Recensione di “Coscienza illusoria di sè”

Lunga vita al femminismo!

di Nicoletta Poidimani

«Gli Stati Uniti […] dominano tutte e cinque le sfere della potenza politica, economica, militare, tecnologica e culturale. […] Gli Stati Uniti realizzeranno il loro sogno non solo di ritornare alla situazione post seconda guerra mondiale, ma di trasformare l’Europa tutta in un protettorato. Siamo in questa situazione per via dell’inesorabilità della logica del capitale e va raccontata per quella che è. Era solo questione di tempo che si arrivasse allo stadio attuale, che il dinamismo di quel sistema si dispiegasse fino a raggiungere anche i rapporti interstatali e l’attuale livello in cui una superpotenza egemone arriva a dominare su tutte quelle meno potenti, per quanto grandi, e ad affermare la sua esclusiva pretesa di essere lo Stato del sistema del capitale» (pp. 96-97).

Queste poche righe sintetizzano lo sfondo sul quale si dipanano le analisi femministe di Elisabetta Teghil, raccolte nel suo Coscienza illusoria di sé.

coscienza illusoria

Ultimo volume di una “trilogia epistolare”, come i due precedenti – Ora e qui (2011) e Il sociale è il privato (2012) – esso raccoglie gli interventi che, con ammirevole costanza, l’autrice ha inviato ad alcune liste femministe di discussione.

Il punto di vista proposto non è affatto quello di un femminismo riduzionista o emancipatorio quanto, invece, un efficace sguardo sessuato sul mondo attuale e sui dispositivi che lo governano nonché sulle forme di resistenza e le pratiche di trasformazione, per «riaffermare con forza l’alterità di ogni movimento femminista a qualsiasi ipotesi di gestione di questa società», perché «spetta a noi praticare direttamente i nostri bisogni reali con la consapevolezza della portata liberatoria che questo ha nei confronti dei miti volutamente fallaci e fuorvianti della legalità e della non-violenza» (p. 11).

Proprio nel momento in cui una sempre più diffusa miopia politica si mostra incapace di mettere in relazione i nodi del “globale” nella lettura della “crisi”, Elisabetta Teghil illustra con lucidità come il modello sociale dominante condensi in sé le disparità sociali cristallizzate del feudalesimo, il ritorno dell’aristocrazia nell’attuale iper-borghesia transnazionale, lo Stato etico del nazismo. E individua, nelle componenti socialdemocratiche riformistiche, ivi incluso il femminismo riformista ed emancipatorio, dei veri e propri «agenti controrivoluzionari» (p. 159).

Con l’intento, più che riuscito, di superare la ricorrente frammentazione delle analisi sull’esistente ed evitando, allo stesso tempo, di cadere nelle generalizzazioni, l’autrice mette a punto un’efficace cassetta degli attrezzi per sottrarsi alle complicità – anche femminili – che il neoliberismo esige nella costruzione di una «società che è un incubo» (p.138).

Se il capitalismo neoliberista necessita di una convergenza ideologica e disciplinare che non ammette alternative, soltanto dall’analisi di questa convergenza possono trasparire le strategie di resistenza, sottrazione e ribellione al dominio di questa «versione attualizzata della Versailles che, oggi, è rappresentata dalle multinazionali anglo-americane di cui sono emanazione i rispettivi governi» (p.93). E non c’è spazio per le “anime belle”!

Efficaci e ricorrenti sono tanto l’analisi del ruolo servile dei partiti socialdemocratici – PD nostrano incluso – nella gestione economica e militare dell’ordine mondiale, quanto la funzione ideologica svolta dalle «prefiche» della non-violenza e della legalità, che «predicano non-violenza sempre e soltanto alle vittime» e che, «con la stessa puntualità di fronte alla violenza istituzionale, brillano per la loro assenza e per il loro silenzio» (pp. 102-103).

La criminalizzazione degli oppressi e delle oppresse che si ribellano – e che ha assunto i connotati di una guerra neocoloniale contro uomini e donne impoveriti di tutto il pianeta – ha, come altra faccia della medaglia, una vera e propria operazione di pinkwashing: la concessione di diritti. «La socialdemocrazia – scrive Teghil in un e-mail dal significativo titolo Libere sempre, complici mai – ha vinto la battaglia intellettuale tra le varie correnti borghesi, occupando lo spazio del conformismo, del conservatorismo, della reazione, trasformandosi in destra “moderna” da quando ha accettato la missione di promuovere il neoliberismo. […] In questo ambito sono state fatte concessioni e leggi alle donne, ai gay, alle lesbiche e alle trans, ma, per come sono state date, sono come la libertà condizionale per un detenuto e, in cambio, vogliano la nostra anima, il nostro cuore, la nostra intelligenza. In parole povere, vogliono la nostra complicità» (pp. 85-86).

Se la «coscienza illusoria di sé», è «assoggettamento della coscienza individuale delle donne ai programmi di comportamento patriarcale» (p. 81), occorre, allora, conquistare una memoria autonoma e collettiva del movimento femminista» (p. 157), «recuperare lo spirito del femminismo che è antagonista e liberatorio, che vuole lo scardinamento dei ruoli e delle dinamiche di oppressione comprese quelle delle donne contro le donne» (p. 163).

Come sintetizza efficacemente l’intervento finale – Lunga vita al femminismo! – «Il femminismo oggi comincia da questa capacità di costituirsi autonomamente, che abolisce lo stato di cose presenti, comincia dall’esistere come afflato nella facoltà comune di produrre, curarsi, coltivare… nella condivisione dei saperi, della poesia, della musica, delle immagini… nella forza di resistere alla normalizzazione, nell’intelligenza dell’illegalità e del sabotaggio […]».

Trovo queste considerazioni quanto mai attuali e urgenti dato il persistente proliferare, nell’humus del privilegio di classe e del suo riformistico mantenimento, di  post: dal postmoderno al postumano, passando per il postfemminismo. Un proliferare il cui effetto reale è, in fondo, quello di distogliere ed addomesticare ogni forma di insorgenza radicale contro le sempre più immiserite ed alienate condizioni materiali di esistenza.

In questo quadro, l’unico post che possa avere un senso è il postvittimismo, se con esso intendiamo la rottura definitiva con un dispositivo subalternizzante vecchio come il patriarcato: la dialettica serva/padrone. Coscienza illusoria di sé, di Elisabetta Teghil, va senza dubbio in questa direzione.

(Elisabetta Teghil, Coscienza illusoria di sé, Bordeaux, Roma 2013, pp. 239, 16 euro)

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