Cosa è una vittima

 Questo culto è, in terzo luogo, generatore di colpa. Il capitalismo è, presumibilmente, il primo caso di culto che non toglie il peccato, ma genera la colpa. In ciò questo sistema religioso sta nella caduta di un immenso movimento. Un immensa coscienza della colpa, che non sa togliersi il peccato, fa ricorso al culto non per espiare in esso questa colpa, bensì per renderla universale, martellarla nella coscienza e infine e soprattutto includere Dio stesso in questa colpa per infine interessare lui stesso all’espiazione.” W. Benjamin a proposito della dimensione religiosa del capitalismo.

Vi proponiamo un interessante testo che pur portando una firma maschile, fuori dalla nostra linea editoriale che prevede firme solo di donne, riteniamo estremamente utile pubblicare per l’indagine sul  paradigma vittimario, quella costruzione politico-giuridico-sociale che il sistema di potere usa per impedire la comprensione della natura e della causa delle cose.

Cosa è una vittima

di Gregorio Moneti [ a questo link potrete trovare un ulteriore approfondimento https://www.rivisteweb.it/doi/10.7383/98199]

1. Premessa. – 2. La vittima sacrificale. – 3. La vittima espiatoria. – 4. La vittima vincitrice. – 5. La vittima sconfitta. – 6. Una definizione pura di vittima. – 7. Non essere più vittime. Il diritto penale minimo – 8. Il femminismo materialista e il post vittimismo. – 9. Conclusioni.

  1. Premessa

La vittima ha nel diritto penale un ruolo fondamentale ma per lo più nascosto, misconosciuto. Questa è anzitutto il principale elemento di giustificazione dell’intero impianto giuridico, della potestà di punire, del monopolio statale della forza e della violenza legittima.

Nonostante sia sempre più presente nel dibattito pubblico, ed oggetto di specifici studi specialistici, la vittima è rimasta comunque un oggetto indefinito, tautologicamente ricondotto al soggetto che ha subito un torto.

Più che chiedersi chi è vittima e perché, bisognerebbe preliminarmente domandarsi cosa è una vittima.

Sosteneva Girard (2011, 35) che un qualsiasi sistema giuridico si basa su di una giustificazione, una teologia della giustizia, che può anche scomparire… e la trascendenza del sistema restare intatta”.

Ricercare una definizione minima del concetto di vittima vuol dire quindi demistificare la struttura profonda del nostro sistema penale, della nostra identità collettiva, facendo a pieno i conti con la nostra storia.

Si tratta di affrontare un percorso lungo e complesso che qui non potrà che essere solo abbozzato. Al fine di proporre una prima ipotesi della definizione minima che ci siamo preposti di ricercare tenteremo di individuare quattro modelli archetipi di vittima, provando ad isolare una caratteristica minima comune sulla base della quale sia possibile fondare delle ipotesi.

  1. La vittima sacrificale

Il primo modello archetipo che dobbiamo qui affrontare è quello della vittima sacrificale.

Il sacrificio pur nelle forme più disparate e spesso esclusivamente simboliche attraversa la storia dell’umanità.
Rene Girard (2011, 17) lo individua quale elemento fondante di ogni società.
In particolare il sacrificio assolverebbe una ben precisa funzione preventiva di tutela della comunità, consistente ne lo
“sviare in direzione di una vittima relativamente indifferente, una vittima sacrificabile, una violenza che cerca di colpire i suoi stessi membri, coloro che intende proteggere a tutti i costi”.

Affidandoci all’opera del filosofo francese possiamo allora dire che un soggetto è sacrificabile anzitutto se su di esso può essere esercitata una violenza senza timore che questa si propaghi all’interno della comunità secondo lo schema mimetico della vendetta, del contagio, della contrapposizione interna.

La vittima sacrificale è il soggetto sacrificabile su cui la violenza si ferma senza possibilità di diffondersi ulteriormente.

L’idea alla base del sacrificio si fonda su di una concezione della violenza quale elemento ineliminabile della società umana; ineliminabile ma gestibile, isolabile appunto su di un soggetto esterno o espellibile, capace di trattenere su di sé la violenza, catturandola preventivamente al di fuori prima che si propaghi all’interno.

Non ogni soggetto può assumere il ruolo di vittima sacrificale, sono necessarie alcune caratteristiche precise, da primo, come appena evidenziato, deve appartenere a “categorie esterne o marginali che non potevano mai intrecciare con la comunità legami analoghi a quelli che univano tra loro i membri di questa” (Girard 2011, 27).

In tale ottica appare particolarmente interessante l’interpretazione che Agamben dà di alcuni istituti giuridici della Roma antica, il caso più significativo è quello della sacratio descritta in un passo di Festo (in Agamben 2005, 79): “uomo sacro è, però, colui che il popolo ha giudicato per un delitto; e non è lecito sacrificarlo, ma chi lo uccide non sarà condannato per omicidio; infatti nella prima legge tribunizia si avverte che se qualcuno ucciderà colui che per plebiscito è sacro, non sarà considerato omicida. Di qui viene che un uomo malvagio o impuro suole essere chiamato sacro”.
Secondo Agamben (2005, 91) l’uomo sacro oggetto di
sacratio, L’homo sacer “è semplicemente posto al di fuori della giurisdizione umana senza trapassare in quella divina… la struttura topologica che questa eccezione disegna, è quella di una duplice esclusione e di una duplice cattura che presenta più che una semplice analogia con la struttura dell’eccezione sovrana”.

Vediamo quindi che la figura della vittima sacrificale ruota attorno ad un concetto spaziale, trova la una sua caratteristica imprescindibile nell’abitare l’esterno, il luogo dell’altro da noi.

La radicale centralità della topografia del dentro e del fuori su cui si basa il sacrificio è oggi quanto mai attuale nel dibattito giuridico e politico. Ad esempio la teoria del diritto penale del nemico elaborata da Günther Jakobs (Jakobs-Cancio Melia, 2003) sembra recuperare questo fondamentale elemento spaziale. Secondo la proposta del giurista tedesco, infatti, ci si dovrebbe dotare di un diritto parallelo per colpire con sufficiente durezza il nemico esterno (o espellibile) e neutralizzarne la violenza senza che ciò contagi il diritto ordinario, quindi la comunità nel suo insieme.

Per quanto possa apparire forzato tentare di ricostruire linee di continuità tra il sacrificio proprio di un’età arcaica e la nostra contemporaneità, l’indagine di modelli archetipici necessari a immaginare una definizione minima del concetto di vittima richiede proprio questo metodo d’indagine proposto da Girard (2011), cioè provare a ricostruire gli elementi di continuità, piuttosto che quelli ben più palesi di discontinuità, tra società primitive e società moderne: solo così si possono delineare le caratteristiche immutabili della vittima.

Non stupisca in tal senso che le teorie di Jakobs sembrano aver avuto un‘influenza ben maggiore, trovando un ad oggi inconfessato accoglimento, sul diritto vivente e sulla politica che non sul dibattito scientifico ed accademico.

Se però, come premesso, la vittima sacrificale è colei su cui una violenza può essere fermata e cristallizzata, allora la dimensione topografica, che individua il luogo esterno dove la violenza si blocca, è necessaria ma non certo sufficiente.
Manca il come, in quale modo la violenza viene limitata alla vittima. Dobbiamo allora introdurre la seconda caratteristica fondamentale della vittima sacrificale, l’essere inerme.

È inerme chi non può reagire, non avendo altri che possano reagire per lui, e quindi è impossibilitato a perpetuare la violenza secondo il suo schema mimetico. L’impossibilità di una qualsiasi reazione lascia il soggetto in una condizione di pura passività, che scade velocemente nell’indifferenziazione della vittima la cui precedente identità tende a svanire nel generico ruolo di vittima.

Provando ad approfondire il concetto vediamo che l’essere inerme si trova al massimo grado di vulnerabilità essendo colpito nel suo bene più profondo: la sua singolarità.

Vi è un termine anglosassone sempre più usato per indicare tanto le vittime delle guerre quanto le vittime di disastri, del caso, entrambi non volute ma ugualmente messe in conto: casualties.

Adriana Cavavero (2007, 105) le descrive così

le vittime dovute a morte violenta… il termine si applica in diversi contesti: uragani, inondazioni, crolli di edifici, guerre, attentati… esso tende a suggerire che non si tratta di una violenza finalizzata ad uccidere un preciso individuo, bensì di una violenza senza obbiettivi specifici le cui vittime risultano, appunto, casuali… sotto un uragano qualcuno muore, qualcuno si salva, a caso… vittime del caso sono anche i soldati caduti in guerra, ma l’hanno, per così dire messo in conto. Per le vittime civili della guerra invece tale conto è meno ovvio e il caso si fa perciò ancor più tragico. È però soprattutto l’orrorismo odierno a far sì che il termine casualties vada a corrispondere alla realtà delle vittime inermi assumendo un significato… etimologicamente esatto. Più che la loro morte casuale è infatti ciò che sostanzia il loro stesso statuto di vittime”.

Se come sostenuto l’essere inerme attiene alla singolarità, allora l’essere vittime indifferenziate corrisponde all’essere vittime inermi.

Possiamo ora avanzare un’ipotesi: prendendo a modello le vittime di un attentato suicida e le vittime civili di un’azione di guerra cosiddetta “intelligente”, cioè i due lati dei principali conflitti contemporanei, ci accorgiamo che queste condividono proprio le caratteristiche fondamentali della vittima sacrificale.

Appartengono all’esterno delle comunità da cui provengono i loro uccisori, e, allo stesso tempo, sono inermi poiché indifferenziate, il loro coinvolgimento è del tutto casuale ed indifferente, nel senso che non importa la loro identità singola, ciò rende impossibile una loro reazione.
Inoltre, in entrambe i casi, l’esigenza cui la loro uccisione risponde è la stessa, spostare la violenza dal proprio campo in quello dell’avversario.

Possiamo quindi affermare che scomponendo i singoli elementi costitutivi della figura della vittima sacrificale, così come descrittaci da Renè Girard, li ritroviamo tutti nella definizione moderna di casualties. Ciò solo a patto di applicare questa categoria indiscriminatamente ad ogni soggetto, amico o nemico che sia, assumendo il punto di vista delle vittime.

3. La vittima espiatoria

Il secondo modello archetipo che affronteremo è quello della vittima espiatoria.

Normalmente sussunta nell’immagine mitica del capro espiatorio, la vittima espiatoria appartiene alla dimensione curativa, anziché preventiva.
La sua funzione fondamentale è quella di ordinare la realtà in un “tutti contro uno” proprio del linciaggio.
La conseguente concentrazione su di un unico soggetto di tutta la conflittualità che attraversa la società nella forma del doppio mostruoso, cioè opponendo ognuno all’altro suo simile e vicino, è un formidabile strumento nelle mani di ogni comunità, utile a fermare il dilagare della violenza mimetica propria di particolari momenti di crisi della funzione sacrificale. Di qui la sua natura curativa (Girard, 2011, 135).

Se la violenza unanime contro la vittima espiatoria mette realmente fine a questa crisi, è chiaro che deve situarsi all’origine di un nuovo sistema sacrificale. Se soltanto la vittima espiatoria può interrompere il processo di destrutturazione, essa è all’origine di ogni strutturazione”.

La vittima espiatoria è infatti capace di attirare su di sé una violenza unanime, totalizzante, ma soprattutto fondativa (Girard, 2011, 118).

Là dove qualche momento prima c’erano mille conflitti particolari, mille coppie di fratelli nemici isolati gli uni dagli altri, c’è nuovamente una comunità, interamente una nell’odio che le ispira uno soltanto dei suoi membri. Tutti i rancori sparsi su mille individui differenti, tutti gli odi divergenti, ormai convergeranno su un unico individuo, la vittima espiatoria”.

La più evidente caratteristica è quindi, nuovamente, di carattere topografico. Questa, infatti, non può che essere un soggetto interno alla comunità che la uccide.
Se la vittima sacrificale corrisponde al nemico esterno, la vittima espiatoria attiene al nemico interno; come sostiene Carl Schimt (2008, 125):
“Nella teoria della guerra si tratta sempre di distinguere esattamente l’inimicizia, che conferisce alla guerra il suo senso e il suo carattere”.
L’inimicizia che viene attratta dalla vittima espiatoria è propria della guerra civile, della persecuzione razziale o religiosa, dell’apartheid; insomma degli scontri possibili quando la conflittualità non può essere rivolta all’esterno (Vegetti, 2006, 93)

la storia si sarebbe presto incaricata di mostrare quanto fosse illusorio, o almeno precario, il successo di Atena nello spostare l’aggressività dalla stasis interna verso il nobile polemos contro il nemico esterno. Commentando le atrocità compiute durante le guerre civili di Corcira, verso l’inizio della guerra del Peloponneso (427), in alcuni memorabili capitoli della sua “Storia” (III 81-83) Tucidide scriveva che la guerra – questo “maestro violento”- portava alla luce il fondo di odio, di prepotenza e aggressività ineliminabile nella natura umana, ma latente in tempo di pace. La guerra esterna dunque non sostituiva davvero la stasis, ma anzi creava le condizioni per il suo trionfale ingresso nella città”.

Insomma, lo spostamento della violenza fuori dalla comunità, garantito dalla vittima sacrificale, non è sufficiente a tenere unita una società.

Bisogna però specificare che l’appartenenza della vittima espiatoria alla comunità che la uccide è di natura più relazionale che geografica, e che ciò è parte fondamentale della portata curativa della sua uccisione.
Questa forma relazionale consiste in un “partecipare allo stesso gioco”, prevede l’esistenza di una comunicabilità tra vittima e carnefice, di un linguaggio comune.
Del resto la vittima sacrificale, esterna, appare sacra e quindi disumana
ab origine. La vittima espiatoria, invece, diviene sacra solo al momento della sua uccisione, prima è perfettamente umana.

Per tali ragioni possiamo sostenere che esiste una dimensione di collaborazione tra vittima espiatoria e carnefice,1 da cui deriviamo la seconda caratteristica fondamentale della vittima espiatoria: la reciprocità.
Questa consiste nella tendenza della vittima espiatoria a contendere ai suoi carnefici, fino all’istante dell’uccisione, un qualsiasi elemento, simbolico o materiale, a cui entrambe aspirano, un orizzonte valoriale comune, un passato condiviso.

La reciprocità si nutre della violenza mimetica e irriducibile che alberga nell’animo umano, che si concentra sulla prossimità, sull’altro più vicino, e che può essere interrotta solo da un partecipante a questo meccanismo.

Se, come abbiamo detto, la vittima espiatoria diviene sacralmente inumana solo nel momento della sua uccisione, culmine curativo di una crisi, allora della prima sarà necessario indagare anche il dopo.
Cosa avviene dopo la morte della vittima espiatoria?
2 Se sulla sua uccisione si fonda la nuova comunità, sarà inevitabile che, anche dopo la morte, questa vi svolga un ruolo.

Ebbene nella vittima espiatoria è particolarmente rilevante il tema postumo del perdono.
Si prenda ad esempio la sesta legge naturale individuata da Hobbes che recita (2011, 227):
“che ognuno, ricevuta garanzia per il futuro, debba perdonare le offese passate di coloro che, pentendosi, lo desiderino”.
Il filosofo inglese parte dal presupposto che vittima e carnefice continuino a condividere la stessa comunità.
Il perdono, in tal caso, serve ad interrompere il gioco mimetico della violenza, esattamente come il linciaggio. Quello della vittima, nella visione Hobbesiana, emerge come un vero e proprio dovere sociale (Hobbes, 2011, 229):
“Il perdono non è altro che una concessione di pace, la quale,…. quando non è concessa a coloro che danno garanzia per il futuro, è segno di una avversione alla pace e perciò è contraria alla legge di natura”.
Hobbes riconosce alla vittima un ruolo attivo, assente nella vittima sacrificale; potremmo dire che la vittima espiatoria ha in mano la pace, il carnefice la responsabilità.
L’uccisione e l’espulsione della vittima espiatrice fondano la nuova comunità proprio perché non cancellano la reciprocità, in alcuni casi addirittura la rafforzano.
In casi particolari, estremi per certi versi, la collaborazione derivante dalla reciprocità tra vittime e carnefici può travalicare il momento dell’uccisione ed espandersi al momento di fondazione della nuova comunità.
Da una collaborazione negativa si passa quindi ad una collaborazione positiva, il perdono non è più gesto individuale ma collettivo. Esempio lampante di ciò sono le commissioni di verità e giustizia istituite in Sud Africa dopo la fine dell’apertheid (Jaudel, 2010, 118) :

“Non si tratta di sapere se le vittime possano perdonare i propri carnefici, ma di determinare se noi [la nuova comunità del Sud Africa post apertheid], con i nostri simboli, con la nostra lingua e la nostra politica, le nostre istituzioni giuridiche e accademiche, siamo in grado di creare condizioni tali da incoraggiare alternative alla vendetta”3.

Vendetta e rappresaglia, così come il perdono, osservate spogli da ogni giudizio morale o etico, sono appunto dinamiche della reciprocità, quei frutti ingestibili della vicinanza umana che la vittima espiatoria è in grado di fermare, sia con la propria uccisione che con la permanenza post mortem quale elemento fondativo, spesso misconosciuto, della nuova comunità.

4. La vittima vincitrice

Sotto un diverso profilo, avendo riguardo alle relazioni della vittima con il resto della comunità che avvengono non precedentemente all’uccisione ma successivamente, incontriamo due diverse tipologie, speculari e complementari. La vittima vincitrice e la vittima sconfitta.

La definizione di queste due figure ruota attorno al concetto di riconoscimento, da intendersi come il complesso dei rapporti che legano la vittima in quanto tale al resto della società, determinandone le identità reciproche.

La richiesta di riconoscimento di cui è portatrice la vittima è rivolto all’intera società, e perciò non potrà che interagire con il potere4 che quella comunità domina.

Possiamo quindi partire dall’ipotesi che la vittima vincitrice sia proprio quella riconosciuta come tale dal potere che può riconoscerla, il riconoscimento comporta una vera e proprio cessione dell’identità vittimaria.
Tale premessa ci pone davanti ad una vittima dotata di una certa potenza, un soggetto ancora “vivo” poiché in grado di utilizzare la forza derivante dall’essere riconosciuta.
Così delineato il ruolo della vittima vincitrice appare non poco problematico, come ben evidenziato da Daniele Giglioli (2014, 9) che definisce la vittima
eroe del nostro tempo, mettendo in luce le implicazioni nefaste del paradigma vittimario .

“Palinodia della modernità, con le sue ingiunzioni onerose: cammina eretto, esci dallo stato di minorità (così per tutti Kant, Che cos’è l’illuminismo, 1784). Vale invece il motto contrario: minorità, passività impotenza sono un bene, e tanto peggio per chi agisce. Se il criterio che discrimina il giusto dall’ingiusto è necessariamente ambiguo, chi sta con la vittima non sbaglia mai”

Partendo dalla potenza della vittima vincitrice, dobbiamo preliminarmente chiarire che il termine potenza va inteso quale potenziale, cioè quale forza solo eventualmente esercitabile. Questa consiste nella capacità di incidere significativamente sull’ordine del discorso, nel generare identità.

La vittima vincitrice è quindi portatrice di un’identità forte, incontrastabile, fondata proprio sul riconoscimento ottenuto. Questo però è intrinsecamente legato all’appetibilità dell’identità offerta, il riconoscimento dipende dalla compatibilità della storia della vittima nell’ambito dei rapporti di forza che dominano la società.

La potenza della vittima vincitrice diviene quindi potere all’esito della cessione della propria identità all’ordine del discorso promosso dal potere costituito, divenendo così indisponibile. (Giglioli, 2014, 26)

La cessione di potenza per poter sopravvivere, implicita nell’immaginario della vittima, è qualcosa di diverso dalla sottomissione al grande lupo teorizzata Hobbes, dalla dialettica tra servo e padrone di Hegel (servo è chi ha avuto paura della morte), dalla rinuncia pulsionale in nome di alte mete sociali additata come inevitabile da Freud. In cambio della potenza, la posizione della vittima conferisce una singolare forma di potere, quasi fosse l’unico modo reale di dividerlo e condividerlo al tempo della crisi della democrazia rappresentativa”.

La vittima vincitrice, insomma, cede la potenza della sua identità ad un potere costituito in cambio di una posizione sociale in qualche modo privilegiata, migliore di quella che avrebbe altrimenti. Può fare ciò finché la sua identità sarà compatibile e funzionale agli scopi del potere costituito a cui la cede.
L’indisponibilità dell’identità vittimaria dipende quindi sia dalla subordinazione al riconoscimento pubblico, sia dall’impossibilità di modificare tale identità una volta ceduta, la vittima vincitrice è condannata a rimanere per sempre vittima, quella precisa vittima.
La vittima vincitrice ha con la propria identità un vero e proprio rapporto proprietario.

Scriveva Benjamin a proposito della dimensione religiosa del capitalismo (2013, 5):

Questo culto è, in terzo luogo, generatore di colpa. Il capitalismo è, presumibilmente, il primo caso di culto che non toglie il peccato, ma genera la colpa. In ciò questo sistema religioso sta nella caduta di un immenso movimento. Un immensa coscienza della colpa, che non sa togliersi il peccato, fa ricorso al culto non per espiare in esso questa colpa, bensì per renderla universale, martellarla nella coscienza e infine e soprattutto includere Dio stesso in questa colpa per infine interessare lui stesso all’espiazione.


Applicando la prospettiva delineata dal filosofo tedesco a quanto fin qui esposto possiamo sostenere che la vittima è testimone perpetuo della colpa altrui finché è vincitrice, finché cioè la sua identità è funzionale ad una narrazione che universalizzi la colpa, finché, soprattutto, è un’utile giustificazione del sistema penale e delle sue scelte politiche di fondo.

In quel “martellante” vi è descritta l’indisponibilità del potere della vittima vincitrice, essa non può scegliere come, ma soprattutto quando, utilizzarlo. Quello della vittima vincitrice è un esercizio costante, che non ammette interruzioni, pause o deviazioni.

Il passaggio da potenza a potere implica un’azione, per quanto questa si concretizzi nel mantenimento del ruolo di vittima che abbiamo visto essere per lo più passivo.

Si può attivamente scegliere la passività.

Bisogna, però, chiarire che la cessione della propria identità è solo una e non certo l’unica possibilità che una vittima ha di agire, rinnegando il proprio statuto passivo.
Pertanto si può affermare che sono vittime vincitrici quelle che hanno un’identità spendibile e che scelgono di spenderla. Ben possono esistere vittime che hanno questa potenza ma scelgono di non utilizzarla.

Provando a calare quanto fin qui sostenuto nell’attualità del nostro presente, rileva come particolarmente incisiva la riflessione sulla dimensione storica del paradigma vittimario, e del suo rapporto con potere e identità collettive, proposta dallo storico De Luna :

Quando 20 anni fa è crollata la prima Repubblica i partiti che hanno ereditato il potere politico sono stati chiamati a rifondare non solo il sistema politico ma anche quella che possiamo definire la religione civile. Questo tentativo è fallito. All’inizio si provò ad affiancare la memoria di Salò alla memoria della Resistenza con il famoso discorso d’insediamento alla presidenza della Camera pronunciato da Luciano Violante nel 1996 […] questo progetto si rivela sterile, impossibile da portare avanti. A quel punto lì si sceglie di riorganizzare le fila di un discorso sulla religione civile a partire dalla memoria delle vittime. Questa dimensione diventa straripante. C’è la Shoa, le vittime delle foibe, le vittime del terrorismo, le vittime della mafia…”5.

Il potere, insomma, ha bisogno di vittime con cui giustificare se stesso; soprattutto la potestà di punire, necessaria alla autoriproduzione delle forme del potere, trova nelle vittime una irrinunciabile fonte di giustificazione.

Lo status di vittima vincitrice è una gabbia, per quanto dorata, in cui non si può smettere di essere vittime.

5. La vittima sconfitta

All’opposto della vittima vincitrice troviamo la vittima sconfitta, la quale è portatrice di un’identità incompatibile con i rapporti di forza e di potere vigenti nella società. Per questa vittima sarà impossibile ottenere il riconoscimento del proprio status.

La vittima sconfitta è quindi priva di quella potenza che abbiamo visto caratterizzare la vittima vincitrice.
Anche il rapporto della vittima con la propria identità è diverso nei due casi, sintetizza mirabilmente Mesnard (2004, 34):

questo inquadramento opera sulle vittime stesse, stigmatizzandole in un identità “che le spoglia in tutto o in parte,” della loro biografia e dei loro riferimenti culturali, oppure ve le rinchiude, privandole di soggettività nonché di ogni diritto che non sia quello al soccorso. Rimpicciolite a ciò che gli è stato fatto, hanno lacrime ma non hanno ragioni”

Se la vittima vincitrice è quella che viene rinchiusa, cristallizzata, nella sua identità di vittima, la vittima sconfitta è quella che ne viene completamente spogliata.

Quest’ultima non può ricevere un riconoscimento perché questo contrasterebbe con l’equilibrio del presente. La sua identità non è utile come quella della vittima vincitrice, ma non è neanche inutile, è insanabile e, quindi, inaccettabile. Del resto, ciò che più di ogni altra cosa rende appetibile l’identità di una vittima è la sua capacità di costruire una narrazione pacificata, univoca e non conflittuale. Se ci chiedessimo quali vittime vanno bene, potremmo rispondere che:

solidarizzare con le vittime è diverso dal solidarizzare con gli oppressi: quest’ultima opzione implicherebbe una lettura della realtà, una sua presa in carico, e quindi un istanza di liberazione, «non una semplice scarica emotiva». Per questo il racconto vittimario è consolatorio e difende lo stato delle cose. Per questo è un racconto vincente. Per questo non tutte le vittime vanno bene e la selezione deve essere accurata. [..] Perché la storia ha inizio dove vogliamo noi6.

La vittima sconfitta illumina al meglio il rapporto tra vittima, carnefice e potere, dove i primi due, pur essendo giustificazione dell’esistenza del terzo, vedono le loro ragioni subordinate a quel concetto astratto e delicato che è l’interesse generale.

Tale realtà, comune a tutte le forme statuali, emerge in maniera particolarmente chiara nei pensatori della scuola classica del diritto penale.

Ad esempio Beccaria scriveva (2010, 46):

Le precedenti riflessioni mi danno il diritto di asserire che l’unica e vera misura dei delitti è il danno fatto alla nazione, e però errarono coloro che credettero vera misura dei delitti l’intenzione di chi gli commette. […] Altri misurano i delitti più dalla dignità della persona offesa che dalla loro importanza riguardo al ben pubblico. Se questa fosse la vera misura dei delitti, una irriverenza all’Essere degli esseri dovrebbe più atrocemente punirsi che l’assassinio d’un monarca, la superiorità della natura essendo un infinito compenso alla differenza dell’offesa”.

Indagare il rapporto tra vittima sconfitta e potere non comporta solo il rendersi conto che in ogni società esistono interessi confliggenti, e il primo è sempre tra chi ha il potere di governare e rappresentare l’interesse comune e chi ne rimane escluso, ma affrontare il nodo stesso dell’esistenza dei subalterni.

Fino ad ora abbiamo visto come le figure di vittima sacra ed espiatoria rispondessero a diverse esigenze di governo della violenza.7 Ora invece ci troviamo di fronte ad un problema diverso, la conflittualità ontologica della vittima sconfitta non è gestibile perché non espressa con azioni, bensì con il semplice esserci o esserci stati. La vittima sconfitta non è sacralizzabile poiché ontologicamente conflittuale.

L’unica soluzione percorribile è in realtà un inganno: se non si può negare lo statuto di vittima alle vittime sconfitte, si può, però, dimenticarle.

In fondo, anche la divisione, propria della vittimologia, tra vittime ideali e vittime reali è in parte coincidente con quella qui tentata tra vittime vincitrici e vittime sconfitte. Come fa notare Susanna Vezzadini di fronte ai crimini di impresa (2013,96) :

sul piano delle politiche e degli interventi di welfare, in particolare, tali dinamiche sembrerebbero rafforzate dalla diffusione di immagini ideali di vittime verso le quali indirizzare interventi normativi, risorse e programmi assistenziali; ciò ad evidente discapito di tante altre vittime reali, le quali, in ragione di caratteristiche di personalità e sociali o di tratti comportamentali, finiscono con l’essere ritenute non del tutto desiderabili […] in questa prospettiva, anche la vittima si configura quale detentrice, ne sia consapevole o meno, di una precisa utilità sociale, potendo risultare funzionale rispetto a determinate logiche economico-politiche o socio-culturali”

Possiamo quindi dire che la vittima sconfitta è inaccettabile poiché ontologicamente conflittuale e incompatibile con i rapporti di forza e di potere esistenti.

Di questa è però predicabile almeno un’altra caratteristica, la complessità.
Le figure di vittima fin qui incontrate sono infatti accomunate da una certa univocità della loro funzione, al contrario la vittima sconfitta, essendo una categoria costruita per esclusione, tende a ricomprendere al suo interno una complessità non semplificabile.

Quella della vittima sconfitta è una storia altra, che richiede un notevole sforzo per essere compresa, una ridefinizione dei concetti di “noi” e “loro” che mette in crisi la richiesta di certezza generalmente, ed erroneamente, rivolta al dispositivo giuridico.

6. Una definizione pura di vittima

Come già sostenuto in premessa, fin qui abbiamo affrontato dei modelli archetipi, ogni vittima reale che si volesse prendere in considerazione, molto difficilmente incarnerà integralmente una di queste figure. Al contrario si troverà in un suo particolare equilibrio tra ciascuna di esse.

Per avanzare una proposta di definizione minima, o pura, del concetto di vittima bisognerà allora, anzitutto, rintracciare un elemento comune a tutti i modelli teorici tracciati.
Tale operazione a prima vista appare alquanto complessa, tutte le caratteristiche fondamentali delle diverse tipologie di vittima che abbiamo individuato, l’internità o esternità, la capacità o meno di reagire per quanto riguarda la vittima sacra e la vittima espiatoria, la storia e l’identità nel caso della vittima vincitrice o sconfitta, sono infatti proprie dell’individuo a priori del suo divenire vittima, sono logicamente anteriori al concetto di vittima.
Non sarà quindi possibile utilizzarle nella costruzione di una definizione della vittima di per se stessa.

Un elemento comune a tutti i modelli delineati è però rintracciabile. Questo non può che essere la violenza: ogni vittima è tale poiché è stata colpita da una violenza.

Per evitare che la definizione che stiamo ricercando rimanga rasente alla tautologia dobbiamo approfondire non tanto il tema della violenza, ma cosa significhi essere colpiti.

Nel delineare cosa sia la violenza Girard evoca un’immagine particolarmente efficace (2011, 444): “Eppure, è la violenza fondatrice che continua a governare tutto, lontano sole invisibile intorno al quale gravitano non solo i pianeti ma i loro satelliti e i satelliti dei satelliti.”

In effetti l’essere colpiti genera necessariamente delle conseguenze, delle trasformazioni dell’oggetto urtato, sia nella forma che nella posizione. Ogni urto genera un movimento.
Le vittime sacre e sacrificali, vittoriose e sconfitte, sono tutte legate, costrette ad una certa identità, ad una certa funzione. Possiamo considerare questo come il risultato del loro movimento, che viene generato dal contatto con la violenza e da questa viene costantemente attratto.

Quanto scritto dal filosofo francese, allora, potrebbe non essere semplicemente una metafora eccezionalmente evocativa, ma una descrizione oltremodo precisa del rapporto vittima – violenza, dove l’ultima è un centro di gravità e la prima un corpo messo in moto.

Ne deriva che vittima è colei che viene colpita dalla violenza e da questo urto messa in movimento attorno al centro di gravità della violenza stessa.

In tale definizione riusciamo a conciliare l’indissolubilità del legame violenza – vittima e la predicabilità in capo a quest’ultima delle caratteristiche più disparate.
La traiettoria dell’orbita di ogni vittima attorno al centro di gravità della violenza dipenderà infatti da elementi propri del soggetto a prescindere dalla sua condizione di vittima, anzi spesso precedenti a questa.

Si pone però, a questo punto, un problema non ignorabile, così definita la condizione di vittima appare come un destino ineluttabile, uno status immodificabile come la morte. A queste condizioni bisognerebbe sostenere che chi è vittima non potrà essere altro, mai.

Dobbiamo ammettere che tale prospettiva rischi di apparire irrealisticamente pessimistica, eppure non si scorgono vie di fuga capaci di slegare la vittima dalla violenza.

È però possibile cambiare prospettiva.

Se la violenza è un elemento costitutivo e ineliminabile della vittima, che allo stesso tempo è agente della sua gestione, ne consegue che l’unico modo per eliminare la violenza è superare il concetto stesso di vittima.

La vittima uscirà dall’orbita della violenza quando non sarà più tale, poiché quest’ultima è legata alla violenza da un contatto che non possiamo ignorare.

7. Non essere più vittime. Il diritto penale minimo

Quello dell’emancipazione dalla condizione di vittima è un problema antico, ad esempio, San Tommaso d’Aquino, al culmine del plurisecolare percorso di superamento dell’antilegalitarismo che dominava la cultura cristiana, si poneva proprio la questione che qui indaghiamo, chiedendosi se fosse possibile restituire la virtù alla vergine violata8.

Dobbiamo in qualche modo partire dalla conclusione, ed affermare fin da ora che è possibile liberarsi dalla condizione di vittima. Sostenere il contrario condurrebbe a ritenere prevalente uno statuto passivo su di uno attivo, vorrebbe dire ricondurre l’umanità a meri oggetti impotenti di un disegno interamente predeterminato.

Senza alcuna pretesa di esaustività proviamo ora ad individuare alcune possibili vie di fuga dalla condizione di vittima

Una prima, sviluppata nell’ambito della filosofia e teoria del diritto, affronta la questione a partire dal problema degli elementi meta-teorici di giustificazione del diritto penale e della sua funzione.
La teoria del diritto penale minimo, infatti, ridisegna i ruoli dei soggetti coinvolti nel diritto penale (Ferrajoli, 2002, 9-10):

Intendiamo con essa [la teoria del diritto penale minimo], in accordo con la tradizione illuministica, essenzialmente due cose: innanzitutto un paradigma meta-teorico di giustificazione del diritto penale; in secondo luogo un modello teorico e normativo di diritto penale. Come paradigma meta-teorico, «diritto penale minimo» designa una dottrina che giustifica il diritto penale se e solo se è in grado di realizzare due scopi: la prevenzione negativa o, almeno, la minimizzazione delle offese a beni e a diritti fondamentali e la prevenzione e minimizzazione delle punizioni arbitrarie; in una parola se e solo se è uno strumento di minimizzazione della violenza e dell’arbitrio che in sua assenza si produrrebbero.

Come modello normativo di diritto penale, la formula designa il sistema delle garanzie penali e processuali, idoneo a soddisfare entrambi questi due scopi, ossia a razionalizzare proibizioni, pene e processi finalizzandoli a questa duplice tutela dei beni e dei diritti fondamentali: di quelli dei soggetti lesi contro le offese recate dai reati; di quelli degli imputati e poi dei detenuti contro gli arbitri polizieschi e giudiziari e contro gli eccessi e gli abusi delle autorità carcerarie. Per questo ho anche definito il diritto penale minimo come la legge del più debole contro la legge del più forte che vigerebbe in sua assenza”.

Il primo elemento da valorizzare è la prospettiva di minimizzazione della violenza, da contrapporsi all’orizzonte di gestione della violenza proprio del diritto penale, che appare ben più significativa e preminente della semplice funzione di deterrenza poiché in grado di affrontare le ragioni sociali economiche e politiche alla base della criminalità e della devianza.

Nel diritto penale minimo, differentemente rispetto al diritto penale massimo che oggi viviamo, la dimensione preventiva assume quindi una funzione la cui importanza è almeno pari a quella riconosciuta alla dimensione curativa.

Ciò avviene attraverso l’introduzione, quali soggetti del diritto penale, delle categorie di forte e debole, che permettono di predicare le reali caratteristiche e condizioni di colpevole e vittima, rendendo così possibile il superamento della condizione stessa di vittima.

Questo programma è esplicitato con grande chiarezza da Baratta, che indica come nella prospettiva del diritto penale minimo la figura della vittima viene slegata dalla violenza e dalle catene di un’identità indissolubile, per aver restituita la propria individuale potestà decisionale almeno su se stessa (Baratta, 1985, 458):

sono state messe in rilievo le gravi distorsioni che il sistema penale presenta quando esso è valutato alla stregua degli interessi della vittima; a questo livello si può constatare la quasi assoluta espropriazione del diritto di articolare i propri interessi che si realizzano con l’intervento del diritto penale, specialmente quando si rifletta sul ruolo della vittima nel processo penale9 […] Sostituire in parte il diritto punitivo con il diritto restitutivo; ridare alla vittima e, più in generale, ad entrambe le parti di conflitti inter-individuali maggiori prerogative, che li mettano in grado di ristabilire il contatto turbato dal delitto; assicura maggiormente i diritti di indennizzo della vittima”.

Emerge tutta l’inadeguatezza del diritto che non tiene conto delle categorie di debole e forte nel minimizzare la violenza nella società.

E’, anche, il problema della legge uguale per tutti in una comunità di diseguali.

Se, assumendo la prospettiva del diritto penale minimo, della vittima, cosi come del colpevole, possiamo predicare la debolezza o la forza, allora potremmo rispondere alle sue esigenze ponendoci al contempo nell’ottica di ridurre i conflitti interpersonali. Allo stesso modo, la vittima, ora libera di esprimersi, non avrà sempre ragione su tutto, anche delle sue aspirazioni e azioni sarà predicabile una legittimità o meno. Anche a lei dovrà essere attribuito il compito di minimizzare la violenza.
Scrive ancora Ferrajoli (2004, 329):

la legge penale è diretta a minimizzare questa duplice violenza, prevedendo mediante la sua parte proibitiva la ragion fattasi espressa dai delitti, e mediante la sua parte punitiva la ragion fattasi espressa dalle vendette o da altre possibili reazioni informali. È chiaro che, cosi inteso, il diritto penale [minimo] non è riducibile alla mera difesa sociale degli interessi costituiti contro la minaccia rappresentata dai delitti. Esso è bensì la protezione del debole contro il più forte: del debole offeso o minacciato dal reato, come del debole offeso o minacciato dalle vendette; contro il più forte, che nel delitto è il delinquente e nella vendetta è la parte offesa o i soggetti pubblici o privati a lei solidali”10.

In conclusione dobbiamo gettare uno sguardo sul terzo soggetto del diritto penale, che fin ora non abbiamo affrontato: il giudice11 quale espressione del potere costituito.

È indubbio che nell’ottica del diritto penale minimo il anche il giudice vada inquadrato all’interno della dicotomia forte/debole.
Esso è contemporaneamente soggetto tendente alla terzietà, cioè all’equidistanza tra vittima e presunto colpevole, e soggetto forte.
Diciamo “tendente alla terzietà” perché la persona del giudice non è avulsa dalla società cui appartiene e perché lo stesso concetto di equidistanza da due diseguali è alquanto problematico.
La “parziale” terzietà del giudice è probabilmente insuperabile, ma non per questo non dicibile e non limitabile. Ferrajoli, ad esempio, individua nel garantismo un antidoto ai poteri selvaggi. Afferma, infatti (2004, 11) :

Esistono conseguentemente, nell’attività giudiziaria, spazi di potere specifici e in parte insopprimibili, che è compito dell’analisi filosofica distinguere ed esplicare per consentirne la riduzione e il controllo. Distinguerò questi spazi – che nel loro insieme formano il potere giudiziario […]- in quattro tipi: il potere di denotazione, o d’interpretazione o di verificazione giuridica; il potere di accertamento probatorio o di verificazione fattuale; il potere di connotazione o di comprensione equitativa; il potere di disposizione o di valutazione etico politica”.

L’adozione delle categorie di forte e debole proprie del diritto penale minimo è quindi, anzitutto, un’operazione di demistificazione. Lo svelamento della realtà materiale del diritto posta a base del modello teorico a cui tende. Ne emerge che mentre l’attuale sistema giuridico tende ad aver bisogno di vittime eterne, differenti modelli possono, almeno teoricamente, permettere alla vittima di smettere di essere tale.

8. Il femminismo materialista e il post vittimismo

Il secondo pensiero che analizzeremo alla ricerca delle forme di superamento della condizione di vittima è il femminismo materialista.
Si rende però necessaria una breve premessa, per femminismo si deve intendere quella corrente di pensiero che, a partire dalla premessa secondo cui la donna sia un soggetto oppresso in quanto tale, costruisce una teoria delle oppresse per tutti gli oppressi.
All’interno di questa ampia categoria, il femminismo materialista si caratterizza per il profondo utilizzo del materialismo storico quale strumento teorico utile a decostruire un idea di donna che nella società si pretende naturale e che invece è un costrutto sociale.

Scrive in tal senso Christine Delphy (2001,56):

Mi sono messa a paragonare mentalmente la situazione delle donne a quella dei neri, a quella degli ebrei, ovvero alle oppressioni che, all’epoca, erano riconosciute dalla maggior parte delle persone come delle costruzioni sociali che non dovevano nulla alla costituzione fisica degli individui che costituiscono questi gruppi. Allora ho concepito l’oppressione delle donne come un fenomeno dello stesso ordine”.

Il femminismo materialista si pone quindi l’obbiettivo di attuare un processo di denaturilizzazione ampiamente affine a quello che abbiamo ricercato nei confronti della categoria di vittima (Garbagnoli – Perilli, 2013, 8).

Lo studiare i modi con cui i rapporti sociali diventano talmente solidi da sembrare naturali permette di iscriverli nella storia, aprendo, in tal modo, uno spazio di possibilità perché le cose possano essere altrimenti. Un tale studio genetico della naturalizzazione delle strutture sociali consente cosi di pensare la capacità di agire, l’agentività, al di là della sterile e funesta opposizione libertà/necessità, come «margine di manovra» collettivo prodotto proprio dalle lotte teoriche e politiche dei gruppi minoritari”.

Nicoletta Poidimani, affrontando il tema delle possibili risposte alla violenza contro le donne da quella che definisce un’ottica post-vittimista, scrive (2013, 69): “Il monopolio statale della violenza ha come corollari la stigmatizzazione e la criminalizzazione della rabbia.”
In tal senso la rabbia è espropriata dall’istituzione alla donna vittima di una violenza. Quella stessa rabbia che gli servirebbe per passare “dalla vittimizzazione all’autodeterminazione”, (Poidimani 2013, 67) cioè dall’essere debole all’essere forte.
“L’approccio post-vittimista […] fa emergere la speranza e la progettualità racchiuse nella rabbia” (Poidimani, 2013, 74).
Tanto la donna quanto la vittima, allora, non sono categorie naturali ma sociali, e in quanto tali modificabili.
In tale ottica la donna, a cui socialmente viene riconosciuta una costitutiva debolezza, vede, qualora offesa, moltiplicarsi geometricamente la propria minorità che ora appare naturalmente doppia, in quanto donna e in quanto vittima.
Un processo di riappropriazione di forza che ridefinisca il concetto di donna da naturale a sociale, quindi, non può non affrontare il problema dell’essere vittima, e di come uscire da tale condizione.

Per analizzare lo status di vittima dal punto di vista del femminismo materialista appare particolarmente interessante la prospettiva storica.

In tal senso la storia della caccia alle streghe può essere letta quale strumento della nuova divisione del lavoro imposta dal capitalismo nascente (Federici – Fortunato, 2009, 71).

Già Kamen, riprendendo una tesi di Michelet, che collegava l’esplosione della stregoneria ai periodi di depressione economica, ha notato che la caccia alle streghe scoppia nei momenti di maggiore instabilità politica e economica e le persecuzioni sono più violente nei periodi di grande calamità. «C’è, sostiene Kamen, un’impressionante coincidenza tra crisi e stregoneria»; proprio nel periodo in cui si ebbe il maggior rialzo dei prezzi (tra la fine del Cinquecento e la prima metà del Seicento) si registro il maggior numero di capi d’accusa e di persecuzioni. In altre parole è verso la strega che lo stato e le autorità locali cercano di indirizzare la rabbia contadina in un periodo in cui la comunità del villaggio si disintegrava sotto la pressione esercitata dalle nuove forze economiche. La strega, con i suoi poteri eccezionali, rappresentava un capro espiatorio ideale a cui si potevano attribuire tutte le calamità. Ancora più significativa, però, è la coincidenza tra l’esplodere delle persecuzioni e l’esplodere delle grandi rivolte urbane e contadine.”12

L’operazione che le due autrici compiono è quella di legare a doppio filo le origini di tale oppressione ad uno specifico statuto di vittima.
La condizione, assimilabile alla vittima espiatoria, predicata di un genere, e non di una persona singola, fa sì che nel momento in cui la società si ricompone grazie alla morte di una donna/strega questa, e l’intero insieme delle donne, non rientrino nella comunità quali elementi fondativi nelle modalità che abbiamo indagato, ma rimangano intrappolate al perenne ruolo di nemico interno. Ogni strega uccisa sarà la prova che altre ne esistono.

Quando la donna smette di essere strega/nemico interno, si approda allora alla donna debole e vittima predestinata, esterna alla comunità perché ininfluente, isolata: una vittima quasi sacrificale insomma. Possiamo allora ipotizzare che nella storia delle donne il ruolo di vittima espiatoria abbia portato ad un reingresso nella società come elemento positivo del tutto peculiare, prodromico alla completa identificazione con la vittima sacrificale.

Il denominatore comune è proprio lo status di vittima, di cui l’essere debole è in questo caso una condizione.
La famiglia nucleare, la demografia e la procreazione, sono gli elementi base della riproduzione della forza lavoro, tema fondamentale del capitalismo, soprattutto alla sua nascita. Una donna eternamente vittima potenziale è la figura perfetta che giustifica il ruolo in cui il primo capitalismo ha bisogno di rinchiuderla.
L’espulsione delle donne dal corpo sociale nasce con una persecuzione e si concretizza in una pretesa protezione.

Se affrontando il diritto penale minimo ci siamo ritrovati a fare riferimento quasi esclusivo agli archetipi di vittima vincitrice e sconfitta, con il femminismo materialista ci troviamo a doverci basare soprattutto sugli archetipi di vittima sacrificale e espiatoria. Mentre le streghe sono vittime espiatorie poiché forti e capaci di porsi su un piano di reciprocità con l’uomo, la donna a cui il capitalismo, almeno nella sua fase iniziale, tende, è inerme e separata dal resto del corpo sociale, incredibilmente simile e assonante alla vittima sacrificale.
Possiamo, quindi, ipotizzare che nel programma filosofico del femminismo materialista vi sia la riduzione del concetto di vittima al suo semplice significato “puro” tramite il superamento dello status di vittima come status permanente, con l’eliminazione di quel momento in cui una vittima diviene sacrificale, espiatoria, vittoriosa o sconfitta. Smettendo di essere vittime prima che questo momento arrivi. In fondo, il senso più profondo dell’idea di donna come costrutto sociale e non come dato naturale è che le categorie di vittima fin qui delineate, e le relative caratteristiche, non dovrebbero essere predicate che del soggetto sociale, e non certo né della vittima né della donna.

Va infine precisato che anche della donna vittima sono successivamente predicabili le categorie di vittima vincitrice e sconfitta. L’esempio più lampante viene dal Black Femminism, tra le cui più note esponenti troviamo Angela Davis che dedica un importante libro proprio ad analizzare le differenze razziali e di classe che determinano l’impossibilità di considerare le donne quali soggetto unico.13

9. Conclusioni

A partire dalla definizione proposta possiamo provare a trarre alcune conclusioni ulteriori rispetto a quanto già argomentato.

Da primo notiamo che assumere un concetto di vittima che non tenga conto del legame indissolubile tra questa e la violenza vuol dire aderire ad un modello di giustificazione del diritto utile a conservare i rapporti di forza esistenti nella società, al contrario l’assunzione di un’idea di vittima che tenga conto del legame con la violenza, e si pone il problema del superamento della condizione di vittima, implica un modello di giustificazione del diritto penale che si pone avanti l’orizzonte del cambiamento dei rapporti di forza e di potere nella società.

In secondo luogo è necessario comprendere appieno come la vittima non possa semplicemente essere oggetto di studio, ma debba esserne anche, e soprattutto, soggetto. In altre parole non appare possibile affrontare la fondamentale questione di come si esca dalla condizione di vittima se non a partire dal protagonismo di essa stessa. Prospettiva mirabilmente sintetizzata da Giglioli (2014, 13) che dedica il suo libro Critica della Vittima alle vittime che non vogliono essere più tali”.

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WU MING 1 (Roberto Bui), Terrorismo, migranti, foibe, marò, fascismo… Appunti sul vittimismo italiano, reperibile http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=18453.

1 Il tema della collaborazione delle vittime è ad esempio centrale in alcune delle più rilevanti riflessioni sulla shoa, in merito si veda H. ARENDT, La banalità del male, Feltrinelli, Milano, 1992; R. HILBERG, Significance of the Holocaust, in The Holocaust: ideology, Burocracy and Genocide, a cura di S. Milton, Milwood, N.Y., Kraus International Publication, 1980; Z.BAUMAN, Modernità e Olocausto, Il Mulino, Bologna, 2010

2 Il concetto di uccisione va inteso sempre in senso simbolico, è vittima espiatrice anche chi, interno ad una comunità, non viene ucciso ma subisce una qualsiasi forma di violenza

3 Pumla Gobodo Madikizela, Citato in: E. JAUDEL. Pumla Gobodo Madikizela è una psichiatra sudafricana, membro della Commissione per la Verità e la Riconciliazione: ha curato i colloqui in carcere con Eugene De Kock, capo di un’efferata sezione speciale della polizia dell’apartheid, responsabile di omicidi e torture.

4 Il concetto di potere va inteso nel senso più ampio possibile, non solo quale potere statuale, ma come qualsiasi forma di esercizio di forza, legittima o di fatto, di egemonia culturale o politica.

5 Intervista allo storico De Luna realizzata da Paolo Persichetti e pubblicata sul quotidiano Liberazione l’8 Maggio 2011.

6 Wu Ming 1 (alias di Roberto Bui), Terrorismo, migranti, foibe, marò, fascismo… Appunti sul vittimismo italiano, http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=18453.

si segnala inoltre l’articolo di Piero Purini “Come si manipola la storia attraverso le immagini”. Vedi: http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=20649.

7 Si noti che anche legittimazione del potere ad opera di una vittima vincitrice è una forma di governo della violenza, una forma di mantenimento dell’accettabilità del monopolio della violenza stessa.

8 Tale aspetto dell’opera del filosofo aquitano riemerge nel dibattito sulla giustizia riparativa, si veda ad esempio: E. RESTA, Teorie della giustizia riparativa, Atti del Convegno “Quali prospettive per la mediazione? Riflessioni teoriche ed esperienze operative”, Università degli Studi di Roma Tre, 20/21 aprile 2001.

9 Baratta rimanda in nota a: D. KRAUSS, La vittima del reato nel processo penale, Dei delitti e delle pene, I, n. 2, 1983.

10 La citazione è inserita in un paragrafo significativamente intitolato: Il diritto penale minimo come tecnica di tutela dei diritti fondamentali. La legge del più debole.

11 Ci si riferisce in questo caso alla magistratura giudicante, anche la magistratura requirente svolge un ruolo di primo piano che incide notevolmente sulla vittima ma per ragioni di spazio non affronteremo qui la questione.

12 Il virgolettato è una citazione presente nel testo originale di Federici, Fortunato dall’autrice H. KAMEN, The iron century, Praeger, New York, 1972.

13 A. DAVIS, Bianche e nere, Editori Riuniti, Roma, 1985. In questo libro Angela Davis si opporrà fortemente alle tesi di S. Bronwmiller, ritenute basate su presupposti razzisti e classisti, giudizio per lo più condiviso dal femminismo materialista europeo.

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