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Puntata del 20/11/2013  – Prima parte (inizio ore 20.30)seconda parte

“Il femminismo è rompere la legalità  in cui ci vogliono imbrigliare”

Puntata del 13/11/2013  – clicca qui

La coordinamenta verso il 25 novembre….“Il rifiuto della norma”  “I dispositivi per l’assoggettamento: “ la carcerazione femminile 2″

Puntata del 06/11/2013 – Prima parteseconda parte

“I dispositivi per l’assoggettamento: la norma e la carcerazione”

 

A proposito di carcerazione e maternità, un articolo di Barbara Balzerani

http://www.infoaut.org/index.php/blog/varie/item/10207-su-maternit%C3%A0-e-detenzione-di-barbara-balzerani

Molto s’è detto sull’ipocrita falsa coscienza del mammismo italico e sulle mille forme di violenza che regolano il mondo degli adulti e che molti, troppi bambini debbono imparare a conoscere e a fronteggiare.
Ma non è mai abbastanza.
Nel nostro Ordinamento Penitenziario provvisoriamente (!?) è stata prevista la possibilità di ospitare fino all’età di 3 anni i figli delle detenute in sezioni adibite allo scopo. In altre parole in carcere ci vivono anche dei bambini molto piccoli.
A tre anni e un giorno, per legge, questi bambini diventano “grandi”. Non possono più stare in carcere e continuano ad avere rapporti con la madre nelle ore e nelle condizioni consentite a tutti gli altri “grandi”.
Ma il punto di onore della legge è che nei primissimi anni di vita ai bambini è consentito vivere, senza strappi troppo traumatici, il fondamentale rapporto con la madre. Una madre però del tutto speciale: una madre-detenuta. E qui scatta l’elemento di ipocrisia e di violenza.
Una madre detenuta non può infatti esercitare a pieno la sua funzione perché l’Istituzione penitenziaria si inserisce nel suo rapporto col figlio e ne distorce l’essenziale nesso di dipendenza-autorità, essendo lei stessa costretta in una situazione di dipendenza che ne opacizza l’autorità. La condotta della madre-detenuta è infatti sottoposta al vaglio punitivo-rieducativo dell’Istituzione che, in questo caso, diventa il contenitore niente affatto trasparente in cui il giudizio negativo per il reato commesso si estende anche a quello circa la capacità di essere una “buona madre”. E una “buona madre” è, nel comune sentire più o meno dichiarato, principalmente quella che non metterebbe mai i suoi figli nella condizione di conoscere una condizione come il carcere. Per questo la madre-detenuta è inevitabilmente sottoposta ad una duplice sanzione, in cui l’essere venuta meno alla sua funzione di “angelo del focolare”, non è affatto secondaria, come del resto non lo è per ogni donna che infrange la legge.
Va da sé che il riconoscimento del positivo recupero alla società della madre-detenuta passi principalmente sul giudizio circa il suo rapporto con il figlio/a, rapporto sottoposto giorno e notte alla sorveglianza e alle regole di una vita da molti riconosciuta non adeguata, neanche per degli adulti, alla soglia di vivibilità auspicabile per ogni paese civile.
Tra madre e figlio/a, in una fascia d’età in tutta evidenza decisiva nella costituzione del mondo conoscitivo-relazionale di questi, si frappone dunque la funzione sociale di punizione-risocializzazione esercitata dai meccanismi della detenzione, che si manifestano principalmente in una decisa deresponsabilizzazione. Chiunque conosce il carcere sa bene quanto la quotidiana battaglia per la sopravvivenza consista soprattutto nel non cadere in un completo stato di minorità, in cui qualsiasi atto può essere sanzionato o dipende da altri che lo compiono al posto suo.
Il bambino/a “detenuto” si deve così parametrare ad una madre-bambina che riesce a conservare uno scarsissimo potere decisionale sulla vita di tutti i giorni e che è sottoposta al controllo continuo sui suoi metodi educativi. Metodi oltretutto analizzati in un’innaturalezza da laboratorio in cui la prima cosa a mancare è proprio la libertà di inventare – potendo, in libertà, anche sbagliare – le risposte possibili alle richieste del proprio figlio/a, senza che questo diventi oggetto di valutazione di chi è preposto a giudicare secondo il proprio schema pedagogico e il proprio moralistico convincimento.
Anche se paradossalmente il personale di custodia e quello civile con funzioni di controllo e di “rieducazione” sono altre donne, per un condizionamento ambientale che facilita anche opinabili comportamenti soggettivi, questo non ha nulla a che vedere con lo scambio di consigli amicali possibili in una comunità femminile o col normale interagire di altre funzioni di cura con quella materna, come sempre avviene quando il bambino esce dallo stretto ambito famigliare. E questo perché il rapporto tra la madre e le altre presenze femminili è gerarchico e autoritario: basterebbe a dimostrarlo il semplice fatto che anche al personale civile come le puericultrici è demandato il potere di infliggere sanzioni disciplinari.
Madri deresponsabilizzate dunque, da controllare da presso e rieducare anche sotto il profilo del loro sapere di donne-madri, da parte di un’Istituzione che pretende di sapere cosa è il meglio per loro e per i loro figli. Ma chi può dire quale sia il meglio per un bambino se non sua madre? E chi può negare che il peggio sia proprio la situazione in cui c’è conflitto d’autorità? Si pensi solo alle interferenze circa i metodi educativi e i semplici comportamenti quotidiani di madri-detenute di altre culture (per lo più non europee) in cui la diversità non ha alcuna speranza di accoglienza, data la rigida standardizzazione del modello di vita di ogni istituzione totale.
Proviamo a ritrovare il bandolo. Tenendo presenti quali necessità il legislatore si è preoccupato di prevedere – “provvisoriamente” in attesa di una soluzione migliore mai trovata – una presenza così anomala come quella di un bambino piccolissimo in carcere? Per garantire il massimo di benessere psicofisico di un innocente che non dovrebbe pagare per le colpe della madre, si dirà. E allora perché questa sollecitudine non si fa trasparente mettendo le cose nel loro ordine? Se al centro della preoccupazione di non ledere necessità così fondamentali c’è il bambino, allora si deve capovolgere l’attuale priorità: è la madre che deve stare con lui e non viceversa.
Si può obiettare che così la società rinuncerebbe alla punizione di un reato. Ma la stessa società non dovrebbe anche preoccuparsi della profonda distorsione nella vita psichica e di relazione del futuro cittadino, oggi bambino-detenuto? Non dovrebbe evitare di mostrarsi come dispensatrice di una punizione senza colpa? E perché continua a considerare il carcere come unica risposta ai problemi di devianza sociale, alla luce di tutte le altre forme di detenzione alternativa già in vigore e altre ancora ipotizzabili?
Se veramente prioritarie fossero le esigenze dei nostri bambini, basterebbe dar loro ragione per trovare i suggerimenti risolutivi di una situazione oggi bloccata alle sole risposte che il carcere può dare e delegata a chi in carcere opera, nel bene spesso e nel male quasi sempre, a causa di una condizione oggettiva che vanifica ogni tentativo, anche quando c’è, di ridurre al minimo i suoi effetti perversi.
Cosa fare? Bisognerebbe principalmente riconoscere quanta falsa coscienza e quanta complicità collettiva concorrono a permettere che non ci siano alternative a che un bambino finisca in carcere insieme a sua madre. Bisognerebbe scalfire la diffusa indifferenza e l’aperta ostilità ad ogni idea di superamento di un’istituzione inutile quanto distruttiva, proprio partendo dai diritti violati di questi bambini condannati a condividere in toto la condizione della madre senza poterne pretendere l’interezza di relazione.
E, chissà?, magari proprio grazie alla cancellazione di una simile aberrazione vissuta da questi nostri piccoli compagni di detenzione, si può cominciare a credere alla conquista di più ampi spazi di libertà e di civiltà per tutti.

Barbara

 

 

 

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