Io, terrapiattista femminista
https://www.sinistrainrete.info/societa/22198-nicoletta-cocchi-io-terrapiattista-femminista.html
di Nicoletta Cocchi
Da due anni m’interrogo come molte altre su quello che sta accadendo alle nostre vite e alle scelte che siamo chiamate a fare sui nostri corpi cercando di darmi risposte posizionate, incarnate, alias femministe. Fin dall’inizio dell’emergenza ho cercato di non oppormi aprioristicamente alle difficili scelte dei nostri governi, ma di fronte ai tanti divieti, prescrizioni, recinzioni e gabbie fisiche e mentali che si alternavano a misure di allentamento per poi tornare con una presa sempre più totalitaria sulle nostre vite, il mio atteggiamento è cambiato. Ogni mia previsione, anche la più distopica, si verificava regolarmente.
Allora come oggi mi guardo intorno, m’informo cercando fonti attendibili, parlo e discuto con vicine/i, amiche femministe e non, dosando le parole in acrobatiche conversazioni per non infilarmi in contrapposizioni prive di soluzioni, cerco dati, prove, tento ragionamenti. Quando, non più tardi di qualche mese fa, la presunta nuova normalità sembrava essersi imposta, ho avuto la certezza che qualcosa si era irrimediabilmente rotto, e gli ultimi decreti che entreranno in vigore in questi giorni mi danno la conferma che così è. Sono tra coloro che hanno scelto di non vaccinarsi, dunque non partecipo a convegni, incontri in librerie, non frequento biblioteche e nemmeno più l’associazione di donne che ho frequentato per anni, e naturalmente non vado al ristorante e al cinema.
Ma a parte il cambiamento di stile di vita è la strana natura dei problemi che si affacciano alla mia mente a essere cambiata: che faccio se verranno a rovistare nella mia spesa, se, come molto probabile, non potrò più ritirare denaro col bancomat, se la mia tessera sanitaria non sarà compatibile con i requisiti richiesti, se se se. Un atavico fatalismo e una buona dose di speculative fiction mettono di solito a tacere questi sinistri mormorii della mente.
Se pur virtualmente mantengo rapporti con alcune donne con cui scambio ragionamenti, visioni, analisi, cercando di fare rete con altri sporadici collettivi femministi. Non ho smesso tuttavia di cercare voci di donne, femministe, radicali e non, che mi aiutino a capire. Cerco in qualche modo una complicità nel dissenso contro la deprimente stagnazione di pensiero. Non lo trovo, se non molto raramente. Trovo invece interessanti ed elaborate analisi su come la pandemia abbia ulteriormente penalizzato la vita delle donne e aumentato le violenze in tutte le loro forme, su come il covid sia una crisi della cura e come abbia messo in luce tagli, privatizzazioni, riduzione dei servizi, mercati scellerati, povertà e tutte le disuguaglianze delle politiche liberiste. E come abbia evidenziato la crisi climatica che ci sta mandando al collasso. Leggo anche che la medicina di genere si sta molto interrogando riguardo i diversi effetti vaccinali sui nostri corpi. Molti sono i convegni sul tema della cura, le pubblicazioni non si contano. La nostra società è stata abbandonata all’incuria . Come negarlo? Tuttavia, non una parola, un dubbio, un interrogativo sul discorso medico scientifico tout court e le politiche emergenziali per la salute pubblica che da due anni ridisegnano le nostre libertà e i nostri diritti, non un cenno alle possibili terapie alternative ai vaccini, nessuna ombra sull’effettiva validità del siero e sui rischi delle ripetute inoculazioni, nessuna perplessità su come vengono elaborate le statistiche, nessuna domanda sulla super carta verde che da questa settimana impedisce alle terrapiattiste come me di andare alla posta o in banca, ma se tutto va bene a fare la spesa – oggi leggo solo beni di prima necessità -, e entrare in farmacia per comprare i farmaci consentiti e approvati dal ministero della salute. Né tantomeno trovo un accenno sull’incompatibilità con il nostro ordine costituzionale dei continui decreti emergenziali o lo svuotamento delle nostre cosiddette democrazie. E ancora, nessuna solidarietà verso chi non si piega a qualsivoglia ricatto ed è sospeso dal lavoro. Ma mi fermo qui per non scadere nell’ovvietà di una pericolosa propaganda antivaccinista.
Quando ancora non erano vietate le manifestazioni, in molte città tra cui Bologna dove abito, erano state indette manifestazioni NUDM contro il sistema patriarcale sanitario. Ho pensato beh finalmente qualcosa si muove, decido di andare. M’incammino verso la piazza e incrocio la manifestazione e anche quella per il cambiamento climatico. Belle, colorate, festose, con coreografie degne dei migliori palcoscenici. Non si manifestava per l’autodeterminazione dei propri corpi e la libera scelta su come curarli, si manifestava per il riconoscimento della vulvodinia, l’endometriosi e la neuropatia del pudendo e il dolore pelvico. Non che non siano questioni importanti trascurate dal sistema medico e che colpiscono un gran numero di donne, pardon, persone assegnate femmine alla nascita, AFAB la nuova sigla, ma mi sembrava che scendere in piazza per contestare il sistema sanitario patriarcale potesse avere altre priorità in questi giorni. Chessò, la materialità di un corpo che nelle scienze mediche evapora sempre più in un flusso di dati, i nessi tra scienza e profitto, il dominio di un modello medico-scientifico unidemensionale che si pone come necessario e giusto, un sistema di controllo sempre più invasivo e molecolare del nostro stato di salute da parte dello Stato, il famigerato biopotere foucaultiano sbandierato in tutte le salse dalle più accreditate analisi critiche femministe, quelle cose lì. Che l’ultimo successo del femminismo sia che non ne abbiamo più bisogno, come qualcuna dice? Eppure, la riappropriazione della medicina – penso ai gruppi di medicina e salute delle donne – e l’autodeterminazione del proprio corpo, insieme alla critica delle istituzioni mediche, sono state esperienza politiche fondamentali, se non fondanti, dei primi femminismi; così come l’epistemologia della scienza femminista, che mettendo in discussione la neutralità e l’universalità del canone scientifico ne svelava il carattere storicamente maschile, fu fondamentale nell’aprire orizzonti diversi ai femminismi successivi.
A pochi metri di distanza, la manifestazione no green pass del sabato. M’infilo nel corteo grigio e monotono scandito dalla litania salmodiante del nogreenpassnogreenpass intercalato dal canto di gente-come-noi. Gente che si stringe nei cappotti e diffuso senso di frustrazione nell’aria. Gente senza nome e come in prestito alla piazza, moderno lumpenproletariat che deborda da qualsiasi classificazione o soggetto politico conosciuto. Inedita lotta di classe? Forse. Certamente gente che ha paura, una fottuta paura di quello che il capitale gli può fare, e che già ha cominciato a fare. Sono a disagio, non so se sono gente come loro, ma resto, devo metterci la faccia.
Oggi è qualche mese dopo, accendo la tv e una virstar dice che il nostro sistema immunitario potrebbe alla lunga non essere contento di così tante inoculazioni, in ogni caso se dovremo farne una quarta o quinta o anche una sesta la faremo. Un’altra virstar dice che sì, forse non tutto è stato regolare nel conteggio dei morti, spesso anche chi entrava in ospedale in fin di vita per un incidente d’auto o per ictus veniva registrato tra i decessi per covid. Si indignerà la conduttrice, penso tra me e me, si alzerà sulla sedia la giornalaia di turno, succederà pur qualcosa. Niente, la trasmissione continua nella raccapricciante indifferenza degli invitati.
Ma non voglio addentrarmi nei meandri del circo mediatico e nemmeno in quello emergenziale dei decreti che stanno trasformando questo paese in un avamposto del baraccone global-patriarcale, né tantomeno nel circo delle evidenze sempre più numerose che non possono non far dubitare delle continue crepe gestionali di questa pandemia. Qualcuno ha cominciato a parlare anche tra i commessi dello Stato nei media mainstream, per ora sottovoce, in modo contraddittorio, ma forse proprio per questo chi ha orecchi per intendere dovrebbe interrogarsi e ragionare, aprire le crepe e non temere la crisi d’autorità delle scienze che queste lasciano intravedere. Lo deve fare per lasciare spazio alla varietà dei punti di vista della scienza, non solo quelli maggioritari ma anche quelli che rispondono a saperi minori, senza avere la pretesa di possedere la conoscenza assoluta e oggettiva della realtà. E chiedersi quali siano le forze in campo che determinano la direzione vincente. Lo deve fare anche per dare una chance alla propria vita, una chance di cui al momento non crede di avere bisogno perché premiato dalla scelta (non giudico se giusta o sbagliata) del proprio allineamento, ma di cui domani potrebbe rammaricarsi di fronte al prevedibile rinforzo di dose (e non solo di vaccino) di ricatti e sottomissioni. La mia impressione è che la carta verde non sia uno strumento sanitario ma politico-finanziario, così come lo storytelling della ricaduta della colpa del contagio su una parte di popolazione non allineata il capro espiatorio che mette a tacere i mille interessi delle politiche di ristrutturazione del capitale. Le pestilenze da sempre generano l’untore di turno, gli ebrei nell’Europa della metà del trecento, i roghi delle streghe nei due secoli successivi. Sempre le stesse donne, gli stessi vagabondi, gli stessi eretici, stranieri, medici-stregoni, gli stessi diversi. Le pestilenze sono ghiotte occasioni di cambiamento sociale e politico, comodi dispositivi di liberazione dai corpi non graditi, non più utili, furbeschi spartiacque tra un primo e un dopo. Fu così per l’Europa nel passaggio cruciale dall’ordine feudale a quello mercantilistico-capitalista, lo sarà anche questa volta. Verso cosa non si sa, ma i segnali che s’intravedono all’orizzonte non sembrano presagire nulla di buono.
Il re è nudo, vecchio e impotente, e pateticamente ridicolo anche, in quel voler a tutti i costi reinventarsi nel sogno prometeico di plasmare la propria e altrui materia. Un blasfemo istinto di conservazione patriarcale che ci sta trascinando in un vortice senza via d’uscita, e più il Patriarca reitera i tentativi di autoconservazione più porta a galla le radici dei valori, delle dinamiche e dei costrutti di questo modello di “civiltà”. Che, ricordiamolo, è la “civiltà” di una formazione sociale tra le altre, e che per quanto pervasiva non è l’unica. Oltretutto è anche abbastanza recente, solo 4, 5.000 anni di vita. Certo, tragicamente resistente ma non eterna.
L’ultimo secolo del movimento delle donne – perché certamente molti altri ce ne sono stati nel corso del tempo – ha dato vita a forme di resistenza nell’enunciazione e nelle pratiche, sgretolando le forme simboliche e le immagini del modello egemonico del pensiero e della coscienza umana. La messa in discussione del potere da parte delle donne – il nostro “non essere d’accordo col mondo” – da sempre passa attraverso delle politiche del corpo, politiche della vita. Ci sono passate le baccanti, le gnostiche e le streghe, le suffraggiste e le femministe radicali di ogni specie. Il femminismo degli ultimi sessant’anni, con le sue pratiche politiche dell’essere in presenza nella relazione con le altre, ha dato vita a saperi corporei radicati affinché ci liberassimo dalle linee di potere, anche interiorizzate, che ci normano e gestiscono. Attraverso queste pratiche di scambio, dove i corpi si espongono gli uni agli altri col loro portato di affettività, parola e differenza di esperienza, il soggetto non si pone come sovrano assoluto ma come essere-in-relazione, e da lì fonda il suo agire politico. Dunque, il corpo, è già dimensione politica. A partire da qui si potrebbero aprire molti discorsi per confrontarsi con le politiche dei corpi a cui oggi siamo assoggettate.
Il femminismo silente di questi giorni mi fa pensare che si stia facendo piazza pulita di decenni di pratiche politiche dei corpi “a partire da sé” e, più in generale, degli orizzonti di libertà, desiderio e trasformazione trasmessi dai movimenti delle donne. Una perdita di memoria, visioni e autodifese che ci appiattisce su uno sguardo da nessun luogo e che ci preclude qualsiasi minimo tentativo di pensiero, critica e risposte alternative. Ma spero non sia così, spero che tutte, sotterraneamente, stiano riflettendo, confrontandosi in qualche gruppo o collettivo, o interrogandosi da sole per poi uscire allo scoperto, ognuna col suo posizionamento.
Ho tra l’altro l’impressione che nell’emergenzialismo imperante anche l’etica della cura e del bene comune, le sole proposte da più parti avanzate dalle donne, siano un ritornello controproducente per le nostre vite e che servano al massimo a tenere in piedi un mondo che ci ha già per troppo tempo affaticate. Oggi sappiamo di poter fare meglio e di più con altre sapienze, altre forme di relazione, altre etiche. Non è certo tempo di manifesti, forse più di qualche bozza di idee, nuove e coraggiose e prudentemente ottimiste, con cui immaginare nuovi territori, habitat, comunità, e soprattutto tanta disponibilità a imparare facendo. Senza alcuna pretesa di voler “costruire dei mondi” da zero, eppure vederli nascere ogni volta che cambiamo i modi in cui ci organizziamo, non come siamo organizzate/i dallo Stato.
Per concludere, voglio portare l’esempio di un momento felice del femminismo nostrano, uno tra i tanti, ma che potrebbe esserci d’aiuto per riprendere il filo di certi discorsi, quando l’incidente di Chernobyl spinse le donne a interrogarsi su cosa stesse succedendo. Nacquero allora molte riflessioni sociali sulla scienza, a mio parere ancora molto attuali, sulla cultura del rischio e il senso del limite rispetto ai concetti di sviluppo, progresso, tecnoscienze e ai loro rapporti con il mercato e gli interessi del capitale piuttosto che con il benessere delle persone. Oltre alle questioni messe in campo allora, bisogna ora mettere le mani in pasta sia negli autoritari dispositivi di assoggettamento sia nei sistemi normativi interiorizzati di quella che a breve sarà la post-normalità. Non farlo equivale a piazzarsi in una comfort zone che nulla sposta. Ciò richiede di abbandonare la paura stando centrate nei nostri corpi in relazione, e coltivare ancora l’amore della libertà, della vita, della gioia. A volte può essere contagiosa