Riflessioni femministe sul Distanziamento sociale

#DISTANTIMAUNITIVSTOGLITIDIMEZZO

di Noemi Fuscà

Vorrei cogliere, se così si può dire, l’occasione del virus per capire quale sia la comunità da salvare e di conseguenza perché sia pericoloso il concetto di distanziamento sociale, utilizzato come nuova forma di relazione umana. Le due idee solo apparentemente sono in contraddizione. Parto infatti dal presupposto per cui non ci sia una comunità a cui rivolgere la solidarietà, se per comunità intendiamo la cittadinanza, il popolo o altri concetti che comprendono tutti indistintamente.

Nonostante questo approccio al primo sguardo sembri cinico, è strettamente legato all’imposizione di decreti a lungo termine che trasformano il distanziamento da forma di protezione a forma di controllo sociale, tenendo presente che nessuno, per prime quelle autorità che dovrebbero in teoria per lavoro tutelare la comunità, sono “in grado”, per scelta prima e per mezzi poi, di dare direttive ferme per evitare il contagio.

Di fronte alla pandemia, lo Stato non ha apprestato i corridoi sanitari e non ha requisito le cliniche private: ha messo in pratica senza dirlo il darvinismo sociale. Di fronte alla pandemia, il governo è più interessato a lasciare ognuno/a di noi in balia della discrezionalità delle forze dell’ordine, piuttosto che comunicare in modo chiaro le linee di condotta da seguire.

Non crediamo nello Stato, sappiamo che è strumento di gestione del grande capitale transnazionale e per questo ha rotto il patto sociale con la “comunità”, e soprattutto con gli sfruttati e con chi ha provato a opporsi al neoliberismo.

Siamo arrabbiate però, perché sappiamo che molte delle concessioni fatte alla “comunità”, sono state degli apripista per l’imposizione del neoliberismo.

Ricordate il salario accessorio? Accettando questa impostazione retributiva abbiamo permesso al capitale di poterci togliere quando voleva parte del salario, aumentando un rapporto di forza già sbilanciato. Oppure ricordate quando abbiamo accettato che fossero messe in atto le campagne contro i “furbetti della pubblica amministrazione”, categoria politica oramai rintracciabile sui libri di sociologia, oppure che non fosse un problema che si usassero tornelli o telecamere sul luogo di lavoro? E poi ci meravigliamo che ad Amazon, Il Grande Immenso Capitale, controllino il tempo di una pisciata? E ricordate quando ci hanno coinvolte contro il degrado delle città ed è stata la strada maestra per la gentrificazione?

Quando chi ha il potere vuole affettuosamente occuparsi di me, io due domande me le faccio e se possibile mi armo. Ma da cosa riparto?

Viviamo una società frammentata dall’individualismo coltivato dal neoliberismo e ne vediamo i frutti ogni giorno: delazione, guerra contro il prossimo, frustrazione. Quale comunità quindi? La mia famiglia? Il condominio?

Non c’è una comunità unica a cui fare riferimento, ci sono singoli, gruppi, collettivi, famiglie, coppie ma non c’è una comunità.  Si è tra l’altro completamente persa la consapevolezza della collocazione di classe.

Ma quindi cos’è, cosa si propone e che effetti provoca il distanziamento sociale?

Nello specifico di questa situazione viene propagandato come un metodo non farmacologico per ridurre la diffusione di una malattia contagiosa che usa come veicolo infettivo l’aria o il contatto.

In questo periodo si sentono due campane riguardo alla questione del distanziamento sociale: una ne denuncia gli effetti sulla sfera emotiva e psichica (siamo animali sociali e soffriamo per mancanza di relazioni umane), l’altra, invece, intima di eseguire pedissequamente le ordinanze vigenti, perché informate da rigore scientifico e la scienza ha sempre ragione. Nel mezzo ovviamente tutto il resto.

Questo perché, da ben prima della pandemia, viviamo in un sistema che contrappone per controllare. La socialdemocrazia ha auspicato da sempre la par condicio nel dibattito pubblico, cioè il confronto di due opposte fazioni, che devono entrambe potersi esprimere. La libertà di espressione, la libertà di pensiero ci vengono contrabbandati come beni preziosissimi, ma all’interno di un confronto totalmente spoliticizzato: talk show di attualità, siparietti di false contrapposizioni dove tutt* possono esprimersi e quello che dicono non conta niente. Valori illuministi, come la libertà di manifestazione del pensiero, devono essere attualizzati e, soprattutto, interpretati con le lenti della lotta di classe, altrimenti diventano solo l’ennesima forma di individualismo e di controllo sociale.

Tornando all’idea del distanziamento sociale… il distanziamento è già presente nella geografia politica del mondo globalizzato (quello in cui il welfare state è diventato workfare, in cui l’opinione pubblica è concentrata sui diritti umani e sul cambiamento climatico): è stato definito con il termine “post territorialità”. La politica ha distrutto le sue barriere e ha ridefinito le competenze delle sovranità statali, non certo per il bene del popolo globale, ma solo rimarcando lo sfruttamento di pochi verso molti. Allargare l’orizzonte è servito, per ora, solo ad abbattere le garanzie, il patto sociale e le frontiere per il profitto. La distanza, esiste molto più di quando c’erano muri a dividere l’Europa o di quando le frontiere esistevano tra le nazioni. Distanziamento e inclusione nel mondo del capitale sono due facce della stessa medaglia sono in una relazione “fluida” per usare un termine tanto caro al neoliberismo . Se la ministra Bellanova ha bisogno di immigrati per zappare la terra allora si scoprirà inclusiva. La fluidità è l’alter ego del “fai come ti pare” ma sappi che poi il potere in modo assolutamente fluido deciderà “cosa fare di te”. Una sorta di evoluzione 3.0 di darwinismo sociale.

Il terreno fertile per il distanziamento sociale è pronto da tempo: nonostante negli ultimi due secoli ci siamo ammassati nelle città (motivo per cui poi le nocività sono da ricercare in questi luoghi e nei luoghi di grande industrializzazione ma non voglio allontanarmi troppo), dal punto di vista filosofico politico il processo di individualizzazione è stato così forte che il virus ha aggiunto alla distanza solo un’altra dimensione, quella fisica. Ora esiste anche la paura del contatto, paura diffusa senza un criterio, perché non è individuabile un soggetto preciso dal punto di vista patologico. Finalmente avremo la forma attuata dell’homo homini lupus, si sarà sempre più sospettosi verso l’altro e in prima persona metteremo in atto alla perfezione il miglior controllo sociale della storia.

E allora, visto che la forma urbana rappresenta l’odierno assetto sociale ed economico, mi immagino città piene di tornelli, di sistemi per contarci, tutto in mano alla digitalizzazione, amministrazione per appuntamento telematico, per far vedere quanto sia bello il progresso.

Mi viene da pensare al film “In time” dove il tempo di vita è la nuova moneta di scambio, la città è organizzata per settori concentrici e per passare da un settore all’altro è necessario pagare pedaggio, per cui arrivare al centro ma anche cambiare zona è impossibile per chiunque, a meno di non accorciare la propria vita di ore, settimane, anni. La libertà di movimento che la bella globalizzazione tanto raccontava non è reale o, meglio, fino ad adesso lo è stata per noi occidentali: l’erasmus, il viaggio low cost… ci hanno permesso di fare le turiste, chi più chi meno… ma poi davvero ci siamo mosse nel mondo? O ci hanno fatto fare un giro per poi fregarci con la batteria di pentole?

La nuova città che nascerà sul distanziamento sociale sarà chiusa e piena di delatori. Dobbiamo, per riuscire a sopravvivere in questo probabilissimo scenario, provare a tessere reti di difesa e di offesa, solo così potremo forse divaricare le possibili crepe.

E, soprattutto, per evitare che il distanziamento ci distrugga dobbiamo destrutturare l’idea per cui c’è del buono in questa società. Stiamo costruendo il nostro carcere e stiamo consegnando le chiavi di nostra spontanea volontà ai carcerieri.

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