Pubblichiamo uno stralcio da <FEMMINISMO: PARADIGMA DELLA VIOLENZA/ NON VIOLENZA> che riteniamo utile in questo momento di strumentalizzazione elettorale.
[…] da anni ci siamo rese conto che femminismo significa anzitutto scegliere da che parte stare (come abbiamo avuto modo di dire in occasione di un 25 aprile, anni fa: “siamo partigiane perché abbiamo deciso da che parte stare”). E per fare questa scelta, occorre anzitutto partecipare alla vita collettiva, comunitaria, sociale, del mondo.
Che mondo è il mondo neoliberista?
Un mondo in cui manca l’alternativa: caduto il comunismo, il capitalismo non deve più giustificare le sue premesse, il potere neoliberista non si legittima attraverso un discorso “di parte”, ma attraverso argomenti quali “imparzialità”, “efficienza”, “problem solving”, “competenza tecnica”. Parallelamente, nell’orizzonte neoliberista vi è spazio per uno Stato fortemente eticizzato (tutore), per un ritorno forte alla confusione tra categorie morali e politiche, per norme e comandi sempre più invisibili e meno “legali”. Ad esempio siamo pieni di codici etici e deontologici che mancano di sanzione perché la sanzione non serve: il comando è direttamente valore, introiettato e riprodotto secondo uno standard comportamentale (v. fidelizzazione degli impiegati, delazione, “subsorveglianza”). Questa una delle manifestazioni dell’“egemonia culturale neoliberista”
Che trasformazioni sono avvenute nel linguaggio e nell’immaginario “antagonista” durante vent’anni di pacificazione ed egemonia culturale neoliberista?
Alcuni esempi:
– abbiamo introiettato la “meritocrazia” come forma di gestione del potere imparziale e trasparente, anzi “giusta”!- non sappiamo più dare significato al concetto di “riforma” o “riformismo” (da avanzamento delle condizioni materiali dei lavoratori, a processo di ristrutturazione permanente del capitale a danno delle classi subalterne); – non usiamo più le parole “comunista” o “socialista” per descrivere, ad esempio, i movimenti dell’america latina, ma concetti come “movimenti progressisti e di sinistra”; – si dice che la violenza contro le donne è un problema strutturale, ma poi si tratta il patriarcato come un fenomeno meramente culturale e ci si apre al “dialogo costruttivo” con guardie e magistrati; – si tornano ad usare parole come “sorella” o “amica” al posto di “compagna”, perché sono parole che nell’uso comune non costringono le donne a scegliere la propria parte in termini di lotta di classe; – si assume, anche da parte dei movimenti politici, la logica del problem solving e della competenza tecnica come fonte di legittimazione al proprio intervento politico che però, per questa via, diventa assistenzialismo se non vero e proprio collaborazionismo (cooperative, centri antiviolenza… ci sarebbe da citare la Critica al programma di Gotha)
Quali sono allora le forme di conflitto dentro all’egemonia culturale neoliberista?
Non lo sappiamo, ovviamente. Ma sappiamo che dobbiamo ripartire da qui: dall’interrogarci sulla fondatezza delle pratiche di lotta e dei discorsi politici che mettiamo in campo. Troppo spesso le nostre azioni politiche sono ritualizzate (cortei commemorativi, scioperi preavvisati) e musealizzate (es. gender studies). Altre volte sembrano invece rompere con il nostro quotidiano normalizzato, ma spesso sono solo carnevali (rotture della normalità circoscritte e regolate). In effetti sembra esserci stata una forte spoliticizzazione delle lotte… la cui cartina al tornasole, come ho cercato di dire, è la forte spoliticizzazione del linguaggio.
Allora ripartiamo da qui, da noi stesse e dalla ricerca di pratiche di rottura. […] l’importante è riferire il circolo “prassi-teoria-prassi” anche a noi stesse come corpo militante.
Quali sono i rischi di questa impostazione? Da una parte cadere nell’adagio cattolico “cambia te stessa per cambiare il mondo”, cioè: la tua postura morale influenza di per sé la postura morale della società. Dall’altra parte, interrogarsi sulla militanza può condurre ad una “colpevolizzazione” delle compagne e dei compagni. Su questo rischio vale la pena di spendere due parole e chiudere: i compromessi li facciamo tutti. Quasi tutti quando andiamo a lavorare, dato il forte isolamento e il forte ricatto, ci ritroviamo ad assumere atteggiamenti remissivi se non servili. Non si tratta di dire “compagne, o la militanza o il lavoro”, “integrità o morte”. Si tratta di chiamarci ad un esercizio di onestà intellettuale e responsabilità politica. Perché abbiamo urgente bisogno di inceppare meccanismi di autosabotaggio molto diffusi come, ad esempio, la prassi di sostenere una certa linea di azione o un certo programma politico non perché siamo convinte che sia davvero la scelta più efficace per spezzare la normalità dell’esistente (cioè per prendere il potere, quando torneremo ad avere la forza di desideralo), ma perché quel programma o quella linea di azione sono le scelte “più comode” per noi in quel frangente determinato della nostra vita privata, le “più integrabili” nelle nostre deliranti e precarie esistenze individuali. Stiamo ribaltando il senso della rivendicazione “Il privato è politico”. Altro meccanismo di autosabotaggio è quello per cui abbiamo smesso di fare polemica in ambiti assembleari o di movimento. Lo “scontro politico” non esiste quasi più. Quando tra gruppi o individui non si è d’accordo o si prova a ridurre quella divergenza ad un problema “personale” o “amicale”, o si prova a spostare il discorso sul piano del “metodo”, o si violano le regole della logica per rendere lo scambio incomprensibile ed evitare così il conflitto[…]
[…] aprire una discussione che, secondo noi, è una strada privilegiata per evitare di svegliarci tra altri 30 anni e capire che abbiamo lavorato, anche se in buona fede, contro noi stesse e contro i nostri desideri di liberazione.
FEMMINISMO: PARADIGMA DELLA VIOLENZA /NON VIOLENZA p.181