Siamo tutte prigioniere politiche
La scelta del neoliberismo di chiudere ogni spazio di mediazione non è soltanto una maniera utilitaristica di togliere servizi e stato sociale, ma è una vera e propria modalità di controllo collettivo.
E’ cominciato tutto dal mondo del lavoro e da qui si è irradiato a macchia d’olio in ogni aspetto e anfratto della vita.
Gerarchizzazione, meritocrazia, autoritarismo, ricatto lavorativo, precarietà hanno abolito ogni forma di contrattazione tra chi lavora e chi detiene le chiavi del modello economico. La precarizzazione non è altro che uno strumento di ricatto e di ridefinizione dei rapporti di forza con tutte e tutti. Il comando di fabbrica si è così esteso a tutto il sociale trasformando completamente i rapporti di classe. I rapporti di forza sono fortemente squilibrati.
La dichiarazione unilaterale della fine della mediazione e, quindi, della rottura del patto sociale, ha tracciato un solco visibile tra chi detiene il potere e le classi subalterne.
Ci ricorda i fossati che circondavano i castelli e che segnavano fisicamente la differenza di classe: chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori. Distanza che si percepisce anche ora. I centri urbani sono sempre più caratterizzati da una città degli dei, in cui si entra soltanto in certe ore e con certe modalità, per lavorare, per servire o per partecipare ai riti collettivi della subalternità, e le periferie sempre più ghettizzate e trattate come territori pericolosi.
Questa distanza fisica e sociale sancita dalla fine di ogni mediazione si ripete in ogni ambito sia sul fronte interno che sul fronte esterno.
La filiera del comando parte dagli Stati Uniti che hanno la pretesa di porsi come Stato del capitale e momento organizzativo delle multinazionali anglo-americane e arriva alla socialdemocrazia riformista, qui da noi il PD, che si è assunto l’incarico di naturalizzare il neoliberismo nel nostro paese.
I popoli del terzo mondo, in questo progetto, devono rinunciare a qualsiasi tentativo di autodeterminazione, si devono assoggettare, devono accettare di essere sudditi dell’impero o pagare a caro prezzo perché la risposta è la destabilizzazione con la colonizzazione neoliberista caratterizzata da guerre interetniche, religiose, tribali, appositamente fomentate, che dividono, scardinano ogni tentativo di autonomia, disgregano Stati. Chiunque sia considerato asimmetrico al progetto imperialista viene affrontato con la modalità violenta della guerra, ammantata dalla tutela dei diritti umani, delle donne e delle diversità, della democrazia. Il terrorismo viene creato appositamente dalle potenze occidentali in modo da essere usato in qualsiasi momento venga ritenuto utile e, allo stesso tempo, è un’etichetta, un marchio itinerante, che perseguita tutti quelli che osano ribellarsi. Anche qui non è prevista nessuna possibilità di mediazione.
Sul fronte interno la chiusura di ogni trattativa a qualsiasi titolo con le oppresse e gli oppressi, comporta considerare le classi subalterne come delinquenziali, le loro lotte prive di qualsiasi dignità politica, le loro rivendicazioni da sopprimere con la forza.
L’ unica risposta del neoliberismo, qui e nel terzo mondo, è quella militare e poliziesca.
Ma se siamo tutte e tutti lette/i e considerate/i come delinquenti, la nostra risposta deve essere altrettanto forte.
Siamo tutte e tutti detenute/i politiche/i.
Siamo noi a respingere qualsiasi forma di mediazione. Siamo noi a dichiarare che ci assumiamo collettivamente e per intero la responsabilità politica di ogni lotta passata, presente e futura. Affermando questo viene meno qualunque rapporto con il potere noi non abbiamo niente di cui essere accusate e di cui rispondere.
Mentre al contrario tutti/e coloro che rappresentano e supportano il sistema neoliberista devono rispondere della pratica criminale del regime che essi rappresentano.
Ne consegue la necessità di rifiutare ogni collaborazione con il potere a qualsiasi titolo.
Con questa dichiarazione intendiamo riportare lo scontro sul terreno reale.
Una detenuta politica prima di tutto deve rivendicare il suo status. Respingiamo la logica vittimizzante che ci dichiara oppresse/i e tanto più quella spoliticizzata che ci dichiara povere/i.
Siamo prigioniere e prigionieri e come tali abbiamo il diritto-dovere di liberarci.