Gli stupri delle divise
(immagine di Moju Manuli)
Questa la notizia: a Livorno un comandante dei carabinieri ha per anni abusato di lavoratrici usando il suo ruolo di appartenente all’arma che affianca l’ispettorato del lavoro della città toscana. A quanto riferito dalle donne che sono passate per questa terribile esperienza, garantiva lavoro in cambio di sesso.
Quando la violenza su una donna viene esercitata da un uomo in divisa, assume connotati ancora più gravi.
La divisa porta con sé un’ esaltazione del ruolo maschile. Chi la indossa ha fatto una scelta, è uno che crede nell’autorità e nella gerarchia, nell’uso della forza come regolatrice dei rapporti sociali, nel riconoscimento che deve avere come portatore di ordine e di disciplina, nella necessità di assoggettamento delle soggettività ribelli, è uno che viene abituato a prendersi quello che vuole e che il ruolo sociale gli deve, il tutto aggravato dalla situazione di soggezione in cui si trova chi entra in contatto con lui. E questo vale per tutte le varie divise che si muovono in questa società, anzi è proprio nella società neoliberista che il confine tra forze di polizia e forze armate diventa sempre più labile. All’esercito vengono affidati compiti di controllo sociale, le famose “strade sicure”, e la militarizzazione di interi territori nazionali, la Val di Susa, L’Aquila o i territori occupati dalle basi militari Nato, USA e via discorrendo e soggetti a continue esercitazioni e sperimentazioni come la Sardegna e la Sicilia, sono solo gli esempi più macroscopici. Impossibile non ricordare lo stupro avvenuto fuori da una discoteca di Pizzoli, proprio vicino a L’Aquila, da parte di un militare addetto alla “sicurezza” del territorio o quello nella caserma del Quadraro a Roma fatto da tre carabinieri e un vigile urbano. Addirittura la “virilizzazione” valeva anche per i militari di leva, quando la leva c’era ancora: quelli che accettavano autoritarismo e gerarchia, vale a dire i valori di quell’ambiente, erano spesso autori di atti e fatti di sopraffazione e di violenza, il così detto “nonnismo”. E’ proprio contro questo e questi che nacquero i Proletari in Divisa, i PID di Lotta Continua.
Ci dobbiamo, però, ricordare sempre che stiamo parlando di questa società, in cui viviamo e che subiamo, della sua impostazione, dei suoi ruoli e degli scopi che il modello patriarcale e capitalista si prefigge ma non intendiamo assolutamente assimilare chi si arma e combatte per la libertà, siano uomini o donne, per l’ autodeterminazione, contro il sopruso e l’ingiustizia, alle divise che circolano in questo contesto sociale. La guerra di Spagna è stata un bell’esempio di lotta in cui le Mujeres Libres sono state trainanti e decisive nello scompaginamento dei ruoli patriarcali.
Molto spesso ci viene detto che i poliziotti, i militari e via dicendo sono gente di estrazione sociale povera e figli di povera gente che finiscono a fare quel mestiere per necessità. Ma questo non li assolve affatto, anzi li condanna doppiamente perché hanno consapevolmente tradito la propria classe di appartenenza e nemmeno li assolve la necessità perché la maggior parte di quelli che sono nelle loro condizioni fa scelte diverse e antitetiche.
E ci fa venire la pelle d’oca pensare che tutte queste divise sono state allevate da una donna che ha trasmesso loro dei valori contro la classe di appartenenza e contro se stessa. A conferma di quanto siano introiettati i valori patriarcali dalle donne che si fanno catena di trasmissione della loro stessa oppressione. E’ per questo che è imprescindibile la visione di genere anche nei contesti antagonisti e rivoluzionari.
Combattere la violenza contro di noi significa combattere anche il modello socio-economico che la alimenta, combattere i ruoli, la gerarchia, la meritocrazia, l’autoritarismo, lo sfruttamento, rifiutare la delega e l’affidamento allo Stato e alle esperte ed esperti……portare avanti una lotta di genere e di classe….in una parola uscire da questa società.
le coordinamente