“A proposito di Torino”
Il tribunale di Torino ha assolto in questi giorni un uomo accusato di violenza sessuale perché “il fatto non sussiste”. Nelle motivazioni si legge che la donna non avrebbe «tradito quella emotività che pur doveva suscitare in lei la violazione della sua persona». La vittima ha detto solo “basta”, non ha chiesto aiuto, non ha urlato.
Ora non solo la donna che ha sporto la denuncia dovrà accettare il fallimento della sua causa, ma dovrà rispondere anche di calunnia, perché la prima sezione penale presieduta dalla giudice Diamante Minucci ha trasmesso gli atti al pubblico ministero non ritenendo “verosimile” la sua versione dei fatti. Non c’è assolutamente percezione di come si possa reagire alla violenza sessuale, di cosa sia in effetti la violenza sessuale e di come le donne siano sempre soggetti in difficoltà psicologica, fisica e culturale di fronte alla violenza che viene loro inflitta perché costruite secondo un canone in cui l’abitudine alla soggezione e la paura del giudizio portano persino all’incapacità di reazione. Tutto ciò è ormai da anni patrimonio del movimento femminista ed è stato elaborato in riflessioni di tutti i tipi.
Ma la sentenza non è dovuta al fatto che la magistratura non è abbastanza educata a riconoscere la violenza di genere, o al fatto che non vengono fatti corsi di formazione adeguati per giudici, magistrati, poliziotti, forze varie così dette dell’ordine. Non è il risultato di un’arretratezza culturale riguardo alla violenza sulle donne che ne impedisce la percezione e la valutazione da cui deriverebbe la necessità, come va propagandando la socialdemocrazia femminile, di rapportarsi con lo Stato e di renderlo adeguatamente edotto rispetto a questa violenza.
E’ semplicemente dovuto al fatto che la ruolizzazione sessuata e la soggezione delle donne sono parte integrante del modello economico-politico-sociale. E non si può pensare di scardinare il ruolo sessuato che fa parte di una organizzazione del lavoro piramidale, gerarchica e meritocratica coltivando una visione di tutela categoriale.
Il fatto che il giudice sia una donna è esemplare. Questo sistema coltiva ed incentiva l’emancipazione come mezzo di promozione personale, spinge le donne affinché si mettano al servizio del potere e assumano la scala di valori neoliberista e patriarcale. E l’assunzione dei valori dominanti è necessariamente a tutto campo. La giudice che ha emesso questa sentenza è la stessa che ha condannato nel maggio del 2014 dei militanti NoTav a pesanti pene per banalità avvenute al cantiere di Chiomonte ed è la stessa che ha presieduto la corte che sempre a Torino ha inflitto undici condanne da nove mesi a un anno e due mesi ai militanti che avevano manifestato contro il comizio di Salvini nel marzo 2015. Ed è la stessa che ha condannato nel gennaio di quest’anno a un anno e dieci mesi di reclusione una madre per maltrattamenti sui sette figli, su denuncia del marito.
In una società come la nostra fondata sulla violenza, sull’ineguaglianza, sullo sfruttamento, la socialdemocrazia ha portato in dote la capacità di imbellettarsi, e uno di questi belletti dovrebbe essere l’attenzione alla violenza sulle donne, ma nulla può essere scisso dal contesto in cui vive e di cui si nutre. L’esperienza ci ha insegnato che le donne nelle istituzioni si sono messe, insieme ai maschi, al servizio del sistema. L’emancipazionismo usato come fine e non come mezzo ha stravolto il percorso di liberazione, confondendo piani che avrebbero dovuto essere solo strumentali, con piani di rottura dell’ordine sessista e classista stabilito, riportando la lotta femminista a modalità funzionali a questo sistema, anzi facendone un fiore all’occhiello del sistema stesso.
Un abisso divide l’insieme donne in questo momento storico e anche se l’oppressione che subiamo è trasversale allo spazio e al tempo e attraversa tutte le classi e le frazioni di classe, ci sono donne che scelgono strade di liberazione e altre che scelgono di perpetuare il dominio patriarcale e di contribuire a opprimere le altre donne e tutti gli oppressi.
La sentenza di Torino esplicita, ancora una volta e in maniera evidente chi si colloca da una parte e dall’altra dell’abisso.