenia e Croazia, anche l’analisi dei riconoscimenti onorifici previsti dalla legge (insegna metallica e diploma) fatta da Volk rivela che il 73% «sono andati ad appartenenti a formazioni collaborazioniste e fascisti in armi o meno»26.

Il sopraggiunto scioglimento di An e l’emergere di altre priorità nell’agenda politica del centrodestra italiano hanno fatto calare di recente l’attenzione istituzionale sul giorno del ricordo27. Il tema rimane caldo, oltre che sui muri28, anche sugli spalti, almeno a giudicare dalle notizie che trasformatesi in polemiche riescono a trapelare dalla cerchia calcistica: come i contro-cori – da una parte l’offesa a Morosini, defunto giocatore del Livorno, e dall’altra l’inno alle foibe – di Livorno-Verona (Serie B, 20 novembre 2012), o lo striscione «Nel ricordo non li hanno uccisi. Onore ai martiri delle foibe» esposto durante Lazio-Borussia Mönchengladbach (Europa league, 21 febbraio 2013) che diventa un caso quando nella foto pubblicata mesi dopo su «La gazzetta dello sport» viene erroneamente definito in didascalia come “vergognoso”.

25 aprile

Il 25 aprile è istituzionalmente il giorno in cui si celebra la liberazione dal nazifascismo e, a differenza delle nuove date del calendario civile italiano, è un giorno festivo. La nascita di questa ricorrenza e il suo cerimoniale sono già stati ampliamente analizzati, anche in raffronto alle fasi attraversate nei settant’anni passati dall’insurrezione di Milano che la data rievoca29. Quello che vorrei solo accennare qui sono alcune spie di disagio del difficile rapporto tra la storia della Resistenza e il suo senso comune, non tanto rispetto all’attacco frontale di quel revisionismo che ha trovato in Pansa il più recente paladino, ma in situazioni che potremmo definire amiche del 25 aprile, cioè enti, associazioni e realtà politiche che lo celebrano anche oltre la ricorrenza e le cerimonie ufficiali.

Parto da qui perché l’idea del dialogo ad Amelia si era accennata nella mia mente nel corso di una di queste occasioni: ero stata invitata da una associazione culturale di un piccolo comune dell’hinterland milanese per dare un contributo su Resistenza e fonti orali ad una iniziativa semi-seminariale aperta alla cittadinanza e organizzata per il 25 aprile. Nel mio intervento avevo cercato di ricostruire quel rapporto affettuoso tra storico e testimone che si era creato nelle tante raccolte di storie di vita registrate, archiviate e disponibili per le ricerche storiche. Per problematizzare la questione avevo espresso anche la difficoltà di chi si occupa di storia della Resistenza ad interagire con la stratificazione di narrazioni funzionali a un certo immaginario e a una specifica retorica, pedagogica e morale, che negli anni aveva finito per produrre una lettura delle esperienze personali tutta uguale, cioè diversa da una lettura corale. E avevo identificato alcuni degli elementi comuni di questa epopea partigiana nell’appoggio incondizionato della popolazione, nell’unità delle forze resistenziali, negli alti valori della scelta, etc. Anche a partire dall’inefficacia di questo tipo di memoria che Guido Chiesa, co-autore con Giovanni De Luna del documentario 25 Aprile: la memoria inquieta e regista de Il caso martello e Il partigiano Johnny, aveva lucidamente fotografato da osservatore interno-esterno:

Non c’è stato incontro o dibattito in cui un partigiano o un insegnante o chicchessia non si sia alzato in piedi per parlare dei valori della Resistenza/antifascismo, spesso e volentieri evitando di riferirsi ai miei film. Quali fossero questi valori, a un’indagine approfondita, non l’ho mai capito. O, meglio, se sono quelli che mi sono stati elencati di volta in volta (anelito per la libertà, spirito di sacrificio, coerenza, etc.), devo ammettere che allora ho capito poco della Resistenza/antifascismo. Tutti questi valori a me risultano essere aggettivi senza sostantivi: liberi da chi? Sacrificio per che cosa? Coerenza rispetto a che?30.

Quando ho finito di parlare c’è stato un applauso. Durante il dibattito che è seguito alle relazioni ha preso la parola un ex partigiano della zona e ha fatto un discorso sullo stesso modello che io avevo appena finito di definire “memoria tutta uguale”. L’altro storico invitato all’iniziativa mi ha subito bisbigliato all’orecchio: «sta facendo esattamente quello che hai detto che avrebbe fatto». E alla fine dell’intervento c’è stato un altro applauso. Mi è così venuto il serio dubbio che tutto quello che avevo detto non fosse servito a restituire una complessità, o meglio che i miei spunti di ragionamento fossero poi stati spazzati via dall’elemento emozionale dell’ascolto del testimone e dal rassicurante ritrovarsi in cose già sentite in tante altre occasioni.

Corriere della sera_26-04-2001_p 3

La necessità di uscire dal mito agiografico della Resistenza – e dei partigiani tutti giovani e belli – mettendone in luce le contraddizioni senza inficiarla o toglierle valore, era stata posta in sede storica da Quazza a partire dalle istanze di “rivoluzione tradita” dei giovani contestatori del ’6831 e già auspicata come in incipit per il trentennale32. In questa direzione, ad esempio, si può collocare il lavoro di Pavone sulla soggettività partigiana, una analisi di parte, non celebrativa, che per la storiografia specialistica segna una vera svolta33. Eppure la definizione «guerra civile» per cui è più nota questa ricerca anche tra chi non l’ha letta, è stata per reduci ed eredi della Resistenza un tabù per molto tempo – e forse per alcuni lo è ancora – per il timore che portasse ad una equiparazione tra collaborazionisti e resistenti34. Il tema riemerge nel dibattito pubblico nel 2003, quando An presenta una proposta di legge per riconoscere a soldati e ufficiali dell’esercito della Repubblica sociale italiana la qualifica di “militari belligeranti”35, e contro la quale subito si mobilitano Anpi (Associazione nazionale partigiani d’Italia) e Anppia (Associazione nazionale perseguitati politici italiani antifascisti) con una campagna che viene sostenuta anche da istituti della Resistenza, storici e storiche, enti, associazioni, cittadini e che porta alla cancellazione della discussione in Senato e all’archiviazione della proposta.

Restando in sede politica, la maggior parte dei tentativi fatti per riattualizzare i valori della Resistenza non sembrano essere andati nella direzione della complessità e della decostruzione mitologica, ma assomigliano di più a un riadattamento del suo senso comune a situazioni contemporanee che con ciò che fu nel 1943-1945 poco hanno a che fare. A partire da quello che annotava Wu Ming:

Nel 1990 le facoltà occupate pullulavano di superficiali cultori di una non-violenza a-storica, trascendentale; ebbene, a volte capitava di sentire cantare “Bella ciao”, e se gli facevi notare che i partigiani erano armati, sparavano, condannavano a morte, ecco che gli sguardi si spegnevano. La Resistenza era diventata uno dei tanti elementi di un’identità di sinistra fai-da-te, annacquata, buonista, tipo foto del Che incollata su una pagina della Smemoranda36,

per arrivare al quasi ossimoro La resistenza oggi si chiama nonviolenza. La liberazione oggi si chiama disarmo, dell’appello per il 25 aprile 2014 dell’Arena di pace e disarmo.

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Nel calendario civile italiano, 25 aprile, giorno della memoria e giorno del ricordo più che collaborare a edificare o ri-fondare l’identità della nazione, rimangono date identitarie e corporative. Gli sforzi istituzionali di costruire una storia nazionale condivisa e pacificata sembrano non avere un futuro proprio grazie a/a causa di «chi ha memoria». Se l’essere al centro del dibattito pubblico ha favorito il fiorire di pubblicazioni, la raccolta di memorie e l’avvio di ricerche storiche su questi stessi temi, non rimane che constatare che le domande con cui interroghiamo il passato si formano in un presente che non prescinde dal senso comune, dalle polemiche giornalistiche, dall’agenda politica, dalle epiche televisive, dagli anniversari a cifra tonda, etc.

E se a farsi carico della retorica della propria memoria sono soprattutto gli eredi di partigiani, deportati o esuli, per tornare a una delle domande che avevamo affrontato durante il dialogo ad Amelia, che ruolo ricoprono in questo scenario storici e storiche? Forse molto più marginale di quel compito politico-sociale che per Hobsbawm dovevano “rassegnarsi” ad assumere, e il nostro «che fare?» nelle circostanze celebrative è ancora tutto da capire.

 

 

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