Questa legge sul femminicidio? No,grazie!

da scateniamotempeste.wordpress.com

Di ScateniamoTempeste

Nessuna di noi può dirsi a favore dell’uccisione di una donna da parte di un marito, di un fidanzato, di un ex, di chicchessia, per motivi che vengono definiti “passionali” e che noi definiamo residui di una cultura patriarcale e machista, frutto della barbarie che stato-chiesa-istituzioni hanno contribuito a giustificare per secoli. Però tutte abbiamo la capacità di discernere se l’attenzione verso un fenomeno reale, balzato improvvisamente alla ribalta degli schermi da parte dell’autorità pubblica, è vero interesse nei confronti delle donne o motivo di faziosa propaganda politica.

Ed ecco il solito meccanismo perverso, illusorio, in cattiva fede ricomparire: si innesca su tutte le televisioni il dibattito su una problematica (in questo caso reale, ed è per questo forse che andrebbe trattata con serietà), si fanno due o tre pubblicità “progresso”, si pone sotto i riflettori dunque il tema all’opinione pubblica e si invoca la legge.

Come per la Turco-Napolitano, che introduceva i Cpt: mesi di servizi televisivi con immagini di barconi con gli immigrati albanesi che fuggivano in Grecia e in Italia con la crisi del 1997 e l’invocazione bilaterale ad una politica nuova sull’immigrazione, che risolvesse i problemi… e sbucarono dal cilindro dei legislatori i Centri di permanenza temporanea (appunto i Cpt, oggi Cie). I problemi degli immigrati non erano stati risolti, anzi si aggravavano ma forse hanno dormito sonni più tranquilli tutti quegli italiani che si erano lasciati sedurre dall’idea che gli albanesi fossero ladri e mafiosi. Di fatto l’ingiustizia era stata attuata.

Un esempio su molti.

Qualche giorno fa la storia si è ripetuta. Da mesi la stampa e le istituzioni si sono appropriate di un termine di cui a lungo avevano ignorato l’esistenza e la sostanza o addirittura, come la Signora Clio, avevano detto che il concetto era giusto ma la parola “brutta”. Ecco, dicevo, se ne appropriano e il femminicidio diventa un argomento di tutti e le televisioni fanno servizi ricchi di particolari sulle torture inflitte alle vittime e alla “follia” dei carnefici, in cui sulla descrizione ovviamente domina il pettegolezzo, meglio se sessuale, sulle frequentazioni della donna uccisa (così si vendono anche più rotocalchi, perché così in spiaggia si possono soddisfare le proprie morbose curiosità).

“Finalmente” le donne della politica ufficiale, quelle che difendono sempre la polizia, anche quando sevizia e stupra, per intenderci, le donne perbene insomma, chiedono a gran voce una legge.

Et lex fuit.

Ora, la nostra premessa è che, allo stato attuale delle cose, non crediamo alla giustizia dello stato. Di questo stato. Non perché ci sentiamo Calamity Jane, bensì perché siamo consapevoli che la giustizia dello stato capitalista è la legge del più forte e la legge infatti serve a stabilire rapporti di forza, e che le donne in questo tipo di stato hanno potere visibilità e ottengono giustizia solo se e quando si dimostrano collaborative nei confronti di esso. E noi non lo siamo. Non siamo contro lo stato in generale né contro le leggi, siamo, in particolare, contro questo stato e queste leggi. Siamo totalmente scoraggiate nei confronti della giurisprudenza dello stato e rispettiamo le sue leggi necessariamente perché ne siamo costrette, non perché riteniamo in esse sia riposto uno spirito di giustizia ed uguaglianza dei cittadini.

Anche senza avere le nostre opinioni, in questo caso si converrà che si può giungere alle medesime conclusioni circa questa ulteriore inutile legge varata passando sul corpo delle donne.

Lo stato ha formulato una legge altamente repressiva nei confronti di cyberbulli, stalker e omicidi, aumentando le pene per chi commette reati contro le donne e facendo guerra alla violenza di genere. Una guerra puramente ex-post, dopo che il delitto, l’aggressione, il danno sono avvenuti. In altri contesti, in altre epoche, in altri paesi l’innalzamento delle pene carcerarie (addirittura l’introduzione della pena di morte) si sono sempre rivelati inefficaci per quel che riguarda i crimini efferati. Negli Usa, su tutti, gli omicidi non sono di gran lunga inferiori di numero laddove vige la pena di morte rispetto a quelli stati che non la applicano.

Uccidere, violentare, seviziare una donna, la propria donna, non è la stessa cosa di guidare ubriachi, non mettere la cintura, non pagare il canone Rai. In questi casi, consapevoli o meno delle sanzioni, per leggerezza o per volontà deliberata, ciò che si rischia è una multa, non vi è l’idea o l’intenzione di commettere un reato. La pena fa paura ma il gioco sembra valere la candela e si accetta una sorta di rischio, sperando di non essere scoperti. Le pene non fanno paura invece a chi, a mente ferma o no, ha deciso che quella donna è sua e di nessun altro. In questi casi, l’omicida sa già che verrà riconosciuto, fermato, processato. Nessuno o quasi spera di farla franca, tanto è che quasi tutti gli uccisori di mogli/fidanzate/ex vengono scovati. Questo è il retaggio di una cultura atavica, quella dell’onore, mai completamente stravolta e abbattuta, che anzi trova humus nella società, nella dottrina della Chiesa (e il suo matrimonio indissolubile), nella pubblica morale, nel costume che vuole il maschio come colui che non deve chiedere mai, fino nell’educazione delle stesse madri, che “guai se qualcuna fa qualcosa a mio figlio”. Allora un decreto che inasprisce le pene può fare qualcosa o è solo demagogia sparsa al vento per accumulare consensi delle benpensanti e dei benpensanti, di una borghesia finto-intellettuale, che si sorprende della brutalità degli uomini e non ha mai fatto un giro nei quartieri disagiati delle città, dove il rispetto per la vita umana, e per quella delle donne ancora di più, è legata a quanto conta in termini di “rispetto” un uomo e una famiglia? E queste stesse donne che si scandalizzano per come le altre vengono trattate, che magari si fregiano dei titoli di dottoressa, architetto o avvocato, hanno mai compreso quanta è la fatica che può fare una donna qualunque, una che viene dalle case alveare di una qualsiasi città italiana, per affrancarsi culturalmente ed economicamente da un padre o da un marito violento? E quanto, una volta affrancata, potrà davvero essere libera? E hanno mai pensato se le vittime, potendo scegliere, deciderebbero di vivere libere,in una società diversa, o di morire vendicate dallo stato? Si sono mai chieste infine, perché molte donne solidarizzano con i loro aguzzini e tendono a giustificarli?

A tutto questo sommiamo che la nuova legge sulla violenza di genere e sul femminicidio invita alla delazione (anche quando la donna stessa non vuole denunciare, complicando così la sua posizione), distingue fra donne incinte e uccise dal marito/compagno e quelle no (distinguendo così fra “vittime più vittime” e “vittime meno vittime” e invocando ancora i vecchi codici di famiglia, che facevano leva sulla coppia eteronormata e con figli) e, infine, introduce anche, passando da un argomento all’altro, sicuramente per scelta e non per incoerenza, un aggravante contro chi si oppone alla realizzazione al Tav in Val di Susa. Una svista? O una legge mascherata da femminicidio e creata per questo?

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