Mezzo secolo

Mezzo secolo

di Nicoletta Poidimani

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Ai primi di gennaio è arrivato a compimento il mio primo mezzo secolo, preannunciato da un’ondata di ricordi lontani che riaffioravano da chissà quali anfratti della memoria.
Non è una novità che più si avanza negli anni e più il passato vada condensandosi in una forma complessa, multidimensionale. Ma un conto è dirlo e un conto è vivere questa sorta di ‘stato modificato di autocoscienza’.

Insomma, mi trovavo in questo ‘viaggio’ in cui il particolare e l’universale si intersecano e danno forma a mezzo secolo di storia e di passioni, di rabbia e desideri, quand’ecco che proprio questo mezzo secolo di storia mi/ci ripiomba sulla testa scatenando l’immancabile canea mediatica e gli ancor più immancabili richiami ad un’improbabile unità (ma in nome di che?!?).

Non entro volutamente, nella questione degli attentati di Parigi se non per dire che nemmeno una cellula del mio corpo può né vuole identificarsi con un veicolo di razzismo e sessismo (ma le avete viste le vignette sulle donne col burqa? e quella sarebbe satira?!?!!), e che quindi è poco ma sicuro che io non sono Charlie ma Nicoletta e che se proprio devo trovare una affinità sicuramente il mio pensiero va a  Sakine Cansiz e alle sue compagne kurde Fidan Dogan e Leyla Soleymez, assassinate nel centro di Parigi nel gennaio del 2013. Ma anche questa è retorica, in fondo, e vorrei starne fuori, perché la retorica è una macchina che stritola trasformando ogni cosa, anche quelle più dignitose, in liquido vischioso e appiccicaticcio.

Delle tante, troppe cose lette in questi giorni, le poche che mi son parse lucide si possono sintetizzare in questa considerazione di Anna Vanzan:
Con immutata ipocrisia, gli stati occidentali chiedono ai musulmani migrati fedeltà alla convivenza civile, mentre essi stessi continuano a intessere rapporti politici e soprattutto economici con chi da decadi arma gruppi terroristici al fine di mantenere intatta la propria supremazia in Medio Oriente: l’Arabia Saudita, il Qatar, il Bahrein e altri stati del Golfo.

Nulla di nuovo, d’altra parte: si chiama patriarcato capitalista suprematista. E ogni donna dotata di consapevolezza controegemonica non può che vedere in quella storia la propria storia, come singola e come genere.
Ecco, allora, sovvenirmi la potenza (e la nostalgia!) di quando, nel 2001, con un NO! polifonico e femminista in una decina di amiche e compagne ci siamo sottratte tanto allo ‘scontro di civiltà’ quanto alla melassa del pacifismo.

Due di loro, purtroppo, non sono più fra noi; una terza ha visto bene di tornare al paese d’origine per farvi crescere la sua splendida bimba; un’altra continua a combattere contro mille difficoltà ogni volta che deve rinnovare il permesso di soggiorno, perché a causa del suo cognome le questure pensano che si tratti di un uomo musulmano e quindi apriti cielo. Un paradosso nel paradosso, per una donna che di sé e della sua situazione dice: “Mi sento come una pianta in un vaso, che viene spostata qua e là e non può mai mettere radici in un posto”. Per altro, mai avevo avuto una percezione così chiara di quale privilegio fosse il poter strappare le proprie radici e, soprattutto, di quale diversissima valenza si potesse dare ad una parola come questa!

E mentre mezzo secolo (e ben oltre…) di storia si prendeva un’altra sanguinosa vendetta, ecco che la sorte mi catapulta in una dimensione quasi surreale, in mezzo a decine di donne e uomini giovanissimi e straripanti di domande e incertezze. Una generazione la cui potenziale autonomia di pensiero – quella vera, mica la vuota formuletta della ‘libertà d’espressione’ – viene quotidianamente sacrificata sull’altare della disciplina e della normalizzazione.
D’altra parte, una ministra tempo fa aveva tuonato “Cancelleremo lo spirito del ’68 dalla scuola”… Ce l’hanno fatta, ma non sono riusciti a lobotomizzarli/e, e allora i dubbi si affacciano da prima timidi e poi sempre più impetuosi, come un fiume in piena. Dubbi, paure, spaesamento o, che poi è l’altra faccia della medaglia, arroccamenti su certezze fittizie e perfino forcaiole.

È stato un vero e proprio shock capire che quella che per me è la ‘mia’ storia, per loro è già ‘la storia’, nel senso di parole senza corpo né emozioni sui libri di scuola.

Eppure, se l’equilibrio del terrore negli anni della guerra fredda è stato il background della mia infanzia e dell’adolescenza, quando mia madre mi raccontava di come scappavano nei rifugi al suono dell’allarme antiaereo, durante la guerra, anche a me pareva di sentire quelle sirene. Che dono prezioso la memoria da una generazione all’altra!

‘Durante la guerra’: quando io ero bambina era quella la guerra di cui ci raccontavano i genitori e (per chi ancora li aveva in vita) i nonni, non c’era bisogno di specificare di quale guerra si trattasse. Ma poi la guerra ha cominciato a riprodursi con processi meiotici sempre più rapidi, fini a diventare lo sfondo della quotidianità, e oggi un/una adolescente italiano/a può tranquillamente pronunciarsi a favore della tortura o della pena di morte, perché ‘Mors tua, vita mea’. Da brividi, soprattutto se pensiamo che in tutto ciò nessuno spazio ha la riflessione su chi davvero quotidianamente avveleni le nostre esistenze e il mondo in cui viviamo e cosa fare per fermarlo.

Ma come siamo arrivate/i a questo punto? La ‘saggezza’ del mezzo secolo mi fa pensare che ‘questo punto’ non sia altro che il necessario sviluppo di posizionamenti opportunistici che negli ultimi due decenni ho visto moltiplicarsi a dismisura.
La postmodernità, in fondo, con la sua distruzione di ogni coordinata, a partire da quelle etiche, non poteva che portare acqua al mulino dei/delle camaleonti. E così chi un anno si schiera a favore della ‘guerra umanitaria’, un paio di anni più tardi te la ritrovi ululare contro tutte le guerre umanitarie, ma sempre ben salda sulla propria poltrona. Chi accusa un giornale di aprire ai fascisti del terzo millennio, qualche anno dopo con quei giornalisti ci va a braccetto, come nulla fosse. E via dicendo…

Potrei fare infiniti altri esempi, ma il senso è questo: il passaggio del testimone – la memoria, appunto – sembra una pratica fuori moda, a meno che il testimone non sia stato sfilacciato a tal punto da poter essere tutto e il suo contrario, dunque irriconoscibile.
In una tale melma, poi, ci sguazzano allegramente i peggiori soggetti e chi fino a qualche anno fa se ne stava ben defilato/a oggi può ripresentarsi con arroganza. Perfino se, con l’infamia, ha svenduto la libertà altrui per la propria.

Questa sorta di stream of consciousness non è che la millesima parte dei pensieri che mi attraversano in queste settimane. Ma mi fermo qui perché non è mio uso ammorbare il mondo con la mia autobiografia né tanto meno scrivere ossessivamente su un blog ogni cosa che mi passa per la testa solo per avere la conferma di esistere.
Il movimento delle donne mi ha insegnato che occorre partire da sé, ma senza fermarsi a sé.
Fare i conti con la mia storia individuale non può, quindi, che farmeli fare anche con il piano più generale della storia – intesa come susseguirsi di generazioni – se non altro per rinnovare, in questa intersezione, la spinta ad agire. Malgrado tutto.

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