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SERVITU’ VOLONTARIA/ RIBELLIONE NECESSARIA
Il sogno di ogni potere è l’assenza di una controparte.
Il neoliberismo ha trasformato quest’ambizione in una programmazione ideologica: una visione strategica che sta mettendo in pratica attraverso una serie di passaggi concatenati che aspirano a stimolare l’asservimento volontario degli strati sociali subalterni.
È un percorso cominciato ormai da diversi anni, imperniato su un meccanismo che si può definire «Paradigma della Violenza/ Non Violenza».
Per quanto i segmenti di questa programmazione appaiano slegati l’uno dall’altro, essi sono, invece, parte di un unico progetto. E sta a chiunque desideri davvero uscire da questa società riportare i segmenti ad unità ed evitare di farsi irretire.
Il concetto di legalità è stato trasformato in feticcio. La legge viene presentata come qualcosa di sacro ed intoccabile, dimenticando che è solo il frutto di un rapporto di forza: fatta da chi detiene il potere e destinata alle subalterne e ai subalterni.
La costruzione di un comune sentire che, lontano dal buon senso, si impone come pensiero unico, omologante, conservatore e repressivo, ma propagandato come «buono e giusto». Un senso comune che casca dall’alto, di cui si ergono a depositari lo Stato e gli esperti, e che persegue chiunque se ne allontani o lo sottoponga a critica come un soggetto pericoloso e dunque espellibile dalla “società civile”.
La demonizzazione della violenza e, in particolare, della violenza politica è un altro cardine di questa propaganda. Se nel corso di una manifestazione, ad esempio, viene distrutto un bancomat o vengono fatto scritte sui muri, le prefiche della non violenza e le vestali della legalità intonano le litanie contro i così detti violenti, assimilando azioni di protesta ad atti di delinquenza comune e mascherando, in questo modo, sia le ragioni di chi protesta sia la violenza istituzionale e sistemica, vera responsabile dello stato di cose presenti.
La delega allo Stato e agli esperti delle decisioni sulla nostra vita, sulle nostre azioni, sui nostri corpi viene presentata come l’unica opzione razionale, perché le persone sarebbero inesperte, infantili e incapaci di decidere da sole. Ogni presa di posizione improntata all’autodeterminazione, alla presa di coscienza, al pensiero critico è per lo Stato un’eresia. A seconda del momento, l’autodeterminazione viene, infatti, strumentalizzata, criminalizzata o ridicolizzata.
La premialità e lo stigma, insieme alla delazione, sono assurti a strumenti basilari per coinvolgere le/i cittadine/i nelle sorti del potere, per stimolare una partecipazione alle decisioni pubbliche del tutto illusoria in termini di efficacia, ma molto remunerativa dal punto di vista di una rilegittimazione delle «istituzioni democratiche».
La voluta confusione tra aggrediti ed aggressori, attuata sia sul fronte interno che su quello esterno, mette volutamente sullo stesso piano chi la violenza la esercita scientemente e legalmente e chi, invece, la subisce. È così che le guerre di conquista possono essere presentate come «missioni umanitarie», le provocazioni belliche come azioni a protezione delle «democrazie», le misure poliziesche come strumento prezioso per la protezione “dei deboli”.
La digitalizzazione e le nuove tecnologie dovrebbero, nelle loro narrazioni, costituire un docile insieme di strumenti, utile alla semplificazione e alla modernizzazione della nostra vita, mentre si censura ogni discorso che si preoccupi di valutare l’impatto delle tecnologie in termini di controllo sociale totale e onnipresente, funzionale a farci perdere progressivamente ogni senso critico e a sottometterci sempre più arrendevolmente: servi in nome dell’efficienza e della comodità.
La così detta sicurezza ha volutamente propagandato l’idea di un contesto sociale insicuro, ha permesso di riempire le strade di telecamere, di sguinzagliare polizie in ogni dove, di rendere abituale la presenza dell’esercito nelle strade.
La mistificazione e la falsificazione della storia e della memoria ha dato infine supporto teorico ad una narrazione che presenta la nostra società come «civile e democratica» ossia come la migliore società possibile, dove ribellarsi, esprimere rabbia, dissenso, pensiero critico è pura follia.
Sono questa programmazione e questa propaganda che hanno permesso al governo di gestire indisturbato l’emergenza sanitaria in modo autoritario e delirante. Che hanno reso possibile testare la disponibilità della popolazione a prestare obbedienza cieca ed assoluta a ordini e divieti confusi, inefficaci e spesso del tutto insensati: dalla vaccinazione sperimentale sotto ricatto del green pass, alla reclusione volontaria dei lockdown, dal coprifuoco all’esclusione economica e sociale dalla vita per la popolazione refrattaria e disubbidiente.
Ed è sempre questa visione strategica che permette, oggi, al potere di legittimare lo stato di emergenza bellico e di “gestire” il conflitto sociale, l’impoverimento, le restrizioni e il controllo sociale che ne deriveranno, senza che nel dibattito pubblico possa nemmeno sollevarsi il dubbio che questa guerra serva solo le pretese imperialistiche degli Stati Uniti.
La stessa visione strategica che già da tempo scarica sulle spalle e sulle coscienze dei singoli l’emergenza climatica, continuando a finanziare ogni forma di estrattivismo militare, industriale e commerciale e preparando, al contempo, una nuova stagione di ricatti e punizioni per la popolazione.
Ma questa visione strategica ha un punto cardine, che è anche il suo punto più debole: la servitù volontaria.
Noi viviamo in questa stagione dove l’interesse del capitale si impone nei confronti delle persone in una logica di guerra, guerra interna nei territori sociali, guerra esterna nei rapporti internazionali e pretende di schierare dietro le sue bandiere mortifere tutte/i quelle/i che si prestano a portare un contributo alla sua causa, dando loro in cambio premi, promozioni sociali o semplicemente facendoli sentire nel giusto. Vogliono la resa senza condizioni degli oppressi/e e non vogliono fare prigioniere/i. Infatti, non tollerano neanche il silenzio, pretendono la partecipazione attiva.
Riteniamo fondamentale recuperare concetti come indignazione, ribellione, disubbidienza civile, rabbia, autodifesa, autodeterminazione, rifiuto della norma, rifiuto della legalità, differenza tra oppressor* ed oppress*, sfruttator* e sfruttat*… perché non si tratta tanto di sconfiggere dei soggetti quanto l’ambiente costruito dai dispositivi semantici, discorsivi, di controllo che rendono possibile il perpetuarsi del patriarcato e del capitalismo.
È necessario costruire, trovare, inventare nuove forme di lotta. È necessario battersi contro il controllo sociale e nel frattempo smettere di pensare con la testa del nemico.
Finché saremo subalterne alla logica della legalità, della norma, del politicamente corretto, del realistico non si riuscirà ad intravvedere la fine della società patriarcale e capitalista. Ogniqualvolta, invece, saremo in grado di deporre questi assunti quella fine sarà più prossima.
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