Biciclettata contro frontiere e galere!
FUORI A UN METRO DI DISTANZA, RECLUS* IN OTTO IN UNA STANZA!
Il 7 novembre scorso Chaka Outtara si è tolto la vita in carcere, dove era stato trasferito perché accusato di aver partecipato ad una rivolta nell’ex caserma Serena, un CAS (Centro di Accoglienza Straordinaria) di Treviso.
I CAS sono luoghi dove si viene parcheggiat* in attesa dei tempi della burocrazia, in attesa che qualcuno, dopo un tempo indefinito che può durare anche anni, dica se si ha diritto all’asilo politico o ad un’altra forma di “tutela”. Nel frattempo non si è liber* di andarsene, di lavorare, di determinare un qualsiasi aspetto della propria vita.
In tempi di pandemia questi luoghi sono molto pericolosi, in quanto si vive a stretto contatto, senza le risorse necessarie a prendersi cura della propria salute, con la continua minaccia di reclusione all’interno dei centri nel caso qualcun* risulti positivo al virus.
Nell’ultimo anno, nei centri di accoglienza ci sono state moltissime rivolte, e tante sono le persone che, come Chaka, sono state condannate per reati come violenza, devastazione e saccheggio e portate in carcere con condanne anche decennali.
Quello che li aspetta dopo la detenzione è il rimpatrio (perché le condanne a lunghi periodi detentivi non permettono il rinnovo dei documenti), che si passi o meno per i Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR).
I CPR sono luoghi di detenzione amministrativa, prigioni dove vengono richiuse persone senza documenti considerati validi in Italia. Proprio come le carceri sono luoghi sporchi e sovraffollati, dove gli operatori e le guardie entrano ed escono senza essere sottoposti ad un monitoraggio medico decente.
La gestione, che è in mano alle Prefetture e alle Cooperative che vincono appalti da miliardi di euro, non ha nessun interesse a prevenire o evitare il contagio. Il silenzio sul numero dei contagi nei Cpr è totale.
Le uniche notizie sulle persone malate provengono da chi è reclus*, ma le comunicazioni con l’esterno sono rese sempre più difficili persino con i familiari. In molti centri infatti è vietato persino avere un telefono.
In carcere così come nei CPR non è permesso alle persone prendersi cura del loro benessere, e sono quindi più esposte ai rischi del contagio. Già prima della pandemia il sistema sanitario carcerario era insufficiente alle necessità delle persone recluse, proprio perché è sempre stato considerato più importante mantenere le persone in carcere piuttosto che tutelare la loro salute.
FUORI A UN METRO DI DISTANZA,
RECLUS* IN OTTO IN UNA STANZA!
Fuoco a CPR, gabbie e galere