Il lavoro e il tempo della vita
“Ho pensato a quanto spiacevole sia essere chiusi fuori e ho pensato a quanto peggio sia essere chiuse dentro” Virginia Woolf
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Il lavoro diventa sempre più precario, fragile, volatile. E’ in atto una crescente precarizzazione e questo è un aspetto di una crisi più vasta e duratura che non è casuale, ma voluta dal capitale nella stagione neoliberista. La fantasia del capitale è sfrenata e senza limiti. Le varianti che ha saputo immaginare e mettere in atto sono tantissime: quelle a progetto, a termine e, l’ultima invenzione, il lavoratore/trice che si fissa la remunerazione da solo/a, strumento attivo della propria svendita. Il paradosso è che si parla sempre più di lavoro proprio nel momento in cui viene sempre più stravolto. Lo stesso paradosso che avviene per l’ambiente, per la natura, per gli aiuti al terzo mondo, per la povertà.
Nei lavoratori predomina la paura e la depressione e questo si risolve in una lotta per la sopravvivenza. Al contratto sociale si sostituisce sempre più il contratto commerciale fondato sul rapporto esterno e sul subappalto. Il lavoro è sempre meno un posto di riferimento, è sempre più un fattore di disorientamento e incertezza. La scarsa attenzione per gli esclusi è l’altra faccia della moneta, e la filigrana è il disinteresse per le generazioni future, ma paradossalmente si risolve anche nel rimuovere ogni speranza di sicurezza nei confronti della propria vecchiaia. Ed è tutto accompagnato da un’amnesia nei confronti del passato, anche prossimo.
Alle normali vittime si sono aggiunti i ceti medi, gli operai qualificati/e, i tecnici/che e i liberi/e professionisti/e. In definitiva la borghesia imperialista o sovranazionale, comunque la si voglia chiamare, ha rotto unilateralmente il patto sociale. Mentre la precarietà e l’instabilità del lavoro rendono drammatico il nostro presente, le multinazionali impongono l’alienazione gioiosa nelle imprese. Per queste il lavoro è diventata una nuova religione, chi lavora deve lavorare di più e guadagnare di meno. Superlavoro che lascia poco spazio agli affetti, al tempo libero, alla comunità, all’impegno civile e politico. Si vive sul luogo di lavoro e quest’ultimo è esasperato nei tempi, negli orari, nel ritmo da chi interessatamente presenta il lavoro come una grande e bella avventura attraverso un clima di crociata contro i concorrenti, contro la burocrazia e i colleghi. Come nelle religioni c’è l’indottrinamento permanente, seminari di formazione, stage per fare punteggio, corsi di aggiornamento sono il credo dell’impresa. La sua missione, gli obiettivi, vengono declinati come un catechismo. Allo stesso modo si diffonde il concetto di responsabilizzazione. Il lavoro è femminilizzato nel senso che non c’è più differenza tra il momento privato e quello lavorativo e quest’ultimo si incardina in ogni momento della giornata. Non c’è più l’ufficio del personale e il capo del personale, tutto si traduce nella gestione delle risorse umane. La precarietà del posto, l’aumento del carico di lavoro sono accompagnate dalla mistica della realizzazione personale.
Il lavoratore/trice deve dare se stesso/a completamente all’impresa ma quest’ultima non si fa nessun problema quando deve licenziare, indifferente alle conseguenze. I dipendenti, al lavoro e spesso anche fuori, devono essere raggiungibili e reperibili in qualsiasi momento e si utilizzano le nuove tecnologie, badges magnetizzati, video di sorveglianza, cellulari di servizio, posta elettronica… tutta una serie di protesi tecnologiche.
Ma tutto questo a noi non è nuovo. A noi donne è sempre stata chiesta la dedizione assoluta al nostro lavoro-non lavoro, il lavoro riproduttivo e di cura. Nel lavoro di cura e riproduttivo non esiste la differenziazione tra il tempo del lavoro e il tempo libero, non esistono ferie e vacanze. Il coinvolgimento nelle sorti dell’impresa, vale a dire della famiglia, intesa anche nella sua accezione più varia ed allargata o ristretta, moderna o post moderna, è totale. Il tempo della vita è assimilato al tempo del lavoro e il tempo del lavoro a quello della vita in una perenne sovrapposizione e coincidenza. Il capitale, in particolare, è stato così bravo, poi, da ammantare il tutto di connotati romantici. L’amore romantico è quello che permette il nostro asservimento volontario al lavoro di cura e riproduttivo, quell’alienazione gioiosa che il neoliberismo vuole oggi dai lavoratori e dalle lavoratrici per cui ci si realizza solamente in una dedizione assoluta e senza rimpianti perché questo è il nostro unico orizzonte possibile. E per chi non ci sta, come per le streghe, stigma, condanna ed esclusione sociale. La nostra esperienza di genere oppresso può essere più che mai utile in questo passaggio storico per suggerire, escogitare, trovare e mettere in atto vie di fuga e percorsi di ribellione. Più che mai genere e classe e meno che mai quote rosa e recinti protetti.
Un fenomeno che caratterizza l’attuale momento e sfugge ad ogni censimento è quello dei sottoccupati/e. Per i disoccupati/e, i dati sono taroccati perché basta lavorare un giorno in un mese per essere arruolati tra gli occupati. La sottoccupazione invece sfugge ad ogni tipo di censimento ed è spesso inglobata nella definizione “impieghi atipici”, termine generico che indica tutti quei lavori che in un modo o in un altro derogano dalla normativa prevista dai contratti di lavoro a tempo indeterminato, per modo di dire perché il tempo indeterminato non esiste più, o a tempo determinato. Al suo interno ricade anche il lavoro a tempo parziale. E’ in questa categoria che si trova la maggior parte dei sottoccupati e, in maniera particolare le donne, con l’equivoco non tanto innocente di farla passare per una libera scelta. Il lavoro a tempo parziale si è sviluppato in alcuni settori: commercio, alberghi, ristorazione, servizi a privati e pertanto i “working poors” non sono più un’esclusiva americana. Non poteva essere altrimenti stante il ruolo degli Usa come Stato del capitale e come culla del neoliberismo e quindi il fenomeno non poteva che irradiarsi anche nell’Europa occidentale.
L’ultima trovata, i lavoratori/trici diventano associati, termine neutrale, magari anche accattivante, che maschera il ruolo subalterno e la dimensione di super sfruttamento e che poi fa coppia con il ruolo del lavoratore manager di se stesso. Tutto questo porta con sé il ritiro nel privato, la rassegnazione, l’indifferenza alla politica e il tempo libero poco e rarefatto diventa tempo morto. Come nelle bidonvilles e nelle favelas del terzo mondo le classi subalterne tentano sempre di più la fortuna al gioco che promette vincite facili e una svolta nella vita.
Tutto ciò è violenza, violenza strutturale, e il neoliberismo si incarna in una sorta di macchina infernale che si impone agli stessi ceti borghesi. Gli effetti del neoliberismo realizzato sono la miseria di una parte sempre più grande delle società economicamente più avanzate, lo straordinario aumento del divario tra i redditi, la progressiva scomparsa degli universi autonomi.
Questo si realizza con una fondamentale rimessa in discussione delle forme attuali e costituzionali della democrazia rappresentativa e di una vera privatizzazione della decisione pubblica. E’ l’affermazione del “governo d’impresa”. In questo quadro le democrazie parlamentari sono subordinate all’impresa e si trasformano pertanto in un regime. Così come da decenni la politica statunitense è pervasa dalla cancrena degli interessi delle multinazionali che tramite le lobby al Congresso hanno trasformato quel paese in una loro dittatura senza alcuna mediazione politica. Questo è il destino che la socialdemocrazia sta attuando nei paesi europei e in Italia questo avviene attraverso il PD, destra moderna che naturalizza il neoliberismo da noi.