Assata è la benvenuta qui!

Il mio nome è Assata Shakur (nome da schiava joanne chesimard) e sono una rivoluzionaria. Una rivoluzionaria Nera. Questo significa che ho dichiarato guerra a tutte le forze che hanno violentato le nostre donne, castrato i nostri uomini e tenuti i nostri figli a stomaco vuoto. Ho dichiarato guerra ai ricchi che prosperano sulla nostra povertà, ai politici che ci mentono con il sorriso sulle labbra e a tutti i robot senza mente e senza cuore che proteggono loro e le loro proprietà. Sono una rivoluzionaria Nera e, in quanto tale, sono una vittima di tutta la rabbia, l’odio e l’infamia di cui è capace l’amerika. Come tutti gli altri rivoluzionari Neri, l’amerika sta tentando di linciarmi. […] Dobbiamo difenderci e non permettere a nessuno di mancarci di rispetto. Dobbiamo conquistare la nostra libertà con ogni mezzo necessario. È nostro dovere combattere per la nostra libertà. È nostro dovere vincere. Dobbiamo amarci e sostenerci l’un l’altro. Non abbiamo nulla da perdere se non le nostre catene.

(Alla mia gente, 14 luglio 1973)

Il 2 maggio scorso l’FBI ha inserito Assata Shakur, rivoluzionaria nera nata negli Usa e da quasi trent’anni in esilio a Cuba, nella lista dei 10 terroristi più ricercati: è la prima donna (e la seconda persona nata negli Usa) ad essere inserita in tale elenco (leggi). Insieme alla polizia del New Jersey, inoltre, ha alzato da 1 (cifra fissata nel 2005) a 2 milioni di dollari la ricompensa per chiunque fornisse informazioni utili alla sua cattura. Ma chi è Assata Shakur – che, con disprezzo, l’Fbi chiama col nome di JoAnne Chesimard, il nome da schiava che, come ogni militante dei movimenti di liberazione dei neri, Assata ha deciso di rifiutare –, chi è questa donna di 65 anni evasa nel 1979 da un carcere di massima sicurezza?
La settimana dal 2 al 9 giugno è stata dedicata a lezioni e conferenze che rispondessero a queste domande (leggi): abbiamo quindi pensato di dare anche noi il nostro contributo con questo post.
Assata Shakur nasce – come Joanne Byron – il 16 luglio 1947 a New York. Cresciuta dalla madre e dai nonni, trascorre i primi anni della sua vita in North Carolina, nel sud segregazionista degli Usa: qui comincia a vivere sulla sua pelle la profonda oppressione e differenziazione a cui sono sottoposti i discendenti degli schiavi africani. Scuola, cinema e persino le chiese sono, infatti, rigidamente riservate ai bianchi o ai neri. Assata cresce, quindi in un contesto economico e sociale caratterizzato dal razzismo, dallo sfruttamento, dall’emarginazione dei neri e delle altre minoranze: un razzismo che permeava – e permea ancora oggi – profondamente i rapporti tra le classi.
In seguito si trasferisce al nord, ma continua a vivere l’oppressione in quanto donna, in quanto nera e in quanto proletaria, quindi bisognosa di lavoro:

 Una donna Nera era una bella preda per ognuno e in ogni momento: per il padrone o per un ospite o per qualunque bestia di razzista che la desiderasse. […] Era considerata meno di una donna. Era un incrocio tra una puttana e una bestia da soma. I Neri assimilavano l’opinione dell’uomo bianco sulle donne Nere. [A. Shakur, Assata. Un’autobiografia, p. 201]

Nonostante l’accusa di terrorismo e di essere autrice di diverse rapine, Assata Shakur non fu mai una criminale: le ragioni dell’odio delle autorità americane verso di lei sono, infatti, esclusivamente politiche. Da ragazza, grazie soprattutto a una formazione culturale di buon livello (sua madre era un insegnante), è inizialmente convinta che il progresso sociale (sono gli anni del Civil Rights Act) avrebbe portato all’integrazione della popolazione nera nella società statunitense.
Nel corso degli anni ’60 matura, però, una lenta ma inesorabile presa di coscienza che la porta a constatare che «il popolo Nero era oppresso a causa della classe così come della razza, perché siamo poveri e perché siamo Neri». Assata sviluppa così un rifiuto dei valori propugnati dalla borghesia nera (e anche dalla sua famiglia di provenienza) che aspira ad essere integrata nella società razzista bianca:

 Ricordo come mi sentivo in quei giorni. Volevo essere amerikana come qualsiasi altro amerikano. Volevo la mia fetta della torta di mele amerikana. Credevo che potevamo ottenere la nostra libertà semplicemente facendo appello alla coscienza della gente bianca. Credevo che il Nord fosse realmente interessato all’integrazione e ai diritti civili e all’uguaglianza dei diritti. Me ne andavo in giro dicendo «la nostra nazione», «il nostro presidente», «il nostro governo». […] Non so di che diavolo mi sentissi orgogliosa, ma sentivo il succo del patriottismo scorrere nel mio sangue. […] Credevo che se il Sud fosse potuto diventare come il Nord, ogni cosa sarebbe andata al suo posto. […] Credevo che l’integrazione fosse davvero l’integrazione dei nostri problemi. […] Credevo che l’amerika fosse davvero una buona nazione […]. Sono cresciuta con questa roba. Credendoci veramente. E ora, venti e passa anni dopo, mi sembra tutto un’atroce burla. Nessuno al mondo, nessuno nella storia ha mai ottenuto la propria libertà facendo appello al senso morale della gente che lo opprimeva. (A. Shakur, Assata. Un’autobiografia, pp. 231-2)

Assata rifiuta quindi l’idea di essere «come i bianchi» per istruzione, rispettabilità, condizione economica o potere, che la sua stessa famiglia aveva provato ad inculcarle, in un contesto in cui tutti i neri si impegnavano per attenuare i caratteri più caratterizzanti del loro fisico (allisciandosi i capelli, schiarendosi la pelle, mettendosi mollette sul naso nella convinzione che così non sarebbe cresciuto): un ambiente in cui i pregiudizi razzisti dei bianchi contro i neri venivano accettati e fatti propri anche dai neri. Del resto, come riflette Elisabetta Teghil in alcune pagine del suo libro Il sociale è il privato, il potere e gli oppressori cercano strumentalmente di cooptare elementi provenienti da etnie, ceti, culture oppresse che, in cambio della personale promozione sociale, iniziano a partecipare all’oppressione degli ambienti da cui provengono: la borghesia nera non faceva eccezione e, come intelligentemente scrive Giovanni Senzani nell’introduzione all’edizione italiana dell’autobiografia di Assata, «non c’è servo del capitale imperialistico più zelante di quello e spietato di quello arrivato sulla scena per ultimo» (p. 21).
Negli anni ’60, da studentessa universitaria, Assata comincia così a partecipare alle lotte dei movimenti di quel periodo: prima quello studentesco, poi quello contro la guerra in Vietnam e, infine, a quello per la liberazione dei neri. Queste esperienze la portarono a entrare nel Black Panther Party, l’organizzazione che il capo dell’FBI Hoover descrisse come «la più grande minaccia alla sicurezza interna del Paese». Il Bpp, però, comincia ad attraversare una crisi sempre maggiore per i colpi inferti dalla polizia e dai servizi segreti, che attraverso l’infiltrazione mirano a disgregarlo dall’interno. Il Bpp fu infatti oggetto del programma dell’Fbi chiamato COINTELPRO, che aveva lo scopo di neutralizzare – con le buone o con le cattive, i movimenti di sinistra o di liberazione dei neri.
Assata decide quindi di uscire dal Bpp e di continuare la sua militanza nel Bla (Black Liberation Army), un’organizzazione armata clandestina anticapitalistica, antimperialistica, antirazzista e antisessista, nata nel 1971. Le convinzioni politiche di Assata, che ormai ha anche cambiato nome (Assata significa «colei che combatte», Shakur «colui che è riconoscente»), sono sempre più definite e, orgogliosamente, rivendica il suo essere donna, nera, proletaria e rivoluzionaria:

Per me la lotta rivoluzionaria del popolo Nero doveva essere contro il razzismo, il capitalismo, l’imperialismo e il sessismo, e per una effettiva libertà sotto un governo socialista. [A. Shakur, Assata, p. 319]

La lotta di Assata ha, quindi, l’obiettivo superare il sistema capitalista. Non odia i bianchi ma pensa che «sia disonesto dire che la gente bianca, che vive in una società razzista, che ha un’educazione razzista da parte di maestri razzisti e spesso con parenti razzisti, che legge libri razzisti, che guarda una televisione razzista, ecce cc, non è affetta da razzismo. Chiunque vive in una società razzista è affetto da razzismo. La gente bianca deve preoccuparsi del razzismo su due piani: a livello politico e a livello personale. E questa è una battaglia di tutta la vita per chi è seriamente interessato a lottare contro il razzismo» (intervista a Crossroad, 1991).
Militante del Bla, quando si rende conto che la polizia la stava cercando per indurla a collaborare, entra in clandestinità e continua così la sua lotta. Il 2 maggio 1973, la macchina su cui viaggiavano Assata Shakur, Zayd Malik Shakur e Sundiata Acoli viene fermata in New Jersey, ufficialmente per una luce difettosa, in realtà perché i suoi occupanti sono neri: la polizia aveva infatti deciso di utilizzare le infrazioni del codice della strada per fermare ed arrestare la popolazione nera. Mentre i primi due rimangono in macchina, Sundiata Acoli ne esce per chiedere il motivo del fermo. Uno degli agenti di polizia si avvicina all’automobile e chiede ai suoi occupanti di alzare la mani: entrambi lo fanno, ma il poliziotto inizia a sparare, ferendo gravemente Assata, colpita una prima volta mentre ha le mani alzate e un’altra nella schiena. Nella sparatoria che ne segue, rimangono uccisi Zayd Shakur e un altro poliziotto.
Mentre Sundiata riusce a fuggire (viene tuttavia in seguito arrestato), Assata, gravemente ferita (aveva un proiettile nel polmone e uno le aveva danneggiato la clavicola, paralizzandole il braccio), è lasciata stesa a terra: i poliziotti aspettano a lungo prima di chiamare i soccorsi, nella speranza che muoia prima del loro arrivo. Una volta giunta in ospedale, viene ripetutamente e per molti giorni picchiata e torturata da poliziotti e agenti federali. Le cure mediche sono insufficienti: deve lottare a lungo per avere un minimo di riabilitazione che le consenta di muovere nuovamente il braccio.
Una volta dimessa dall’ospedale, inizia per lei un periodo fatto di carceri di massima sicurezza, isolamento, sorveglianza continua, umiliazioni (fisiche e psicologiche), vessazioni: rimasta incinta durante un processo, porta avanti la sua gravidanza in carcere, senza alcun soccorso nonostante le minacce di aborto. In totale, trascorse 24 mesi in isolamento, sorvegliata anche durante i momenti più intimi, spesso ospite di carceri maschili.
Per gli eventi accaduti il giorno del suo arresto, viene accusata, come del resto anche Sundiata Acoli, di omicidio e tentato omicidio di agenti statali, anche se non ci sono prove: l’unica pistola viene trovata tra le gambe di Zayd e l’accusa contro Assata di aver preso l’arma del poliziotto ferito è inconsistente in quanto non ci sono tracce di polvere da sparo sulle sue mani e le perizie mediche affermano che rimase immediatamente paralizzata dopo essere stata colpita mentre era a mani alzate. Nel 1977 una giuria composta totalmente di bianchi condanna Assata a 33 anni di carcere: la legge del New Jersey afferma che quando la presenza di una persona sulla scena del delitto può essere considerata come «partecipazione e istigazione al reato», quella persona può essere condannata per lo stesso crimine. Anche Sundiata Acoli viene condannato per lo stesso reato, all’ergastolo: è ancora oggi in carcere, all’età di 75 anni.
È questo l’unico reato per cui viene condannata una dei dieci terroristi più ricercati del mondo: per gli altri sei reati di cui viene accusata (tre rapine, il sequestro di uno spacciatore di droga, l’omicidio di uno spacciatore e il tentato omicidio di alcuni poliziotti) viene infatti assolta.
Il 2 novembre 1979 viene liberata dal carcere di massima sicurezza Clinton Correctional Facility for Women in New Jersey: quattro uomini e una donna la aiutano infatti ad evadere. Tra essi, l’italiana Silvia Baraldini e Mutulu Shakur (il patrigno del rapper americano Tupac), che è ancora oggi in carcere. L’azione è rivendicata dal Bla, che afferma in un comunicato che «non ha alcun senso parlare di colpevolezza o di innocenza rispetto ad un combattente Nero per la libertà, nel momento in cui qui si discute della storia di un popolo in lotta contro il dominio degli Usa».
Qualche anno dopo, Cuba le offre asilo politico: nel 1984 si trasferisce lì, dove vive tuttora, senza rinnegare nulla del suo passato. Quando nel 1998, in occasione della visita di Woytila a Cuba, gli Usa gli chiesero di intercedere per l’estradizione di Assata, la rivoluzionaria nera scrisse una lettera in cui affermava che ancora sosteneva «l’autodeterminazione per la mia gente e per tutti gli oppressi negli Stati Uniti. Sostengo la fine dello sfruttamento capitalista, l’abolizione di politiche razziste, lo sradicamento del sessismo, e l’eliminazione della repressione politica. Se questi sono crimini, sono assolutamente colpevole».
Per il movimento di liberazione nero, quella di Assata è una figura esemplare: ed è forse per questo che oggi, nel clima teso dell’attentato terroristico durante la maratona di Boston, l’Fbi pensa di ritirarla fuori dal cilindro mettendola nella lista dei più pericolosi «terroristi» del mondo. «Militante» e «terrorista» sono ormai sinonimi: tutti possono essere considerati terroristi in questo clima politico.
Come ha acutamente riflettuto Angela Davis, l’inserimento di Assata nella «10 most wanted» riflette proprio la logica del terrorismo, perché appunto è stata progettata per intimidire i giovani, soprattutto oggi, che potrebbero essere coinvolti nell’attivismo radicale per cambiare le cose. Esso, inoltre, apre scenari inquietanti per il rapporto tra Cuba e Usa: questi ultimi, infatti, sono stati capaci di far guerra all’Afghanistan per catturare Bin Laden, inserito nella stessa lista di Assata. Si tratta, comunque, di un tentativo di ingerenza nella politica di un altro stato con cui non si hanno accordi sull’estradizione, che probabilmente mira almeno alla sua destabilizzazione interna.
Mentre gli Usa accusano Assata di terrorismo, nel loro paese il carcere è sempre più una prospettiva reale per il proletariato nero, la cosiddetta «colonia interna» degli Usa. Secondo alcuni dati del 2008 (leggi), ad esempio, in un contesto di crescita costante della popolazione carceraria (in quell’anno la popolazione americana in carcere raggiunse l’1%), nella fascia di età tra i 20 e i 34 anni risultava in carcere un nero su 9. Ancora più significativo era il dato sulle detenute nere di sesso femminile: nel gruppo da 25 a 39 anni, una su 100 era in galera, contro una su 355 per le donne bianche. Nel 2010, 2.2 milioni di persone risultavano rinchiuse nelle carceri di contea, statali o federali e s e si comprendono anche le persone in libertà vigilata o condizionale, la popolazione carceraria statunitense raggiungeva i 7 milioni: oltre il 60% erano neri o latini. È quella che Loic Wacquant ha acutamente definito come la «simbiosi mortale» tra ghetto e prigione, aggiungendo che «il tasso di incarcerazione degli afroamericani ha raggiunto livelli astronomici, sconosciuti […] all’Unione sovietica dei gulag o al SudAfrica all’apice dell’apharteid» (L. Wacquant, Simbiosi mortale. Neoliberalismo e politica penale, p. 48).
Negli Usa ci sono, inoltre, circa un centinaio di prigionieri politici, come i quattro cubani, Mumia e molti altri: si tratta di persone rinchiuse per la loro attività e i loro ideali politici.
È per cambiare tutto questo che Assata ha combattuto e combatte. Dopo la sua liberazione, molti posti esposero il manifesto «Assata Shakur is welcome here» per affermare che la sostenevano e non l’avrebbero mai condannata. Oggi, mentre gli Usa riprendono la guerra contro di lei (e, di riflesso, contro Cuba), anche noi diciamo che Assata is still welcome here.

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