L’invenzione linguistica di Daniela Pellegrini

L’invenzione linguistica di Daniela Pellegrini

Liberiamoci della bestia,ovvero di una cultura del cazzo/(secondo libro) di Daniela Pellegrini. Dalla presentazione a Apriti Cielo, Milano, 20 aprile 2016,

di Giuliana Savelli

Se lo stile del pamphlet corrisponde perfettamente alla struttura del libro di Daniela, come ha messo bene in risalto Chiara Martucci nel suo intervento a Apriti Cielo, a me sembra che il discorso possa scorrere così rapido e incisivo perché fondato sulla figura del paradosso. Paradosso nel senso proprio: l’essere un’affermazione contraria all’opinione comune (dal greco parà – doxa), ma anche una legge fisica il cui enunciato, pur essendo esatto, sembra apparentemente errato. E soprattutto fondato sulla logica paradossale; una logica che scorre dentro e sopra i contrasti, accettandoli – includendoli, vedendoli – che lascia loro la possibilità di evolversi attraverso una trasformazione. Un modo di ragionare e di sentire che segna già un’uscita da una ragione astratta, disumana (Maria Zambrano) e dal dualismo coatto del patriarcato, il libro, infatti, esplica questo movimento: traversando i percorsi di riflessione delle donne e le pratiche femministe – in prima linea quella dell’autrice – offre un percorso alternativo, salvifico direi, rispetto alla distruttività del patriarcato.

Dove il fulcro del paradosso? Nell’aver riportato allo scoperto, nella rimessa a fuoco del potere e del simbolismo patriarcale, la sua origine primaria, l’affondo, cioè, delle sue radici nella differenza sessuale, quando il maschio, in tempi lontanissimi, si costituì come soggetto dominante, l’uno, e la femmina divenne l’altro da sé, il due, l’oggetto da inferiorizzare e da sfruttare. Da penetrare a proprio piacere prendendosi la prole. Differenza “fondata sull’abuso e la permissività violenta” tutt’ora viva e operante su grande e piccola scala, nonostante la nostra assuefazione e la maschera di civiltà che tende a deviarne l’attenzione. Questa memoria, riattivata e condensata nell’immagine del fallo, conferisce al libro una grande agilità che permette all’autrice di passare dal presente ad epoche lontane, dal piano culturale simbolico alla realtà storica, dalla nostra civiltà occidentale a quella mussulmana (la cui radice è analoga; Pellegrini è un’appassionata lettrice di antropologia) con la consapevolezza che è possibile sottrarsi a un dominio asfittico e violento, e aprire luoghi di armonia e di liberta individuale: lo spazio terzo, sempre auspicato dalla Pellegrini, dove la materia pensante del corpo delle donne, della natura stessa, ritrova dignità e bellezza. [Vorrei dire, per inciso, che anche gli gnostici, per i quali solo la parte minoritaria dell’umanità era destinata a un percorso spirituale, rappresentavano la massa degli esseri umani, schiavi dei propri istinti egoici, come esseri priapeschi, dominati dal loro deforme attributo sessuale, con parola moderna, il cazzo].

Del libro di Daniela mi ha colpito l’ampiezza della trattazione, documentata passo passo con riferimenti bibliografici, testimoni di un discorso non improvvisato ma meditato nel tempo; forse qui è stato importante l’appoggio di Laura Vicinelli (calorosamente ringraziata, Gratitudini, 106) che ha saputo ancorare l’esuberanza dell’autrice ai propri percorsi di lettura e di ricerca. Il libro è una sintesi dell’attività di Daniela, espressione della sua lucidità, della sua energia, e della sua fiducia nel futuro.

L’aspetto, però, che più mi ha incuriosito e divertito è stata l’invenzione linguistica, scoppiettante, giocosa – implacabile – incentrata sulla metafora fallica. Ne do solo qualche esempio. La metafora – essendo il fallo, o il cazzo, un attributo reale e simbolico – non ha nulla a che fare col turpiloquio ma diventa veicolo di una disamina irriverente, beffarda, irata, che spesso sorprende per l’affilatezza icastica, a volte (raramente) irrita per la radicalità senza concessioni, più spesso smaschera comportamenti barbari ancorati al “trogloditismo dell’umano”. Troglodita è una parola introdotta dall’autrice per indicare una degradazione dello stato di natura e dell’umano: di fatto uno stato d’incultura – non umana. Altro che homo sapiens! L’unica cosa eretta della bestia è il fallo di cui fa testo (sterone) la ferocia. La sua abnorme espansione ha generato nel campo economico il liberismo testoteronico (33) rapinatore, violento; ha sviluppato, in campo scientifico, un falso pro (gr) esso dove domina l’abuso indiscriminato che la bestia impone, im-pene, a suo uso e consumo.

Avidità, distruzione, arbitrio segnano l’avanzare della bestia in una dismisura che è fuori da ogni sensato rapporto. Anche il logos, di cui la mostruosa creatura va orgogliosa, è un logos testoteronico (37) volto a fini utilitaristici per la bestia stessa e nella sua astrazione volto a coprire una naturalità insensata, incivile – l’insipienza, l’incoscienza beata e mistificata che parla di civiltà e porta avanti devastazione fino allo sterminio (cromosomico!). Ah, dimenticavo, il Pil, il prodotto interno lordo, ossessione della nostra economia, nel paragrafo, Il prodotto PIRL e la distribuzione, diventa il PIRL (la erre chiusa in un tondo come nei marchi), da pirla, parola “che in milanese significa membro e stupido (62)”. [Del resto, aggiungo, stimati economisti su un’altra linea si sono scagliati contro il Pil dimostrando che i criteri in uso per definirlo sono insufficienti, inadatti a valutare il benessere e il progresso sociale. Stiglitz, Sen, Fitoussi, Il Pil misura sbagliata della nostra vita, 2012]

La metafora si sviluppa in termini degenerativi – e come non condividerla, basta guardare un telegiornale. L’abnormità fallica è espressione di malattia, di un’alterazione patologica che tutto corrompe e infetta: la bestia è portatrice insana di un virus i cui sintomi sono una sordità autistica che la rende insensibile al dolore altrui, e una cecità obnubilante che la fa sentire irresponsabile di fronte alla comunità.

Pellegrini mette a confronto nel corso del libro la violenza malsana della bestia con la storia delle donne. Una storia deturpata, deformata, a cominciare dalla perdita di bellezza di quel corpo, materia pensante negata, deprivato del suo spontaneo crescere e fiorire. L’autrice ha ben presente l’elaborazione femminista, la sua ricerca a ritroso nel tempo (e nell’inconscio) per rintracciare un femminile intatto, potente, e le complesse operazioni messe in atto per cancellarlo sul piano simbolico e religioso. Su questa linea è avvenuta la trasformazione di una trinità tutta al femminile (la Grande Dea di M. Gimbutas) a una trinità di soli maschi del dio patriarcale. In questo ambito Daniela dedica un paragrafo alla prima Transgender divina, la Madonna (50-54) – che risata! – una figura inventata dalla dogmatica cattolica [distorcendo una tradizione millenaria (il culto di Iside)], per vincolare le donne a un immaginario angusto: tenerle prigioniere e vittime consenzienti. Un esempio della Sindrome di Stoccolma (citata nel libro anche se non in questo passo).

Una ventata d’aria buona percorre il testo, quella del luogo terzo, sostenuto da sempre da Daniela; uno spazio di libertà fuori dal disordine; libertà dalla bestia, e libertà di riscoprirsi e progettare; basta pensare ai gruppi di autocoscienza, di cui Daniela auspica la ripresa con la loro sottile indagine di desideri e dipendenze; o anche al Cicip&Ciciap, un luogo, il ritrovo di Milano, quanto mai vivo e bizzarro, fondato da Daniela e Nadia Riva, che per più di 30 anni ha offerto spazi di vita, di riflessione, dibattito e gioco. Nuove interpretazione lessicali e neologismi percorrono anche lo spazio terzo, ad esempio l’espressione “rigenerazione condivisa” per indicare il desiderio reciproco di una coppia di mettere al mondo un infante, o l’introduzione in italiano della parola Ginealogia usata dalle curde combattenti nel loro programma di rinnovamento sociale e politico che pone al centro la donna. Belle le pagine sulle curde e su altri movimenti di donne nel mondo come quello de Le madri della Plaza de Majo (paragrafo, Natura e sviluppo culturale, 98 -102)

Dicevo all’inizio che il libro ha una conclusione aperta, non Conclusioni aperte sul che fare (107), un’offerta di riflessioni, appunti, una rimessa a punto sull’autocoscienza con le sue modalità pratiche (109); e l’indicazione di una pagina face book per contatti: Facebook LIBERIAMOCI DELLA BESTIA (108).

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