Settimo appuntamento/ Chiusura del ciclo “Femminismo:Paradigma della Violenza/Non Violenza”
Siamo arrivate alla fine del Ciclo con cui abbiamo deciso di indagare sul Paradigma della Violenza/Non Violenza, il paradigma con cui il neoliberismo ha la pretesa di affossare ogni antagonismo, ogni istanza di ribellione, di protesta, perfino di semplice dissenso. Dicevamo nel documento di apertura:
“Riteniamo necessario recuperare concetti come indignazione, ribellione, disubbidienza civile, rabbia, autodifesa, rifiuto della norma, rifiuto della legalità, differenza tra oppressor* e oppress*. sfruttator* e sfruttat*… tutti ricompresi nell’indistinto magma del concetto di violenza che la società neoliberista, fase attuale del capitalismo e del patriarcato, demonizza, togliendo a questo paradigma ogni valenza sociale e collocando la così detta violenza politica in una imprecisata sfera delinquenziale”
E così abbiamo pensato di tirare le fila di tutto quello che abbiamo indagato in questi mesi insieme a tant*altr* partendo da noi perché l’autorganizzazione e l’autonomia non sono altro che la capacità di prendere in carico direttamente i nostri desideri e la consapevolezza della possibilità di realizzarli.
SEZIONE AUTORGANIZZAZIONE: autonomia femminista, autodifesa, separatismo, rifiuto della delega, militanza.
Che cos’è per te la militanza?
Proiezione del film documentario del 1970 del Gruppo Dziga Vertov che si intitola “Lotte in Italia” in cui la militanza viene narrata attraverso le parole di una compagna.
Testo di apertura e di invito alla discussione.
Sempre più spesso viene usato il termine “attivista” per nominare chi prende parte alle lotte politiche o le costruisce. Nel mondo femminista “attiviste”, ma anche “ragazze”, perfino “amiche”, sono i nomi che vanno per la maggiore. Quasi a definire non una collocazione politica, bensì di gruppo o un generico impegno nel sociale che spesso tracima nel volontariato. Il termine “femminista”, invece, è usato troppo spesso a sproposito come grimaldello per far passare politiche funzionali al potere. Il termine “compagna” è caduto in disgrazia e usato solo in ambiti ristretti.
Sempre più si fa ricorso al generico termine “donna”, tornato prepotentemente nelle chiamate per manifestazioni, convegni, o nei volantini e nelle iniziative.
“Una generazione, per anni, si è riconosciuta chiamandosi compagna” (dicevamo nell’<Incontro Nazionale Separato sulla Violenza Maschile/Il personale è politico, il sociale è il privato> che abbiamo fatto come Coordinamenta insieme a tante altre compagne) e la parola sugellava un patto di appartenenza e solidarietà, qualche cosa ben oltre i gruppi politici e i loro programmi, qualcosa di difficilmente verbalizzabile proprio per la ricchezza della sua estensibilità. Compagna e femminista, ancora ieri provocavano vibrazioni che penetravano fin dentro gli abissi del disagio e della solitudine che pure c’erano anche allora. Ma, se sono le parole che fanno le cose, disfare quelle parole che sono, allo stesso tempo, categorie di rappresentazione e strumenti di mobilitazione, ha contribuito alla smobilitazione di quello che, un tempo, si chiamava femminismo”.
Abbiamo sempre detto, inoltre, che il termine “donna” non ci appartiene. Non è l’appartenenza al genere femminile che ci definisce, bensì l’oppressione che subiamo e che si caratterizza in questo momento storico, capitalista/neoliberista, con connotati particolari, tra cui la strumentalizzazione della violenza su di noi e i percorsi meramente emancipatori portati avanti da donne che si prestano, consapevolmente o meno, a perpetuare l’oppressione delle altre donne e degli oppressi tutti.
Confrontandoci su queste problematiche ci siamo rese conto che anche il termine “sorellanza” deve andare incontro ad una ridefinizione. La sorellanza non è determinata dalla mera appartenenza al medesimo sesso biologico ed è necessario, oggi come ieri, riconoscere chi è e chi non è nostra sorella.
Il femminismo è fortemente attraversato dalla classe.
Che cosa significa, quindi, fare militanza, scegliere da che parte stare, essere militanti?
L’egemonia culturale del sistema ha una forza devastante mentre noi siamo continuamente scisse.
Ognuna di noi fa parte di collettivi, gruppi politici, separatisti e non, prepara volantini, comunicati, fa riunioni, assemblee, discute e si rapporta con le altre e si trova anche a sopportare denunce e processi…e, allo stesso tempo, nella quotidianità siamo spinte non solo ad adeguarci ai meccanismi del sistema, ma a diventare catena di trasmissione dei valori dominanti.
Spesso siamo ricattate, come ad esempio sul lavoro, costrette a subire modalità a cui ci sottrarremmo volentieri. Ma quello che colpisce è che spesso, invece (forse per paura o forse per disillusione), accettiamo in automatico misere condizioni di vita dando addirittura per scontate alcune, troppe, cose.
Ci è capitato di vedere un documentario del 1970 delGruppo Dziga Vertovche si intitola “Le lotte in Italia” in cui la militanza viene narrata attraverso le parole di una compagna. Ci ha stupito l’attualità di quello che dice. Riteniamo normale andare all’università, fare gli esami, ascoltare la lezione di un professore, poi uscire a fare una manifestazione e portare in piazza altre idee. Oppure accettiamo in famiglia un rapporto lontanissimo dai nostri desideri e, magari, ribadiamo con i parenti atteggiamenti che con le nostre compagne/i non avremmo mai.
Oggi, allo stesso tempo, le relazioni sono profondamente mutate, la tecnologia digitale ci ha così coinvolte che non riusciamo a comunicare se non attraverso di essa. Politicamente e privatamente, siamo parte di un universo continuamente connesso ma di cui noi non gestiamo assolutamente nulla, anzi ne siamo al servizio. Un meccanismo a cui siamo così assuefatte da non accorgerci che mentre comunichiamo protesta e antagonismo e organizziamo lotte ci stiamo muovendo come in una scatola trasparente, osservate ed usate da chi detiene veramente il banco. Oppure ce ne accorgiamo? E se ce ne accorgiamo, facciamo finta di niente o pensiamo che sia possibile sottrarsi?
Ma non vogliamo assolutamente innescare meccanismi di tipo colpevolizzante, che sono invece caratteristici del sistema, e nemmeno indulgere a visioni del tipo “cambia te stessa e cambierai il mondo” che troviamo di chiaro stampo cattolico.
Come femministe abbiamo sempre detto che il nostro privato è politico. Questa consapevolezza ci appartiene, è parte fondante del nostro impegno, ma, in questo caso, ci interessa indagare quanto in automatico siamo, nel nostro quotidiano privato e pubblico, catena di trasmissione dei valori dominanti, quanto forte sia l’egemonia culturale del sistema neoliberista/patriarcale e cosa possiamo fare per disinnescare questo meccanismo.
Per questo vi giriamo la domanda che ci siamo fatte