Che fine ha fatto Baby Jane?
di Elisabetta Teghil
C’era una volta lo stadio di calcio dove i cancelli si aprivano alle 10 della domenica mattina, fermo restando che le partite, anche allora, cominciavano alle 15. Questo per permettere alle famiglie di poter andare a fare una scampagnata sui generis sugli spalti. Prendevano posto dove nel corso della partita i tifosi che vi assistevano in piedi non avrebbero impedito la visuale, portavano da mangiare e da bere e la comitiva comprendeva ragazzini, nonni, padri,madri,sorelle, zii e cognati….Il tifoso era abitudinario, ritornava sempre nello stesso posto e nascevano amicizie. Un quarto d’ora prima della fine della partita i cancelli venivano aperti per permettere a chi stava fuori dallo stadio di vedere uno scampolo di gioco.
Non c’erano i seggiolini separati, ma le panchine lunghe di legno o di cemento, e i tifosi spesso si stringevano per poter far sedere i bambini. Quando si entrava allo stadio tanti presentavano il biglietto che veniva strappato dagli addetti, ma tanti entravano, approfittando del momento di ressa, senza pagare con la solidarietà, non manifesta ma implicita, dei tifosi paganti e delle maschere. Gli abbonati, quando non potevano usare, per qualche motivo personale, l’abbonamento, lo cedevano senza problemi a qualche amico o parente.
I tifosi organizzati, vale a dire i club, che non sono una creazione di questi anni, ma che ci sono sempre stati, mettevano con molto anticipo i loro striscioni sugli spalti.
La mattina si andava a vedere le partitelle delle squadre minori e alle 15 ci si trasferiva allo stadio. Il gioco del calcio professionista cominciava tutto a quell’ora, in contemporanea. C’erano sempre le partite di cartellone che facevano riferimento alle solite squadre.. Inter, Milan, Juventus…. ma anche quelle che vedevano protagonisti il Padova…il Como…il Varese, comunque le squadre di provincia, erano ugualmente sentite e partecipate. Il tifo affondava l’humus nel territorio e/o nel percorso personale.
Il tifo per una squadra di calcio è qualcosa di molto più complesso della partecipazione ad un avvenimento sportivo. Si intrecciano appartenenza territoriale, che può essere riferita ad un quartiere, una regione, una città, con una storia ideale di riferimento, con un comune sentire sociale e di appartenenza di classe e, seppure a grandi linee, con un ideale politico. I colori diventano così un riferimento collettivo di storia, di memoria,di collocazione e di rivendicazione anche rispetto alla stratificazione sociale. E diventano spunto e riferimento anche per sfoghi di rabbia repressa verso il potere responsabile di vessare strati e ambiti sociali anche oltre l’avvenimento sportivo.
E’ per questo che il calcio ha avuto il seguito che ha avuto e non perché come si diceva negli ambienti di una certa sinistra “undici uomini in mutande contendevano la palla ad altri undici”
I romanisti erano i romani, intesi come popolo,erano tassinari…commercianti…ebrei…ed erano di sinistra, anche se ora questa collocazione è molto più variegata,i laziali erano i provinciali, “i burini”, come venivano chiamati e, se erano romani , erano “pariolini”, appartenevano cioè alla Roma “bene” ed erano fascisti e sia gli uni che gli altri non erano infastiditi da questa lettura, ma, per certi versi, la rivendicavano ed entrambi, romanisti e laziali, gridavano allo stadio, a proposito dei tifosi iuventini “..lunedì che umiliazione, andare in fabbrica a servire il tuo padrone”.
Ma proprio perché il calcio rappresentava tutto questo, è stato terreno di scontro e strumentalizzazione politica ed economica, mentre una vulgata vincente,tanto falsa quanto autoassolutoria fa ricadere la fine del calcio sui tifosi che, per chissà quale forma di mutazione genetica, si sarebbero trasformati in altro.
Uno sport che cresce e si afferma è giro di denaro, interessi economici e politici, possibilità di carriere.
Quando i fratelli Marchini acquistarono la Società Roma ed Alvaro ne divenne presidente, ci fu il debutto dei sottoproletari e dei fascisti di periferia pagati per contestare la squadra che bruciarono perfino le panchine in legno dello stadio Olimpico, anche in occasione della finale del torneo anglo-italiano che la Roma vinse.
Eppure i tifosi della Roma avevano dato prova della loro pazienza quando Marini Dettina pur avendo allestito una squadra estremamente competitiva, era riuscito ad ottenere l’unico risultato di vincere la Coppa Italia. In questo, precursore del Parma di Calisto Tanzi. Anche a lui fu permesso di vincere solo la Coppa Italia. E, ironia della sorte, con i giocatori venduti dalla Roma e dal Parma altre squadre, con ben altro peso nel Palazzo, riuscirono a vincere in campo nazionale ed internazionale..
Però non si può certo pensare che gli intrighi di Palazzo e i conseguenti risvolti sullo sport giocato, non siano percepiti e valutati dai tifosi.
Come, d’altro canto, il ruolo giocato dalla stampa.
Non a caso,Franco Sensi, in occasione di una premiazione al Campidoglio disse che se la stampa avesse fatto il suo dovere si sarebbero potuti raggiungere ben altri risultati.
Ma che aspettarsi da una stampa che come le tre scimmie, non vedeva, non sentiva e non parlava e non si accorgeva di niente e, poverina, ha scoperto il “marcio” che c’era nel calcio soltanto dalla magistratura! I media, di cui sono chiari compiti e ruoli in campo economico e politico, non si capisce perché dovrebbero essere altro in campo calcistico,
oltre all’enorme potenzialità di carriera che ha per un giornalista buttarsi in un campo di grande risonanza popolare e mediatica, senza, magari, capirne assolutamente niente e senza che niente gliene importi. Ma i danni sono tanti e di svariata natura: asservimento ai poteri, sdoganamento di qualunquismo, luoghi comuni…..
Eppure sarebbe bastata la testimonianza di un altro presidente della Roma, Dino Viola, e le sue parole amare ed amareggiate a commento dello scandalo che avrebbe portato alla squalifica di alcuni giocatori. Queste vicende furono raccontate con l’onestà intellettuale di chi si vuole togliere un peso dallo stomaco, da Carlo Petrini, nei suoi libri autobiografici.
Ha giocato un ruolo fondamentale nella distruzione dell’identità di squadre e tifosi il “politicamente corretto”, proprio della sinistra socialdemocratica, che, vincente dopo gli anni ’70, ha affogato la società tutta in un moralismo d’accatto estremamente violento.
Le interviste rilasciate da giocatori ed allenatori sono dovute diventare tutte uguali, attente a non dire una parola di troppo o “scorretta”, a non dare giudizi sugli avversari e sugli arbitri o sui giornalisti, anche di fronte a nefandezze evidenti, pena il linciaggio mediatico e, magari, disciplinare. Ma quando la verità viene disattesa e l’ipocrisia è dominante, lì si annida prima il disamore, poi il rifiuto, poi la reazione.
Allo stesso modo sono state coartate tutte le manifestazioni di gioia dei giocatori in empatia con la tifoseria, veicolato l’antirazzismo razzista,non a caso nella stagione in cui si intensificano le “guerre umanitarie.
Viene imposta ogni sorta di iniziativa “buonista” a cui squadre e società non si possono sottrarre, dalle lotte ai tumori ai bambini abbandonati, nella stagione in cui si distrugge la sanità pubblica e si smantella lo Stato sociale.
Si propaganda la neutralità dello sport rispetto alla politica, ma si fa un minuto di raccoglimento per le torri gemelle e nessuno per il colpo di stato in Cile che per ironia della sorte sono accaduti lo stesso giorno, l’11 di settembre.
E’ in questo quadro che si affermano le componenti fasciste in tante, troppe, tifoserie, proiezione nel calcio di quello che avviene nelle periferie, dove l’alterità alla melassa buonista del politicamente corretto, identificato con la sinistra, ha consegnato tanti giovani al fascismo.
La lotta di classe passa anche dentro il calcio
Anni luce da quando Lotta Continua , il giorno dopo la partita Roma –Juventus, 0-1, pubblicò il tabellone dell’Olimpico con il risultato e sotto scrisse a caratteri cubitali “Ma non finisce qui”.
Il calcio ,come tutto il resto, è stato investito dal neoliberismo che tutto trasforma in merce, compresi sentimenti e affetti ed era impensabile che ne restasse fuori. Il capitalismo è metabolismo sociale, non ci sono zone franche e l’offensiva neoliberista si ripropone in tutti i segmenti della società.
Una volta, i biglietti si potevano fare fino all’ultimo momento e, magari, acquistare fuori dallo stadio dai bagarini. I bagarini sono stati perseguitati con una campagna di demonizzazione. I biglietti, ora, vanno comprati con congruo anticipo, la prevendita è obbligatoria e ha un costo e diventa, così, una tassa ulteriore.
Per non parlare dei venditori di fusaie ,olive, panini e caffè borghetti, anche questi scomparsi, perseguitati da brillanti retate con multe e sequestro della merce, per tutelare la nostra salute e perché evadevano il fisco. Ora,non si può introdurre niente allo stadio di commestibile e bevibile. Il panino portato da casa è sottoposto a controllo preciso e puntuale perché è notorio che può diventare un’arma impropria. Sugli spalti si possono solo comprare cibi e bevande di società autorizzate, in bicchieri di plastica a prezzi altissimi da strozzinaggio. Chiaramente sono spariti anche i così detti parcheggiatori abusivi, lasciando il posto a società autorizzate. Almeno ai parcheggiatori potevi rifiutare la mancia, correndo il rischio sbandierato ai quattro venti dai perbenisti, di ritrovare la macchina rigata, ma ora al costo imposto dalle società è impossibile sottrarsi pena salatissime multe dei vigili sguinzagliati a nugoli durante la partita.
E a proposito di quelli che dicono che il calcio è uno spettacolo, perché mai si dovrebbe andare alla partita per ritrovare la macchina spesso e volentieri multata? Qualcuno potrà obiettare che si potrebbero prendere i mezzi pubblici. Peccato che siano carenti,cari e insufficienti, nonostante le promesse mai mantenute di rafforzarli in occasione delle partite Questo consiglio (di andare allo stadio con i mezzi pubblici) è da dare a quelli/e che arrivano con la macchina,magari di servizio, fin sotto gli spalti, nel parcheggio a loro riservato, e che vengono chiamati, non si sa perché, “autorità”.
Tutto questo è distruzione delle economie marginali e di mera sopravvivenza. Tutto questo è neoliberismo.
E lo è anche quando individua una categoria, la dà in pasto all’opinione pubblica e tramite una martellante campagna mediatica la criminalizza per far passare principi autoritari.
Questo è stato fatto con gli ultras, raccontati come la frangia violenta del tifo.
Gli ultras sono stati usati come cavie per testare operazioni di così detto “ordine pubblico”, su piccola e su grande scala.
I pullman dei tifosi in trasferta sono stati i primi, nel silenzio e con il generale consenso, sinistra compresa, ad essere fermati sull’autostrada, i tifosi perquisiti, fotografati e schedati e bloccati a discrezione fino a rendere loro impossibile seguire la partita.
Ora sono i pullman dei manifestanti a subire lo stesso trattamento.
Sono finiti i tempi di quando il pullman della squadra, qualunque essa fosse, che portava al campo i giocatori, era preceduto e seguito da nugoli di ragazzi/e in vespa e in moto. Ora è preceduto e seguito dalla polizia a sirene spiegate che ricorda il clima di tensione creato ad arte intorno alle manifestazioni e ai processi dei/delle militanti.
Tutto ciò è stato veicolato un piccolo passo dopo l’altro, come, infatti, è stato naturalizzato il neoliberismo nella società.
I tifosi, notoriamente “violenti” e “facinorosi”, in occasione di una partita , per la precisione Roma-Juventus, di cui abbiamo parlato prima, gennaio ’76, arbitro Agnolin, di fronte allo scempio arbitrale, lanciarono dalla curva sud alcune arance. Per chi conosce l’Olimpico sa la distanza che separa la curva stessa dal campo e quindi dell’impossibilità che arrivassero neppure lontanamente dalle parti del rettangolo di gioco. La polizia sparò lacrimogeni ad altezza d’uomo contro i tifosi della curva sud. Naturalmente per ripristinare l’ordine!
Ora, con la scusa della pericolosità degli ultras, i tifosi vengono perquisiti prima dell’entrata, vengono ripresi e monitorati durante tutta la partita. Tutti metodi e tecniche di controllo sperimentati in vili corpore e poi estesi alla società civile. Misura repressiva chiama misura repressiva. Il contenuto degli striscioni ora va portato in commissariato per un’approvazione preventiva, norma introdotta da una ministra del PD, chi vuole andare a vedere la squadra in trasferta deve accettare la tessera del tifoso, vale a dire la schedatura preventiva.
Il Daspo, sanzione che vieta al tifoso di assistere alle partite, non viene irrorato dalla magistratura , ma direttamente dalla pubblica sicurezza. La libertà di opinione è coartata e perseguita. Non si può portare uno striscione che chieda l’abolizione del 41bis o la libertà per un detenuto.
E’ miopia pensare che queste misure così liberticide possano riguardare solo il tifo, perché tracimano da quell’ambito e vengono applicate in tutte le altre situazioni.
Lo Stato è entrato a piedi uniti nel rapporto tra tifosi e squadra. Le squadre scendevano in campo, qui a Roma, tra la tribuna Monte Mario e la curva sud e si andavano a posizionare al centro del rettangolo di gioco. Adesso entrano ed escono da sotto la tribuna Monte Mario e si posizionano a cospetto delle autorità.
Cantare l’inno nazionale era facoltativo e pochi lo intonavano. Ora è obbligatorio e chi non lo canta è oggetto di pesanti accuse. E’ diventato obbligatorio in sintonia con il ripristino dell’alza bandiera e dell’inno nelle scuole e chi tenta di sottrarsi, come la preside di una scuola del veneto, viene licenziato/a.
Tutto ciò è tanto più paradossale nella stagione in cui la borghesia imperialista e/o transnazionale, nel suo processo di auto valorizzazione, ha rotto il patto sociale che ha governato questo paese nel dopoguerra gettando nella disperazione la piccola e media borghesia in tutte le sue articolazioni. Piccola e media borghesia che non si identificano più nell’inno nazionale, ma, anzi, lo vedono non solo come qualcosa di estraneo, ma come simbolo di oppressione. E’ palese l’uso strumentale che l’iper-borgesia fa dell’inno perché non crede e non si riconosce in uno Stato. L’iper-borghesia non ha bandiere, non ha territorio, non ha patria… ma si riconosce solo e soltanto nei valori propri del dominio reale delle multinazionali.
I fischi all’inno nazionale ripropongono l’attualità di una ricomposizione sociale. E’ la scommessa, tutta da vincere, della sinistra di classe.
Per ora il trionfo è del neoliberismo che, checché ne dicano quelle/i che vogliono presentarlo come “moderno”, è per tanti aspetti e per tante situazioni, il fascismo del terzo millennio.
Il calcio è in profonda crisi e non lo dicono i numeri, perché tanto quelli ufficiali sono taroccati. Gli stadi della serie B e delle serie inferiori sono desolatamente vuoti. Gli spalti delle partite di serie A si riempiono solo in occasioni di cartello. La conferma è la tendenza a costruire stadi meno capienti.
Una volta sui luoghi di lavoro si parlava di calcio dal lunedì al sabato, oggi non se ne parla neanche più al bar.
Il calcio sta morendo, se vogliamo salvarlo mandiamolo in coma farmacologico. Vediamo di non andare più alle partite nella speranza che venga abolito il biglietto personale, la tessera del tifoso, la polizia negli stadi, la Digos nelle squadre e nelle società e perché no, vediamo di cancellare la Juventus dal campionato.