La Parentesi di Elisabetta del 23 giugno 2021

L’illegalità delle lotte fonte del diritto

” Le leggi, il diritto e l’ordine sono fondamentalmente contro di noi anche se, combattendo duramente, abbiamo strappato due o  tre diritti che, comunque, dobbiamo difendere continuando a lottare. La lotta radicale femminista e l’obbedienza alle leggi sono due cose che fanno a pugni fra loro.” Rote Zora

Tutti i giorni muoiono persone sul lavoro, è uno stillicidio, ma a meno che non sia la notizia di un’operaia di 22 anni dilaniata da una macchina tessitrice che produce una particolare impressione per un giorno e via, le altre morti vengono vissute dalla gente come routine. Continuamente ci sono donne stuprate o ammazzate da mariti, fidanzati, amanti, ex, padri, figli, conoscenti, famiglia, amici ma è diventata routine anche questa. Tutti i giorni muoiono persone di miseria, fra poco ci sarà un’ondata di licenziamenti da paura dato che l’ultimo ddl Draghi ha decretato la definitiva eliminazione del blocco in due date indifferibili, 30 giugno e 30 ottobre, ma sarà routine. C’è nella popolazione un’assuefazione al male che non è indifferenza, è rassegnazione, una rassegnazione che comporta l’incapacità di indignarsi e di cercare quindi la ragione di quello che succede.

Una cosa però è certa. Questa è una società che si pavoneggia per l’attenzione ai diritti: sicurezza sul lavoro, leggi sempre più severe, legislazione di tutela per le donne, sbandieramento di attenzione nei loro confronti, sbandieramento dei diritti delle minoranze e delle diversità sessuali, parole a iosa sulle tutele riguardanti immigrati e immigrate… pace, giustizia, democrazia… Ma evidentemente c’è qualcosa che non va, cioè c’è tanto che non va, anzi c’è tutto che non va. Tutto questo sbandierare, tutte queste leggi, tutto questo parlare non servono a niente e si rivelano uno strumento sempre più stringente di controllo sociale, danno la netta sensazione che non ci sia niente da fare e contribuiscono ancora di più all’assuefazione al male. Chiaramente è un discorso che abbraccia l’approccio neoliberista di gestione della società in tutti gli ambiti, ma ce ne sono alcuni particolarmente emblematici per l’uso e gli effetti di questi strumenti di legge imbastiti, creati e propinati dal sistema di potere ai subalterni come soluzione di tutti i problemi. Parliamo delle leggi per la sicurezza sul lavoro, di quelle contro la violenza sulle donne e sulle diversità, delle leggi contro il razzismo, di quelle per la <sicurezza> della cittadinanza…Sono solo alcune ma sono tutte <per il nostro bene>.

Nonostante questo, la violenza personale, interpersonale, sociale non è diminuita ma è aumentata e non potrebbe essere diversamente dato che la violenza è lo strumento principale di cui si è dotato lo Stato per risolvere i problemi sul fronte interno e su quello esterno. La violenza dello Stato è aumentata a dismisura.

Una violenza che ha dei misuratori molto indicativi che parlano da soli e che quindi possono essere considerati dei termometri della situazione sociale.

Il primo è sicuramente l’approccio repressivo nei confronti di chi non si dichiara convinto partecipe, in senso lato e non necessariamente politico nel senso stretto del termine, del progetto neoliberista, approccio caratterizzato dalla tendenza a reprimere, condannare, controllare non il reato ma anche solamente il pensiero di una possibile alterità. Basti pensare al caso, successo poco tempo fa, dello studente che a scuola per protesta non ha voluto mettere la mascherina e per il quale è stato messo in atto un trattamento sanitario obbligatorio, Tso, perché evidentemente chi è contrario alle norme stabilite può essere solamente un pazzo. O a quello che è successo nelle carceri di questo paese durante le proteste per la situazione pandemica, tredici detenuti morti durante le rivolte e non si sa bene come…

Il secondo è il dato sui femminicidi che invece di diminuire aumentano e si fanno più tragicamente serrati nonostante le leggi, le norme, i codici rossi, rosa e a pallini, nonostante i centri antiviolenza, gli osservatori e i finanziamenti. Ma la ragione è tragicamente chiara, tutte queste leggi e strutture non fanno che infantilizzare e vittimizzare le donne spingendole all’affidamento, mentre l’unica risposta efficace è quella dell’autorganizzazione, dell’autodeterminazione e della sicurezza economica. Se le donne si organizzassero in piccoli gruppi di autosostegno e difesa, non necessariamente politicizzati, ma di amicizia e di vicinato, se il movimento femminista si decidesse ad aspettare sotto casa i maschi violenti, se…ma l’autodeterminazione è molto pericolosa, si può imparare a pensare da sole…

Poi ci sono le infinite norme e leggi per la sicurezza sul lavoro, i guanti, le scarpe, i caschetti, la cartellonistica, i corsi, le normative europee, ma non viene in mente a nessuno che sicurezza sul lavoro significa lavorare poche ore perché poi il livello di attenzione scende paurosamente? Che non ci devono essere straordinari ma stipendi adeguati? Che i concetti di produttività e di meritocrazia fanno morire la gente? Che il mettersi in malattia è una sacrosanta difesa della propria salute e della propria integrità fisica e mentale?

Poi c’è la così detta sicurezza urbana e sociale e il decoro per cui la città è tutta un divieto, tutta una norma, basta guardarsi intorno, le persone sono trattate come scolaretti dell’epoca vittoriana, appena ti distrai zac! una bacchettata sulle mani e dalla parte del dorso naturalmente. I militari presidiano la nostra vita perché è noto che la gente è disubbidiente e non si sa gestire.

Infine il vastissimo arcipelago delle leggi contro il razzismo e per la tutela delle culture diverse e degli immigrati e delle immigrate…chiaramente la prima cosa da chiedersi è cosa c’entri tutta la suddetta attenzione con la legge n.40/1998 Turco-Napolitano che ha istituito la detenzione amministrativa e i Cpt, Cie, Cpr o come li volete chiamare. Ma non vi fate troppe domande perché potrebbero fare una legge che proibisce di farsi domande così il problema sarebbe risolto alla radice.

Se un modello socio economico è basato sulla risoluzione violenta delle problematiche e dei conflitti sia sul fronte interno che sul fronte esterno, questo si riflette immediatamente nelle relazioni interpersonali e private, definisce le modalità di relazione e di socializzazione. Guardiamo ma non vediamo, sentiamo ma non pensiamo, parliamo, ma solo di aria fritta, di importanti elucubrazioni o di vuoto penumatico. Abbiamo perso completamente la capacità di indignarci, la rabbia, l’odio per l’ingiustizia, la capacità di discernere le cose importanti dal fiume di informazioni inutili e dannose che ci avvolgono. Oscilliamo tra essere conigli impauriti e servi obbedienti. Almeno per la stragrande maggioranza delle persone è così.. Qualcuno e qualcuna tenta disperatamente di arginare questo stato di cose e viene stigmatizzato come velleitario e irresponsabile, tenta di riportare all’attenzione i principi materialisti di base per l’analisi dell’esistente e allora viene definito datato e vetero.  Ma è l’analisi della nostra storia che si rivela il modo migliore per contrastare l’impianto della società attuale e non è un caso che l’oblio e la mistificazione delle vicende storiche siano un cardine del modo di procedere neoliberista.

Leggiamo dal numero di <Rosso> del marzo-aprile 1975

..La conclusione sostanzialmente positiva per il movimento dei processi agli occupanti di case IACP ed oggi arrestati durante l’autoriduzione dei prezzi al supermercato SMA di viale Padova ha dimostrato come l’unità di classe costringa a recepire come legali forme di lotta tradizionalmente illegali. E’ abbastanza inutile rifare la storia di questi processi, dalle prevaricazioni poliziesche al tentativo fallito di criminalizzare la protesta proletaria: questo compito è stato già egregiamente assolto dalla stampa quotidiana e, oralmente, dalle centinaia di compagni presenti alle udienze.

Ci preme piuttosto partire da questa vittoria politica per aprire un dibattito sul problema più generale della repressione oggi, ed in particolare della repressione delle lotte d’avanguardia, dai sabotaggi agli scontri armati.[…] Ma ritorniamo alla repressione. Essa esiste nella misura in cui il movimento è debole; così come le lotte e l’organizzazione delle lotte sono illegali nella misura in cui non si generalizzano e non diventano comportamento di massa. Il problema della repressione può essere risolto solo in termini interni al movimento, solo con l’attacco alle istituzioni e non con richieste di legalità.

Negli anni 30 erano puniti a norma di codice penale lo sciopero e il picchetto, il volantinaggio e la manifestazione: ma erano anche una necessità materiale della classe operaia e sono entrati nell’area dei diritti politici. L’illegalità delle lotte è, a tutti gli effetti, una fonte del diritto![…] Al contrario l’opportunismo, i tentennamenti, le divisioni interne alla sinistra in altri processi […] hanno consentito, al di là del risultato del processo, la condanna esemplare delle avanguardie. Le avanguardie infatti possono pagare sulla loro pelle le debolezze altrui.

Sotto processo è l’autonomia operaia, in tutte le sue forme, il potere operaio di distruggere la macchina dello Stato. Sotto processo è la possibilità del tecnico di Milano di sabotare i calcolatori financo di Hong Kong, del proletario di prendersi le case e di non pagare i costi sociali, dell’operaio frammentato e diviso di riunificarsi bloccando lo sviluppo e distruggendo le macchine. Ad accusare è il potere del capitale unificato. Solo riconoscendo come proprie tutte le lotte d’attacco, vincenti e perdenti, giuste e sbagliate, facendo patrimonio del movimento operaio, costruendo su quelle basi l’organizzazione, è possibile vincere[…]

O in un documento del 5 maggio 2014 del <NO TAV TOUR> alla Sapienza a Roma

[…] il messaggio è chiaro: non disturbate i manovratori. Il potere sente di avere la forza di attuare il pesante ciclo di re-strutturazione in corso, accettando non solo di farsi carico dell’eventuale conflitto sociale generato, ma inoltre attaccando preventivamente ogni potenziale focolaio di rivolta. Se pur a bassa intensità, si tratta di una vera e propria strategia di contro-insurrezione preveniva. Facendo questo, il potere sembra cogliere in alcune componenti del movimento le loro potenzialità sovversive, che attacca duramente. Dovremmo domandarci se forse non sta in noi compagni l’incapacità di cogliere la potenzialità reale dei movimenti di cui facciamo parte e di favorirne l’esprimersi.

D’altronde dobbiamo considerare che le cose vanno molto peggio laddove non si genera conflitto sociale, lì la re-strutturazione avanza ad alta velocità non dovendosi fare carico neppure di rimuovere gli eventuali ostacoli sul suo cammino. Spicca l’esempio del mondo del lavoro dove, nel giro di pochi anni, siamo passati, senza colpo ferire, dalla fine del welfare state al ritorno alla schiavitù, ovvero al totale assoggettamento delle forze produttive alle esigenze padronali.
Sarebbe un errore imperdonabile pensare che questa fase sia transitoria, che vi possa essere un ritorno alle condizioni precedenti. La destrutturazione si compie attraverso una ridefinizione dei rapporti sociali che viene assunta in via definitiva e attraverso un più elevato grado di integrazione del vivente nel processo capitalista. Ogni attendismo è deleterio, ogni nostalgia di un passato prossimo che appariva meno inumano è fuori luogo. Ogni tentativo di quelli che credono sia possibile ristabilire i vecchi rapporti di mediazione con il potere rischia di trasformarsi in un frustrante fallimento, soprattutto se non è supportato da una reale disponibilità a scontrarsi ma unicamente dalla sua rappresentazione spettacolare.
C’è stata lanciata una sfida a cui dovremmo provare a rispondere pena la nostra sconfitta, che si sostanzia non nell’attacco repressivo ma nella attuazione dei progetti del dominio.[…] Attuare una secessione dai meccanismi allineanti che ci vengono imposti.[…]

In un interessante intervento intitolato <Infrangere la superstizione della legalità>, all’interno di un’iniziativa della Coordinamenta femminista e lesbica, del maggio 2018, Silvia De Bernardinis, ricercatrice e studiosa degli anni ’70 in Italia, ci ha detto ( la forma colloquiale è stata volutamente mantenuta)

[…] Oggi si parla di cultura della legalità, definizione non proprio esatta, sarebbe più corretto parlare di ideologia della legalità, e cioè uno dei dispositivi ideologici del neoliberismo economico. l’ideologia legalitaria è qualcosa che è entrata completamente nel senso comune, ci sono le scuole in Italia di ogni ordine e grado che organizzano le loro settimane della cultura della legalità. E’ notizia di questi giorni che c’è anche una nave della legalità, e poi ci sono i professionisti della legalità, quelli che la propagandano e quelli che fanno da amplificatori, attraverso il sistema mediatico, che sollevano indignazione a comando ogni qualvolta essa venga disattesa, che si scagliano contro le illegalità e gli illegali (si va, pervasivamente, dalla mafia al sacchetto dell’immondizia messo nel cassonetto sbagliato! Ma ricordiamoci anche che c’è una legge che dichiara illegali degli esseri umani!). Per l’ideologia legalitaria la norma è di per sé un valore incontestabile, è un feticcio, che ha assunto oggi i tratti di un oggetto sacro. Come si trattasse di un valore universale e, soprattutto, come fosse privo di qualsiasi determinazione storica. Come non avesse alcuna relazione con il potere, come non si trattasse del risultato di un determinato rapporto di forza tra diverse classi, diversi interessi. L’ideologia legalitaria è di fatto l’imposizione, sul piano ideologico e culturale, della giustezza e inviolabilità della norma così com’è senza metterla in discussione e ha come significato, come conseguenza, quello di negare o soffocare qualsiasi forma di conflitto, qualsiasi possibilità di critica dell’esistente e di determinare la criminalizzazione del dissenso.

Lo schema di funzionamento collaudato e vincente (funziona allo stesso modo anche per un altro concetto che è strettamente collegato alla legalità e di cui parlerò tra poco), passa attraverso una trasposizione della dimensione e condizione privata che si riversa nella dimensione pubblica. Per esempio, perché le cose vanno male nella società, nel nostro quotidiano? Le cose vanno male, questo è il messaggio che viene passato, perché ci sono persone che non rispettano la legge. E’ un concetto estremamente banale però è proprio così che funziona. A questa ideologia è sotteso un altro meccanismo che funziona molto bene e cioè una sorta d’infantilizzazione nella comprensione della realtà. La complessità della realtà dei fenomeni sociali viene ridotta essenzialmente allo scontro tra i buoni e i cattivi, tra i bravi cittadini che rispettano la legge e i delinquenti a vario titolo. Se la società non funziona il problema sta nell’individuo cattivo, nel violatore della norma che non la fa funzionare, non nel sistema che è buono, giusto e immutabile.

E cioè l’ideologia legalitaria mette al bando qualsiasi possibilità di critica della società e soprattutto del potere. Il meccanismo di semplificazione/infantilizzazione che ha dietro di sé la negazione di qualsiasi capacità critica è anche, allo stesso tempo, l’esaltazione massima del consenso verso lo stato delle cose esistente. E’ un dispositivo ideologico volto a disarmare il dissenso, ed in particolare il dissenso politico.

Più cresce e si fortifica la cultura della legalità, più cresce – come risposta al malessere sociale per le condizioni di precariato esistenziale – anziché il conflitto e la progettualità, il rancore individuale, l’altro percepito come concorrente, che è sempre l’altro che si trova un gradino al di sotto di noi o nella nostra stessa posizione, mai sopra. È il prevalere del rancore e dell’ideologia vittimaria. È la sopraffazione del consenso sulla critica, in particolare la critica del potere. L’ideologia legalitaria è uno degli aspetti della società postmoderna, della fine della storia che corrisponde all’affermazione dell’unica ideologia permessa, quella del mercato, dove la politica è, è presentata, come gestione dell’esistente. Ora il problema è che tutto questo è penetrato capillarmente nella società e si è trasformato in senso comune.

Accanto all’ideologia legalitaria c’è l’ideologia vittimaria, due fardelli nefasti che vengono dalla sconfitta del processo rivoluzionario degli anni 70. L’ideologia vittimaria fa coppia perfetta con l’ideologia legalitaria, entrambe funzionano sullo stesso meccanismo e entro la stessa visione. Parlavo di infantilizzazione all’inizio. L’infantilizzazione è una forma di deresponsabilizzazione dell’individuo e soprattutto è la negazione e la condanna della prassi, ed è per questo che facendo un raffronto con ciò che era la società degli anni 70, la si può vedere come un’immagine rovesciata allo specchio. Quanto viene proposto oggi è l’assoluta passivizzazione dei soggetti sociali, quello che viene più condannato è l’agire, la prassi essenzialmente.

Perché gli anni 70 vengono in qualche modo costantemente presi e trattati come uno spauracchio? proprio perché dagli anni 70 nonostante la sconfitta, ci sono forse delle forme di lotta che a livello di memoria potrebbero darci, non dei modelli perché parliamo di un’altra epoca – del mondo degli anni 70 non c’è più nulla, e le forme di contestazione di quegli anni, oggi sono assolutamente improponibili – però c’è un concetto importante che ci trasmettono e che è proprio quello dell’agire, della prassi. Era un’epoca in cui, appunto, il discrimine tra il giusto e lo sbagliato era proprio la prassi. L’innocenza, il non fare, lo stare a guardare erano disvalori. Un completo ribaltamento rispetto ad oggi. E c’era anche un’altra cosa che è stata completamente cancellata, un’idea di libertà che affermava, che faceva sua l’idea di inclusione. Se pensiamo agli anni ’70 non soltanto dal punto di vista dei militanti rivoluzionari ma in un contesto più allargato, ci accorgiamo che quegli anni sono stati il momento in cui coloro che storicamente non hanno potere, quelli, che non hanno mai parlato, che non hanno mai concretamente agito, in qualche modo hanno trovato uno spazio per farlo, c’era un contesto che in qualche modo lo facilitava. Pensiamo a situazioni molto comuni: le donne, le casalinghe che si inventano modi di organizzare la difesa dei militanti contro la polizia, magari gettando tutto il possibile dalle finestre negli scontri, o accogliendo i manifestanti in fuga. Sono persone che non militano o che hanno un ruolo non particolarmente attivo ma che partecipano ad un movimento che è molto più esteso e le coinvolge, le include. Mi vengono in mente i fatti di San Basilio, ma non solo, le varie lotte, gli scontri di piazza che erano una cosa molto comune e che avevano come corollario il confronto tra militanti e polizia, beh molti militanti quando era necessario correvano dentro un portone e le porte delle case erano aperte. Se noi pensiamo alla situazione oggi, sono contesti irripetibili, quello che può succedere oggi è la denuncia immediata, la telefonata immediata ai carabinieri perché c’è un tipo che è entrato nel portone. Parliamo quindi di un contesto in cui la libertà presupponeva l’inclusione di tutti quanti.

Perché in quel momento questo diventa possibile? La risposta è legata al grande argomento tabù che avvolge gli anni ’70 e che viene continuamente mistificato: quello che è successo negli anni 70 è stata la messa in discussione del monopolio della violenza e anche del monopolio della legalità che ne è un corollario, e viene messo in discussione da un movimento di classe che per un periodo, e qui sta la particolarità degli anni 70, che per un momento breve riesce a sottrarsi completamente al controllo delle istituzioni e non solo, ma anche al controllo dei suoi rappresentanti, dei suoi referenti politici tradizionali, si tratti di partiti o sindacati. È un movimento trainato dalla classe operaia che conquista la sua autonomia, e non è un caso che tutte le forme di lotta si radicalizzino proprio a partire dalla fabbrica. Una serie di forme che vanno al di là dello sciopero: il sabotaggio, il gatto selvaggio, e altre mille forme per sabotare la produzione che erano molto più incisive rispetto allo sciopero proposto dai sindacati e che erano anzi combattute dai sindacati. E che bloccando l´organizzazione della produzione mettevano in discussione l-intero sistema sociale.

Era una classe operaia risultato di un processo di trasformazione economico, una classe operaia che si sottrae a chi l’aveva sempre tenuta a freno e si scontra immediatamente non solo con chi tradizionalmente rappresenta le forze della repressione, ma si scontra con il suo referente di classe più diretto, partito e sindacato. Le prime lotte operaie iniziano un po’ prima degli anni settanta e si generalizzano nel biennio ’68-’69. Le prime lotte operaie del 1962-63 partono dalla Fiat e si scontrano immediatamente con l’opposizione del Pci e con i sindacati. Ad un certo punto, una serie di congiunture che a volte capitano nella storia, cioè un contesto internazionale caratterizzato anche da una serie di rivoluzioni importanti in Africa, in Oriente, processi rivoluzionari in America Latina, una situazione di crisi capitalistica nei paesi occidentali, permettono l’emergere di un movimento di classe molto forte che nel 68-69 arriva a maturazione e che inventa forme di lotta nuove. Cosa significa questo? Significa che all’interno della fabbrica che è il luogo centrale di irradiazione del conflitto e che poi investe altri contesti, nella fabbrica fordista, l’ordine e il controllo, la disciplina, l’osservanza della legalità, saltano completamente. Molti hanno raccontato, militanti ma anche sindacalisti che poi hanno abbandonato la politica, che le fabbriche più importanti del nord erano diventate i luoghi dove gli operai di fatto avevano preso il controllo dello spazio della fabbrica, riuscivano ad organizzare un contropotere. Lo possono fare perché conoscono perfettamente il suo funzionamento, perché trovano una situazione interna e internazionale favorevole e perché sperimentano forme di lotta autonome, nel senso politico, e soprattutto rompono con la tradizionale rivendicazione salariale o con la vertenza isolata, e fanno della necessità di cambiamento qualcosa che coinvolge tutta la società. Non a caso le lotte poi si estenderanno nei quartieri quasi allo stesso modo. Succedono nelle fabbriche cose che oggi sono impensabili: i capi che fino a qualche tempo prima dettavano legge e imponevano orari ad un certo punto vengono estromessi con un tipo di azione politica pratica che supera l’azione del sindacato, cioè senza stare più lì a chiedere lo sciopero, per esempio, per il miglioramento delle condizioni di lavoro e la nocività sul lavoro. Senza chiedere il permesso a nessuno, decidono, e queste sono lotte completamente illegali in quel momento, la rottura della legalità si traduce in conquista, di spazi, di diritti, la fotografia di nuovi rapporti di forza. Rispetto alle lotte precedenti c’è una rottura importante data proprio dal fatto che salta la funzione di mediazione di strutture che comunque sono istituzionali.

L’esperienza più importante all’interno della fabbrica è sicuramente quella dei Cub, i comitati unitari di base, che in parte però dopo il biennio 68-69 vengono riassorbiti, non tutti, ma in parte vengono riassorbiti all’interno del sindacato. Comunque si crea all’interno della fabbrica una cultura in cui la questione della legalità è superata, è superata dai fatti, e anche dalla velocità della lotta. L’idea che alla giustizia e alla legalità borghese, che gli operai vivono all’interno della fabbrica e che è quella repressiva, si possa contrapporre una giustizia proletaria, diventa un patrimonio comune del movimento di quegli anni, per cui se l’idea è quella appunto della realizzazione della giustizia proletaria è legittima non solamente l’azione di sabotaggio, ma anche ad essere accettati e praticati i sequestri di dirigenti aziendali, gli incendi alle loro auto, le forme di danneggiamento materiale diventano qualcosa di molto comune e di molto generalizzato all’interno di tutte le grandi fabbriche del nord. Quindi siamo in una situazione in cui il concetto di legalità è completamente superato, e questo movimento poi si irradia, esce dalla fabbrica, investe il tipo e il modo di fare politica nei quartieri e si arriva poi a discutere della trasformazione rivoluzionaria della società.

Se metti in discussione l’assetto delle cose presenti e poni una trasformazione rivoluzionaria, il problema della legalità lo hai già risolto, lo hai già superato, la tua azione sarà comunque posta su un piano di superamento della norma esistente.[…]

E Christine Delphy, femminista materialista francese, in un’intervista del 2004 a Le Monde Diplomatique, parla delle leggi ottenute negli anni ’70 come di un sottoprodotto

[…]Ottenere nuove leggi non era la preoccupazione principale del Mlf. Il suo scopo era più ambizioso, più utopico. Le nuove leggi sono state il positivo sottoprodotto di un lavoro gratuito, privo di finalità concrete immediate come la ricerca di base. E se un sottoprodotto è nato, è anche perché non era lo scopo ultimo, o piuttosto perché si mirava più in alto. Questa ambizione <irrealistica>-che si permetteva di mettere tra parentesi la realizzazione immediata-ha prodotto un tale slancio, che alcune cose sono poi state ottenute in concreto[…]

Risulta evidente che i diritti non possono essere chiesti, sono il risultato di un rapporto di forza e che è necessario non confondere la legge fatta dallo Stato a proprio uso e consumo strumentalizzando la richiesta proprio di diritti, da quella ottenuta con le lotte che comunque costituisce sempre un sottoprodotto della spinta utopica che ha portato al suo ottenimento perché anche in questo caso lo Stato userà la concessione della legge come strumento di addomesticamento.

La legge sull’aborto è l’esempio più eclatante nel nostro specifico. La legge 194/1978 è stata concessa in seguito ad un superamento reale, diffuso, continuativo e consapevole della legalità, attraverso la presa in carico diretta da parte di una componente importante del movimento femminista della pratica abortiva. Le donne abortivano in autorganizzazione insieme ad altre donne, la pratica era dichiaratamente contro la legalità ed esplicitamente contro la norma vigente, venivano stampati non solo opuscoli informativi ma libri correntemente distribuiti che insegnavano a eseguire l’aborto con il metodo Karman. Inoltre le donne che abortivano si autodenunciavano e il movimento femminista si autodenunciava in supporto. Quindi la legge 194 è una legge ottenuta superando la legalità attraverso la prassi ma è anche l’esempio eclatante di come il sistema abbia risposto con una legge che toglie l’acqua ai pesci. Infatti contiene due passaggi fondamentali che sono stati subito smascherati dal femminismo radicale ma supportati invece dalla componente socialdemocratica e non a caso: l’aborto è consentito solo nelle strutture dello Stato e deve seguire un preciso iter e chi esegue un aborto fuori dalle strutture codificate è punito con la reclusione da uno a tre anni o da uno a quattro anni a seconda della fattispecie. Questo è stato propagandato come punitivo nei confronti dei così detti <cucchiai d’oro>, i ginecologi che facevano pagare carissimi gli aborti clandestini, ma di fatto ha un altro scopo, impedisce l’autonomia delle donne e la possibilità di fare gli aborti in autorganizzazione. L’unica lotta è per l’aborto libero.

Chiedendo nuove leggi, sempre più stringenti, sempre più particolari non si tutela nessuna/o ma anzi si spingono le persone alla delega e all’assuefazione. Bisogna smettere di essere complici di questo sistema.

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